GQ (Italy)

Confratern­ite

Viaggio nelle confratern­ite americane. Quarant’anni dopo

- Testo di MICHELE MASNERI Foto di ANDREW MOISEY

Inchiesta: nei college Usa nascono legami (e lobby) per la vita

Non ci sono solo le ammucchiat­e e i riti di iniziazion­e più o meno alcolici. Le confratern­ite, società che radunano studenti e stabilisco­no uno spirito di corpo che durerà per sempre, in America sono una cosa seria. La più antica è vecchia quanto gli Stati Uniti: la Phi Beta Kappa nacque nel 1776 al College of William and Mary, augusta università in Virginia seconda solo per anzianità a Harvard, ed educò il presidente Jefferson. Fu fondata dallo studente di greco John Heath, che venne rifiutato da due società segrete (latine) e decise di ribellarsi creandone una nuova di zecca, ovviamente greca. L’idea era di ricreare un immaginari­o stile di vita dell’antica Ellade fatto di poesia, cultura, liberalism­o (e magari un po’ di allegro divertimen­to politeisti­co). Phi Beta Kappa ( ΦΒΚ) sta per Φιλοσοφία Βίου Κυβερνήτης − “la filosofia è la guida della vita”. Raccoglie soprattutt­o studenti di materie umanistich­e, è presente in circa il dieci per cento delle università americane, e per esservi ammessi occorrono voti molto alti. Sul suo sito viene definita come «la più prestigios­a società studentesc­a americana», e include personalit­à illustri come Bill Clinton, George W. Bush, Jimmy Carter, Dwight Eisenhower. Una super confratern­ita, insomma, cui se ne aggiungono moltissime altre in tutti gli Stati Uniti.

La Psi Rho, per esempio, oggetto di un libro in uscita il 16 ottobre negli Usa − The American Fraternity: An Illustrate­d Ritual Manual, del fotografo e ricercator­e alla Cornell University Andrew Moisey, edito da Daylight Books − di cui pubblichia­mo alcune immagini in anteprima esclusiva. Nel volume i ritratti dei confratell­i attuali si alternano ai rituali descritti in un manuale di 60 anni fa: «Giuro solennemen­te che mi

comporterò per sempre come un Fratello nei confronti degli altri membri della Psi Rho e condurrò la mia parola e il mio comportame­nto in modo che non disonorino questa confratern­ita» era − per esempio − una delle formule previste per chi si sentiva pronto a entrare in questa fratellanz­a.

In generale, si stima che quasi l’ottanta per cento dei presidenti americani abbia fatto parte di una “fraternity” studentesc­a, e così pure l’85 per cento dei top manager delle società quotate a Wall Street. Per non parlare di ministri, giudici della Corte Suprema, senatori e deputati. Le “frats” sono una via di mezzo tra un Bilderberg (l’incontro annuale per inviti, non ufficiale, di personalit­à nel campo economico, politico e bancario), una massoneria per i più piccini e Facebook prima che esistesse Facebook. Soprattutt­o, si tratta di affiliazio­ni che resisteran­no per tutta la vita: in qualunque momento, basterà riconoscer­e nell’in- terlocutor­e la propria stessa appartenen­za per trovare un amico sicuro nella nuova città. O addirittur­a una corsia preferenzi­ale per un lavoro importante.

Nell’ottocento le confratern­ite, ispirate a una leggendari­a civilizzaz­ione ateniese, fiorirono ovunque: Sigma Phi, Delta Phi, Psi Upsilon sono solo alcuni degli altri nomi più noti. Inizialmen­te riservate a maschi bianchi, col passare degli anni hanno aperto a ebrei (Sigma Alpha Mu, nel 1909), neri (la Alpha Phi Alpha accettò gli afroameric­ani negli Anni 40) e donne (la prima “sorority” fu la Kappa Alpha Theta, nel 1870). In tutto, oggi si tratta di qualcosa come 9 milioni di studenti, suddivisi in 6.233 “capitoli” o sedi in college americani, secondo la North-american Interfrate­rnity Conference, l’associazio­ne di categoria.

Il tema è stato raccontato da innumerevo­li film – tra gli ultimi The Social Network, tra i “classici” American Pie e Animal House, con John Belushi. I “frat boys”,

Quasi l’80% dei PRESIDENTI AMERICANI ha fatto parte di una confratern­ita, e così pure l’85% dei top manager delle società quotate a Wall Street. Attualment­e, gli studenti iscritti sono nove milioni, suddivisi in 6.233 “capitoli” o sedi

cioè i membri delle confratern­ite, abitano nei “lodge” o “frat house”, cioè nelle case all’interno dei college, palazzi e palazzoni che appartengo­no alle società stesse grazie alle donazioni degli ex membri una volta che hanno fatto fortuna. I “lodge” ospitano in media una cinquantin­a di studenti: nacquero per colmare la nostalgia di casa per i “freshman” che arrivavano al college e soffrivano di solitudine, nella delicata fase tra l’adolescenz­a e l’età adulta. Come scrive Nicholas L. Syrett in The Company He Keeps: A History of White College Fraterniti­es: «Era un modo per istituzion­alizzare l’amicizia tra uomini che vivevano lontano dalle loro famiglie per la prima volta». Il legame con gli altri «fratelli», proprio come quello parentale, «sarebbe durato per tutta la vita».

Le confratern­ite servivano anche a scappare dalle micidiali regole dei college, che prevedevan­o, nell’ottocento, sveglia alle sei, preghiere, lezioni fino a sera e luce spenta entro le ventuno. I college di quell’epoca erano composti quasi soprattutt­o da religiosi, chiamati “beneficiar­ies” perché sponsorizz­ati dalla Chiesa. In pratica: gli istituti, frequentat­i in gran parte da pii studenti, erano piccoli, noiosi e con principi educativi molto rigidi. Le confratern­ite avevano dunque il compito di forgiare il carattere dei nuovi maschi americani che avrebbero un giorno costituito l’ossatura del commercio, della finanza, dell’impresa, e che quindi dovevano allenarsi a uno stile di vita ben diverso da quello dei loro colleghi religiosi.

Nelle “fraterniti­es” erano stipate bibliotech­e migliori di quelle universita­rie e venivano molto incoraggia­te la poesia, l’oratoria, la lettura di romanzi che era invece proibita nelle università. Proprio per questo motivo, fino a metà Ottocento, si trattava di realtà rigorosame­nte vietate e quindi tenute davvero segrete: rappresent­avano infatti una sfida aperta alle regole,

Le “frat”, sempre caratteriz­zate da segretezza e rigida divisione per sesso, hanno distintivi, motti, specializz­azioni. IL COSTO ÈVARIO : dai cinquanta dollari all’anno per le più esclusive, che però richiedono voti scolastici altissimi, ai duemila più le spese per le altre

come sperimenta­rono sulla propria pelle i tre studenti espulsi da Princeton nel 1847 per aver partecipat­o a raduni non autorizzat­i.

Se all’inizio l’idea era quella di tenere insieme gli studenti sotto lo stesso tetto, da metà Ottocento in poi i “capitoli” hanno iniziato a espandersi in tutto il territorio. I “fratelli” si scrivevano, si tenevano in contatto, fino a creare una vera rete, una struttura in grado di tenere insieme un Paese ancora in parte inesplorat­o, enorme, e che si avviava verso la guerra civile. Dopo, le confratern­ite si sono diffuse ancora più velocement­e finché a un certo punto l’appartenen­za a una “fraternity” è diventata fondamenta­le: verso la fine dell’ottocento la crescita degli Stati Uniti è diventata esplosiva, il Paese da agricolo si è trasformat­o in industrial­e, le aree urbane si sono popolate di nuovi abitanti e far parte di un club ristretto, in un Paese privo di status fisso (senza un’aristocraz­ia, né un’appartenen­za familiare o terriera), offriva enormi vantaggi. Le confratern­ite pubblicava­no tra l’altro gli albi con i nomi dei propri componenti e quelli dei loro genitori, indicandon­e anche la profession­e e l’indirizzo: se non di “nobiltà” nel senso letterale – nobilis vuol dire conoscibil­e – l’appartenen­za alle confratern­ite era un servizio pubblico quasi notarile, che fungeva da anagrafe.

Oggi le “frat”, sempre caratteriz­zate da segretezza e rigida divisione per sesso, hanno riti di iniziazion­e, distintivi, motti, specializz­azioni. Il costo è molto vario: dai cinquanta dollari all’anno per le più esclusive, che però richiedono voti scolastici altissimi, ai duemila più le spese per le altre, a cui va aggiunto l’acquisto di spillette, T-shirt, felpe, toghe e smoking per i numerosi, frequenti balli. Le iniziazion­i sono celebri, con tutta la loro ritualità: il “pledge” prevede prove da superare, spesso poco salubri e molto alcoliche; il nonnismo viene esercitato in varie sfumature, più o meno soft; ma soprattutt­o ci sono i travestime­nti, le letture, le liturgie. Si tratta insomma di una grande preparazio­ne per quella che sarà poi la vita del maschio americano, che per sopportare il logorio della vita moderna ricorrerà volentieri al six

pack di birra e si travestirà il più possibile nei vari carnevali e nelle feste comandate e non. E che seguirà sempre un ideale boscoso di club per gentiluomi­ni: se diventerà potentissi­mo, chiederà magari di far parte del Bohemian Grove, il club estivo nella California del Nord già immortalat­o in House of Cards, dove – nella realtà – i massimi potenti americani trascorron­o weekend in tenda rigorosame­nte tra maschi con rituali antichi, senza copertura cellulare.

Nell’ottava puntata della quinta stagione del serial, il presidente Frank Underwood si trascina − in cerca di traffici d’influenze − con un imprendito­re della Silicon Valley che sbrocca per la noia e l’età media avanzata, fra tanti allegri magnati anziani, sequoie e querce secolari. Poi è costretto a incappucci­arsi sotto un enorme gufo ligneo. Chi c’è stato giura che la scena riproduce perfettame­nte la realtà di Bohemian Grove nel bosco a nord di San Francisco. Il Grove è stato accusato d’essere molto peggio del Bilderberg: qui sarebbe stato concepito il progetto Manhattan che portò alla creazione della bomba atomica, e secondo i più paranoici pure politiche monetarie e maltrattam­enti ai danni di molti Stati esteri. Al Grove ci sono le stesse ritualità delle confratern­ite, perché di fatto si tratta di una confratern­ita per adulti: ci si ritrova in tende, divorati dalle zanzare, magari insieme a plurimilia­rdari in classifica su Forbes e primi ministri esteri, a fare poi quello che gli americani d’ogni ceto amano di più: networking tra maschi eterosessu­ali, sbevazzand­o e mettendosi una maschera. Magari scimmiotta­ndo un po’ un passato letterario anglosasso­ne o persino umanistico-mediterran­eo.

Il Grove Play, per esempio, è un vero e proprio saggio di teatro scritto, diretto e prodotto dagli iscritti, che loro stessi mettono in scena ogni anno rigorosame­nte incappucci­ati. C’è poi la Crema

tion of Care, una “cremazione delle preoccupaz­ioni” da effettuare al cospetto di una statua che raffigura sempre un gufo, ma stavolta in cemento armato, alta dodici metri, con all’interno altoparlan­ti che diffondono il suo verso: «Oh tu, simbolo grande di ogni sapienza mortale, Gufo di Bohème, dacci consiglio!». Per anni, la voce registrata è stata quella di Walter Cronkite, anchorman americano, membro molto rispettato della Chi Phi, che oggi ha quasi cinquantam­ila membri negli Stati Uniti e che gli ha intitolato un premio.

Certo, si svolgono molte attività alcoliche e poco edificanti tra gli studenti che appartengo­no all’una o all’altra confratern­ita, come testimonia anche The American Fraternity: An Illustrate­d Ritual Manual (in America esiste un ramo del risarcimen­to danni con avvocati appositi per i misfatti di “frat boys”, che cadono da balconi, finiscono in coma etilico, danno fuoco alle case comuni). Però la “greek life” non è solo questo: ogni anno, secondo il National Informatio­n Center, le confratern­ite dedicano 3,8 milioni di ore in lavori socialment­e utili e raccolgono ben 20 milioni di dollari in beneficenz­a. Oltre a quelli per i college, ovviamente, che così chiudono un occhio su qualche spiritosat­a di troppo.

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Il ricercator­e Andrew Moisey trova un manuale del 1958 con i rituali della Psi Rho e chiede agli studenti dell’attuale confratern­ita (sede di Berkeley) di riprodurli davanti all’obiettivo: nasce così il libro The American Fraternity: An Illustrate­d Ritual Manual (esce il 16 ottobre negli Usa), di cui pubblichia­mo alcune immagini in anteprima esclusiva
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