IL FREDDO CHE PIACE
È il più stellato d’italia, ha cinque ristoranti e partnership internazionali. Eppure Enrico Bartolini mantiene l’aplomb, non appare. E continua a creare
Peccato che abbia rifiutato di fare il giudice a Masterchef perché sarebbe stato il killer perfetto. Un accenno di sorriso, poche taglienti parole sussurrate con garbo e si sarebbero potute raccogliere le spoglie del concorrente senza sforzi da parte della regia. Enrico Bartolini, chef aureolato da abbondanti stelle Michelin e cappelli della Guida de L’espresso, potrebbe essere l’assassino educato e insospettabile di un crime inglese tanto gli piace stare sotto traccia. «Non amo la visibilità, non amo esporre i miei contenuti. Sono normale, sono noioso, e mi piace essere così». Difatti, curiosamente per uno chef che in Italia ha cinque ristoranti di proprietà, più due bistrot in cui è socio, più una partnership sul lago di Como, a cui vanno aggiunte tre attività fra Hong Kong, Abu Dhabi e Dubai, è raro sentir esclamare con la stessa enfasi con cui lo si direbbe, per esempio, di Carlo Cracco: «Stasera abbiamo prenotato da Bartolini!». Non è un caso, è un suo giochetto. Tanto che ha scelto di firmare con nome e cognome solo due ristoranti: quello all’interno del Mudec, il Museo delle Culture Contemporanee di Milano, e La Trattoria a Castiglione della Pescaia dentro il Relais L’andana. I due bistrot, sempre milanesi, si chiamano Pandenus; Glam è il ristorante di Palazzo Venart a Venezia; Casual quello di Bergamo Alta; La Locanda del Sant’uffizio quello del Relais Sant’uffizio a Cioccaro di Penango nel Monferrato, a cui aggiungere il recentissimo Lido di Lenno sul lago di Como. Poi ci sono Spiga a Hong Kong e Roberto’s, i due ristoranti a Dubai e Abu Dhabi. Un elenco poderoso, che sarebbe anche noioso se non servisse a dare la misura, unica in Italia, delle capacità imprenditoriali di questo cuoco appena quarantenne, nato a Pescia in Toscana, al lavoro nella modesta
trattoria pistoiese dello zio prima di fuggire verso Parigi, Londra, Berlino, approdando per un paio di anni alle Calandre di Rubano, per ripartire in solitaria vincente.
«Scusi, ma come fa?», gli chiedono i curiosi pensando all’impegno imprenditoriale necessario a impostare, controllare, correggere, gestire le 150 persone che lavorano per lui. «Imprenditore è una parola che mi fa spavento, io mi sento forte addosso l’artigianalità del cuoco e l’incontro armonico con le persone che lavorano con me, dal maître al lavapiatti, protagonisti del mio prossimo libro», minimizza lui. Tuttavia immaginarlo sofferente di split personality sarebbe ingenuo. Lui è − come dire? − il freddo che piace, lo chef che fa della pacatezza e della riservatezza la sua cifra intrigante. Piace ai clienti della finanza perché è ambizioso e controllato come loro; piace alle signore perché è (piuttosto) bello ma non gioca a fare il seduttore; piace ai buongustai per la cucina contemporary classic, ovvero tradizionale fusa con una moderata sperimentazione; piace a chi cerca il piacere estetico dell’ambiente e della tavola. Di fat- to bisogna riconoscergli un occhio micidiale nello scovare giovani talenti che, condivise le linee guida, procedono in autonomia. Ogni tre mesi la macchina si ferma per uno stop psico-tecnico: «Ci guardiamo indietro, facciamo la critica ai tre mesi trascorsi e ritariamo». Per dire: le Alici saor e carpione, piatto poverello/ snob del 2005, oggi è piatto lussuoso/snob con l’aggiunta di caviale, ostriche e cren. Alcuni classici, tra cui il fotografatissimo Risotto alle rape rosse e gorgonzola, chiusi in un menu dedicato, restano invece intoccati per il piacere dei curiosi e dei nostalgici. Poi, al Mudec che funge da laboratorio sperimentale ci sono le ultime novità. Qui Bartolini perde l’aplomb anglosassone per tre secondi: «Per la prima volta ho osato proporre riso e latte, uno dei piatti della mia infanzia» (solo che lo fa con un civet di sottobosco profumato al pepe verde); «Per la prima volta ho inserito un pesce tra i secondi» (è un astice blu in crosta con porcini e tarassaco al curry); «ho rivoluzionato il dessert fondendo in uno i cinque dolci più universalmente amati: il soufflé, il panettone, la zuppa inglese, la meringata, lo zabaione». La sua idea è offrire un “lusso bello da vivere”: dieci, quindici tavoli in un posto piacevole, con un grande servizio, dove si mangiano cose buone, cucinate in modo moderno ma comprensibile, dove si può invitare chiunque con la certezza di fare bella figura: la zia per il suo compleanno, l’ospite di riguardo, le amiche da festeggiare. E – perché no? – se stessi en solitaire. Una prova, questa, che fa tremare i polsi a qualsiasi chef. Perfino ai molto bravi che sanno di esserlo, come Enrico Bartolini.
Si dice: “Avere gli occhi foderati di prosciutto” per parlare di qualcuno che non vede o finge di non vedere. Ma non è sempre così, dipende da fetta a fetta. Se tagliata con una Berkel è difficile farla franca. Esiste un manifesto pubblicitario del 1905 disegnato da Aleardo Terzi che gioca proprio su questo modo di dire. «Un macellaio alza una fetta di prosciutto appena tagliata con una Berkel davanti al volto di una cliente: è così sottile che riesce a vederci attraverso». Da questa immagine d’archivio Giuliano Reas, amministratore delegato di Berkel, inizia a spiegare uno dei molteplici motivi del successo della famosa azienda di macchine affettatrici che quest’anno celebra 120 anni.
La storia del marchio comincia alla fine dell’ottocento dall’apprendista in un’azienda metallurgica e poi macellaio, Van Berkel: si deve a lui l’invenzione di quello che allora fu un vero e proprio strumento rivoluzionario, un’affettatrice in grado di riprodurre meccanicamente il taglio perfetto che solo la mano di un professionista poteva ottenere. Studiò dunque il movimento della mano e del coltello mentre affettava la carne, cercando di riprodurlo con una lama concava che veniva fatta ruotare azionando una manovella. Così il 12 ottobre 1898 a Rotterdam, Wilhelmus brevettò la prima Berkel, il Modello A.
«All’inizio i nomi venivano indicati con le lettere poi sono stati aggiunti i numeri, come l’ormai iconica Volano B114, riconosciuta come un pezzo di storia dell’industria meccanica e che, per l’anniversario, abbiamo riprodotto con materiali e dispositivi di sicurezza totalmente nuovi», spiega Reas.
Il nuovo modello è fedele allo storico per il design vintage e per il colore rosso Berkel (brevettato) ma è anche arricchito dalla scritta Van Berkel International Milano, per certificare il “fatto in Italia”. In tutto e per tutto visto che dal 2004 l’azienda è di proprietà del gruppo lombardo Rovagnati che dal 2016 ha acquisito anche la storica coltelleria friulana Del Ben di Maniago.
Sia l’affettatrice sia i coltelli vuoi per la grande utilità pratica, vuoi per l’aspetto estetico inconfondibile, si ritrovano oggi all’interno di ristoranti e gastronomie di qualità: «Gli chef Enrico Bartolini e Giancarlo Morelli sono stati tra i primi a esibirla». Ma la Volano entra anche