Laboratorio Ivrea
La lezione di Adriano: un’eredità ancora diffusa sul territorio, che continua ad attirare menti e che cerca nuovi incroci tra innovazione e responsabilità sociale. Mentre l ’ Unesco decreta: la città industriale è Patrimonio universale
Il ritorno al futuro di Ivrea non avrà il frastuono del motore della Delorean del film, ma l’impatto sul circondario potrebbe essere altrettanto rumoroso. L’ultima accelerazione è stata impressa dall’unesco, che la scorsa estate ha certificato “Ivrea città industriale del XX secolo” come nuovo Patrimonio dell’umanità. Poche righe di news e l’attenzione generale, italiana e internazionale, è tornata lì, tra le prime Officine di Camillo e le successive architetture di Adriano Olivetti. Una trentina tra edifici e complessi, dal Centro Studi ed Esperienze alla Centrale Termoelettrica, passando per i quartieri residenziali: un modello di città industriale moderna, un modello di civilizzazione. La grande fabbrica che garantiva benessere diffuso e servizi per tutti non c’è più, ma la memoria non è andata persa. Anzi. Fa pulsare la Regione A4, il territorio che si dirama da quell’autostrada, secondo una definizione giornalistica di Dario Di Vico, dal Piemonte al Friuli. Un protagonista della geografia economica, riprende Antonio Calabrò, vicepresidente di Assolombarda, direttore della Fondazione Pirelli e tra i fondatori di Quinto Ampliamento, associazione che riparte dal numero di volte che Olivetti dovette ingrandirsi per far fronte alla crescita della propria produzione. Quattro volte. Questa successiva, la quinta, annunciata lo scorso anno, non coincide con un cantiere reale, ma con un’intenzione precisa sì: creare un gruppo di lavoro che promuova una cultura d’impresa e un modello di sviluppo incentrato sui principi dell’economia civile. Quinto Ampliamento non è l’unico segnale di ener- gie in movimento nell’eporediese. Una cordata di imprenditori locali guidata dalla cooperativa Gas Aeg ha comprato la prima fabbrica Olivetti, detta dei Mattoni rossi, e i tre ampliamenti successivi, per un totale di 40 mila metri quadrati. The Future Is Back Home è il motto sotto cui si è riunita una coalizione di soggetti che sta lavorando a rivitalizzare le fabbriche. L’aspirazione: tornare a essere un riferimento nel campo dell’innovazione e della responsabilità sociale. Per riuscire nell’intento, bisognerà convincere le menti fresche di nuove realtà imprenditoriali a trasferirsi a bordo dell’a4. Obiettivo già raggiunto dal Bioindustry Park di Colleretto Giacosa, il parco scientifico alle porte di Ivrea. Partito nel 1998 con 2 soli dipendenti, oggi accoglie oltre 40 organizzazioni, tra le quali imprese importanti come Bracco Imaging, e una pletora di piccole aziende, centri di ricerca e start up. Lo spazio non basta più: è previsto un piano che da qui al 2022 lo ingrandirà del 30%. Il quadro si completa con il risveglio dell’area del Canavese, terra di conquiste e di Pmi in ascesa (più di 31 mila, secondo gli ultimi calcoli). Antonio Calabrò: Ivrea città industriale diventa patrimonio Unesco. Perché è così importante? «Perché premia una delle espressioni più alte del legame tra l’industria, la scienza e la cultura: una stagione che ha fatto maturare la Summa e la Lettera 22, oggetti destinati a entrare nei musei. Adriano Olivetti aveva intuito una verità fondamentale: anche la cultura e il territorio – la “comunità”, per usare un termine a lui
caro – contribuiscono a rendere un prodotto competitivo. Pensava che non si fa industria se non si fa cultura. E che la cultura è possibile solo se si coltivano le energie del territorio». Un orizzonte insolito... «In cui cresce quella che anni dopo avremmo chiamato la “fabbrica bella”: Olivetti crede che le eccellenze possano nascere solo in luoghi in cui è, appunto, bello lavorare. La via Jervis di Ivrea ne è, ancora adesso, testimone: funzionalità, sicurezza, luminosità e trasparenza innalzano la qualità della vita e del lavoro. Chi non è mai stato a Ivrea dovrebbe iniziare il proprio viaggio proprio da lì». Che genere di attenzione produrrà il titolo Unesco? «Più che i turisti interessati alle architetture, si spera attiri capitali e intelligenze, perché quell’esperimento di cultura d’impresa possa avere una replica di rilevanza economica. Il lavoro che stiamo facendo con Quinto Ampliamento va in quella direzione. Nonostante tutto − e in quel tutto ci sono le incertezze politiche, la confusione sociale, le disfunzioni della Pubblica amministrazione − l’italia è un Paese attrattivo per i capitali internazionali: vale la pena fare fabbrica in Italia». Chi saranno gli imprenditori interessati a Ivrea? «Più che “chi”, possiamo immaginare “come” saranno. Per fare impresa in modo competitivo c’è bisogno del consenso sociale, che si costruisce sulla responsabilità. Parliamo di economia civile, sostenibilità ambientale, qualità del lavoro. Salario, formazione, welfare aziendale, possibilità di conciliare tempo di vita e di lavoro erano tutte dimensioni già presenti nella storia di due eccellenze dell’italia degli Anni 50; una è appunto Olivetti, un’altra è Pirelli». Ci faccia qualche esempio. «Quando Olivetti chiede a Ignazio Gardella di progettare la nuova mensa, pensa a un luogo che non sembri ideato solo per andarci a mangiare. E quando Pirelli affida lo stesso progetto a Giulio Minoletti, la mensa diventa un grande manufatto industriale. La pausa pranzo rientra in un disegno più grande, in cui il lavoro non è una disgrazia, ma un passaggio fondamentale della dignità della vita. C’è un modo per tenere assieme qualità, dignità e produttività ed è il modo in cui l’industria italiana continua a essere d’avanguardia». Lei dice? «Lo è. Siamo tra i primi cinque Paesi al mondo per surplus manifatturiero. Esportiamo bei prodotti: succede perché siamo molto bravi, e lo siamo perché in molte imprese è piacevole lavorare. È lo stesso ragionamento che facciamo in Pirelli affidando a Renzo Piano la fabbrica di Settimo Torinese e che fanno Brunello Cucinelli per Solomeo e la Ferrari, che ha chiesto a Jean Nouvel di immaginare la sala di montaggio a Maranello, o ancora il gruppo Zambon, farmaceutica, che ha affidato la creazione del suo campus a Bresso a Michele De Lucchi, e mettiamo in elenco anche la Nuvola Lavazza di Cino Zucchi. Non è una questione di bontà o di filantropia: è proprio un salto logico, quello da fare, in direzione di una migliore competitività». Intende da parte degli imprenditori? «Sì, ma non solo. Gli italiani continuano a cedere alla vecchia abitudine di parlare male di se stessi. È uscito un sondaggio di Ipsos International sulla differenza di percezione. Alla domanda “Quanti sono i disoccupati in Italia?”, gli italiani rispondono il 50 per cento. Non è vero: sono il 10. Tanti, ma il 50 per cento vuole dire uno su due. Quanti sanno che questo è il secondo Paese industriale europeo, davanti alla Francia? Quanti che siamo forti nel Chimico, più dei tedeschi, anche se Eni e Montedison non esistono più? Il punto è che l’italia è un Paese di multinazionali tascabili, da 500 milioni di fatturato, che non finiscono nelle cronache». Tornando a Ivrea: cosa succederà? «Stiamo tutti lavorando perché la certificazione dell’unesco non si riduca a un’etichetta: non vogliamo essere un museo a cielo aperto, ma uno snodo di economia attiva. I colleghi di Confindustria del Canavese raccontano di manifestazioni di interesse da parte degli investitori industriali. Al momento nulla di clamoroso, ma tanti piccoli movimenti». Comunque un segno. «Tutto il Nord di questo Paese, dall’emilia a salire, è ricco di energie, in parte valorizzate e in parte in attesa di esserlo: Ivrea è al centro del flusso e di un territorio dove si sono sedimentate culture, tecniche, competenze. È una città con la testa fatta per pensare l’industria: meno finanza più manifattura, meno algoritmi più qualità umana, meno derivati più persone. È il nostro Dna. Mi rifaccio spesso a una definizione celebre dello storico economico Carlo Maria Cipolla, un genio: “Gli italiani sono abituati, fin dal Medioevo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. Se spezziamo la frase, c’è tutto quello di cui abbiamo bisogno. E che già siamo».
LA GRANDE FABBRICA CHE GARANTIVA BENESSERE DIFFUSO NON C’È PIÙ, MA LA MEMORIA NON È ANDATA PERSA. ANZI: VEICOLA IDEE LUNGO L’ASSE A4