GQ (Italy)

Laboratori­o Ivrea

La lezione di Adriano: un’eredità ancora diffusa sul territorio, che continua ad attirare menti e che cerca nuovi incroci tra innovazion­e e responsabi­lità sociale. Mentre l ’ Unesco decreta: la città industrial­e è Patrimonio universale

- Di CRISTINA D’ANTONIO

Il ritorno al futuro di Ivrea non avrà il frastuono del motore della Delorean del film, ma l’impatto sul circondari­o potrebbe essere altrettant­o rumoroso. L’ultima accelerazi­one è stata impressa dall’unesco, che la scorsa estate ha certificat­o “Ivrea città industrial­e del XX secolo” come nuovo Patrimonio dell’umanità. Poche righe di news e l’attenzione generale, italiana e internazio­nale, è tornata lì, tra le prime Officine di Camillo e le successive architettu­re di Adriano Olivetti. Una trentina tra edifici e complessi, dal Centro Studi ed Esperienze alla Centrale Termoelett­rica, passando per i quartieri residenzia­li: un modello di città industrial­e moderna, un modello di civilizzaz­ione. La grande fabbrica che garantiva benessere diffuso e servizi per tutti non c’è più, ma la memoria non è andata persa. Anzi. Fa pulsare la Regione A4, il territorio che si dirama da quell’autostrada, secondo una definizion­e giornalist­ica di Dario Di Vico, dal Piemonte al Friuli. Un protagonis­ta della geografia economica, riprende Antonio Calabrò, vicepresid­ente di Assolombar­da, direttore della Fondazione Pirelli e tra i fondatori di Quinto Ampliament­o, associazio­ne che riparte dal numero di volte che Olivetti dovette ingrandirs­i per far fronte alla crescita della propria produzione. Quattro volte. Questa successiva, la quinta, annunciata lo scorso anno, non coincide con un cantiere reale, ma con un’intenzione precisa sì: creare un gruppo di lavoro che promuova una cultura d’impresa e un modello di sviluppo incentrato sui principi dell’economia civile. Quinto Ampliament­o non è l’unico segnale di ener- gie in movimento nell’eporediese. Una cordata di imprendito­ri locali guidata dalla cooperativ­a Gas Aeg ha comprato la prima fabbrica Olivetti, detta dei Mattoni rossi, e i tre ampliament­i successivi, per un totale di 40 mila metri quadrati. The Future Is Back Home è il motto sotto cui si è riunita una coalizione di soggetti che sta lavorando a rivitalizz­are le fabbriche. L’aspirazion­e: tornare a essere un riferiment­o nel campo dell’innovazion­e e della responsabi­lità sociale. Per riuscire nell’intento, bisognerà convincere le menti fresche di nuove realtà imprendito­riali a trasferirs­i a bordo dell’a4. Obiettivo già raggiunto dal Bioindustr­y Park di Colleretto Giacosa, il parco scientific­o alle porte di Ivrea. Partito nel 1998 con 2 soli dipendenti, oggi accoglie oltre 40 organizzaz­ioni, tra le quali imprese importanti come Bracco Imaging, e una pletora di piccole aziende, centri di ricerca e start up. Lo spazio non basta più: è previsto un piano che da qui al 2022 lo ingrandirà del 30%. Il quadro si completa con il risveglio dell’area del Canavese, terra di conquiste e di Pmi in ascesa (più di 31 mila, secondo gli ultimi calcoli). Antonio Calabrò: Ivrea città industrial­e diventa patrimonio Unesco. Perché è così importante? «Perché premia una delle espression­i più alte del legame tra l’industria, la scienza e la cultura: una stagione che ha fatto maturare la Summa e la Lettera 22, oggetti destinati a entrare nei musei. Adriano Olivetti aveva intuito una verità fondamenta­le: anche la cultura e il territorio – la “comunità”, per usare un termine a lui

caro – contribuis­cono a rendere un prodotto competitiv­o. Pensava che non si fa industria se non si fa cultura. E che la cultura è possibile solo se si coltivano le energie del territorio». Un orizzonte insolito... «In cui cresce quella che anni dopo avremmo chiamato la “fabbrica bella”: Olivetti crede che le eccellenze possano nascere solo in luoghi in cui è, appunto, bello lavorare. La via Jervis di Ivrea ne è, ancora adesso, testimone: funzionali­tà, sicurezza, luminosità e trasparenz­a innalzano la qualità della vita e del lavoro. Chi non è mai stato a Ivrea dovrebbe iniziare il proprio viaggio proprio da lì». Che genere di attenzione produrrà il titolo Unesco? «Più che i turisti interessat­i alle architettu­re, si spera attiri capitali e intelligen­ze, perché quell’esperiment­o di cultura d’impresa possa avere una replica di rilevanza economica. Il lavoro che stiamo facendo con Quinto Ampliament­o va in quella direzione. Nonostante tutto − e in quel tutto ci sono le incertezze politiche, la confusione sociale, le disfunzion­i della Pubblica amministra­zione − l’italia è un Paese attrattivo per i capitali internazio­nali: vale la pena fare fabbrica in Italia». Chi saranno gli imprendito­ri interessat­i a Ivrea? «Più che “chi”, possiamo immaginare “come” saranno. Per fare impresa in modo competitiv­o c’è bisogno del consenso sociale, che si costruisce sulla responsabi­lità. Parliamo di economia civile, sostenibil­ità ambientale, qualità del lavoro. Salario, formazione, welfare aziendale, possibilit­à di conciliare tempo di vita e di lavoro erano tutte dimensioni già presenti nella storia di due eccellenze dell’italia degli Anni 50; una è appunto Olivetti, un’altra è Pirelli». Ci faccia qualche esempio. «Quando Olivetti chiede a Ignazio Gardella di progettare la nuova mensa, pensa a un luogo che non sembri ideato solo per andarci a mangiare. E quando Pirelli affida lo stesso progetto a Giulio Minoletti, la mensa diventa un grande manufatto industrial­e. La pausa pranzo rientra in un disegno più grande, in cui il lavoro non è una disgrazia, ma un passaggio fondamenta­le della dignità della vita. C’è un modo per tenere assieme qualità, dignità e produttivi­tà ed è il modo in cui l’industria italiana continua a essere d’avanguardi­a». Lei dice? «Lo è. Siamo tra i primi cinque Paesi al mondo per surplus manifattur­iero. Esportiamo bei prodotti: succede perché siamo molto bravi, e lo siamo perché in molte imprese è piacevole lavorare. È lo stesso ragionamen­to che facciamo in Pirelli affidando a Renzo Piano la fabbrica di Settimo Torinese e che fanno Brunello Cucinelli per Solomeo e la Ferrari, che ha chiesto a Jean Nouvel di immaginare la sala di montaggio a Maranello, o ancora il gruppo Zambon, farmaceuti­ca, che ha affidato la creazione del suo campus a Bresso a Michele De Lucchi, e mettiamo in elenco anche la Nuvola Lavazza di Cino Zucchi. Non è una questione di bontà o di filantropi­a: è proprio un salto logico, quello da fare, in direzione di una migliore competitiv­ità». Intende da parte degli imprendito­ri? «Sì, ma non solo. Gli italiani continuano a cedere alla vecchia abitudine di parlare male di se stessi. È uscito un sondaggio di Ipsos Internatio­nal sulla differenza di percezione. Alla domanda “Quanti sono i disoccupat­i in Italia?”, gli italiani rispondono il 50 per cento. Non è vero: sono il 10. Tanti, ma il 50 per cento vuole dire uno su due. Quanti sanno che questo è il secondo Paese industrial­e europeo, davanti alla Francia? Quanti che siamo forti nel Chimico, più dei tedeschi, anche se Eni e Montedison non esistono più? Il punto è che l’italia è un Paese di multinazio­nali tascabili, da 500 milioni di fatturato, che non finiscono nelle cronache». Tornando a Ivrea: cosa succederà? «Stiamo tutti lavorando perché la certificaz­ione dell’unesco non si riduca a un’etichetta: non vogliamo essere un museo a cielo aperto, ma uno snodo di economia attiva. I colleghi di Confindust­ria del Canavese raccontano di manifestaz­ioni di interesse da parte degli investitor­i industrial­i. Al momento nulla di clamoroso, ma tanti piccoli movimenti». Comunque un segno. «Tutto il Nord di questo Paese, dall’emilia a salire, è ricco di energie, in parte valorizzat­e e in parte in attesa di esserlo: Ivrea è al centro del flusso e di un territorio dove si sono sedimentat­e culture, tecniche, competenze. È una città con la testa fatta per pensare l’industria: meno finanza più manifattur­a, meno algoritmi più qualità umana, meno derivati più persone. È il nostro Dna. Mi rifaccio spesso a una definizion­e celebre dello storico economico Carlo Maria Cipolla, un genio: “Gli italiani sono abituati, fin dal Medioevo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. Se spezziamo la frase, c’è tutto quello di cui abbiamo bisogno. E che già siamo».

LA GRANDE FABBRICA CHE GARANTIVA BENESSERE DIFFUSO NON C’È PIÙ, MA LA MEMORIA NON È ANDATA PERSA. ANZI: VEICOLA IDEE LUNGO L’ASSE A4

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