Arturo Muselli
ARTURO MUSE L LI racconta il bello di ritrovarsi dopo anni, le notti con le sceneggiature di la depressione dell’attore. E la scelta di non stare ad aspettare quella chiamata
Enzo “Sangue Blu” racconta il codice dell’amicizia di Gomorra
Sole del mattino, reso ancora più forte dal riverbero pastello delle ceramiche di Vietri sulla terrazza del tautologico Hotel Miramare: vista da cartolina del Vesuvio. Al pian terreno lo Shaker Club, piano bar simbolo della Napoli da bere, accoglieva fino alla fine degli Anni 80 gli ospiti dei panfili in cerca di nottata. Quelli che avevano gettato l’ancora e, prima di puntare alla crociera caprese, volevano stappare nella città di Totò. Nell’immaginario del turista oggi c’è l’attrazione per il brivido delle Vele di Scampia, già quartiere-set di Gomorra. Girone architettonico del disagio, brulicante delinquenza. Quella dove fare the ultimate touristic experience, ovvero farsi scippare con entusiasmo la borsa. Come accade alla comitiva che scende dal bus nel musical Ammore e malavita dei Manetti Bros. Anche se ha perso il poco invidiabile primato di piazza di spaccio più grande d’europa, e crescono gli sforzi per cercare un riscatto umano e sociale, Scampia resta un luogo difficile. È in questo degrado che si è calato Arturo Muselli con la sua macchina fotografica per il progetto editoriale Cantiere 167 con testi di Angelo Petrella.
Sulla terrazza, con il sole che gli finisce negli occhi azzurrissimi, Arturo spiega. «Vogliamo raccontare la vita di Cantiere 167, centro sociale occupato da un collettivo di disoccupati e abitanti delle Vele, in lotta da oltre quarant’anni. Seguiamo le attività sociali, le feste di autofinanziamento, le manifestazioni di piazza. È un luogo di aggregazione per offrire un’alternativa ai tanti giovani del quartiere. Sullo sfondo c’è il miraggio dell’abbattimento delle Vele e di un esodo che condurrà gli abitanti a nuovi alloggi e, forse, a una vita migliore. Lontano dalle tentazioni criminali e con un lavoro finalmente garantito. La fotografia è il mezzo per osservare le vite degli altri e prendermi la loro verità. Se ti distacchi dalle persone e perdi il contatto dalla realtà, non puoi credere e far credere che stai dicendo qualcosa di vero. Qui sono un attore per i primi cinque minuti: autografi e foto. Poi con la mia macchina fotografica sono diventato altro. Una persona con cui parlare, condividere. Si è creato un rapporto paritario, perché se non comunichi usando la stessa lingua non c’è rispetto».
Muselli è un attore impegnato. Ma non per questo lavoro di sensibile ricerca, né perché voglia fare il sofista dello spettacolo. Anzi. Lo è perché vuole, fortissimamente vuole, fare semplicemente l’attore. «Quando leggo le interviste dei colleghi che dicono “faccio questo lavoro per caso”, mi incazzo. Perché chi come me vuole realizzare una passione, se le deve sudare le cose».
Muselli è diventato famoso come lo si diventa in Italia: grazie a un personaggio tv. Enzo di Gomorra non lo focalizza nessuno. Ma (Enzo) Sangue Blu, il giovane boss in campo dalla terza serie, lo conosciamo tutti. «Il personaggio batte l’attore. Ma ci sono vari round. Prima o poi ci prendiamo la rivincita. Gomorra è una vita sola, io ne voglio vivere tante».
IL PERSONAGGIO Dalla terza serie di Gomorra Muselli interpreta Enzo Sangue Blu, che stringe un alleanza con Ciro detto l’immortale, per il controllo del centro storico di Napoli
Tre croci sul collo trasformato in Golgota, di nero vestito con uno spolverino a mantello, svolazza come un Batman di Forcella a cavalcioni di un potente scooter, seguito da uno stormo di pipistrelli guaglioni. Sangue Blu ha portato la storia diretta da Claudio Cupellini e Francesca Comencini nei vicoli del centro storico di Napoli e nei quartieri alti dove ha un amico. È Valerio (interpretato da Loris De Luna), detto Vucabulà. Perché ha studiato, viene dalle belle ville di Posillipo, ma gli piace sporcarsi le mani con gli affari della Camorra.
«Sangue Blu ha un’umanità che però incontra la strada del male. L’amicizia per lui è fondamentale. I ragazzi del suo gruppo sono prolungamenti fraterni di sé. E con Valerio c’è un amore quasi omosessuale. I rapporti viscerali sono parte della napoletanità. Anzi la parte migliore, quella che non ci si può non godere nello spettacolo che la città offre. Genny e Ciro sono andati avanti per tre serie con la forza del loro rapporto. Ma nel mondo di Gomorra c’è la costante ricerca del potere come valore assoluto. E il potere uccide l’amicizia. Così, per ogni personaggio c’è la strada per l’inferno. Inferno che a ogni puntata si avvicina un po’».
Insomma, l’amicizia in Gomorra – serie di culto venduta in 190 territori, nata da un’idea di Roberto Saviano e tratta dal suo omonimo romanzo tradotto in 52 lingue, venduto in 10 milioni di copie nel mondo – finisce quasi sempre nella morte. «È la regola di un gioco sporco e serio. Altrimenti non ci sarebbe un vincitore e un vinto. La regola è anche non fidarsi di nessuno, amici, fratelli o familiari. Persone che sono cresciute insieme diventano nemiche per uno sgarbo tra famiglie. Il dispiacere di aver perso un amico esiste, non è che non ci sia autentica sofferenza per un tradimento. Ma il sangue, l’appartenenza, l’interesse vengono davanti a qualsiasi cosa. Non tutte le regole sono scritte con coscienza. In Gomorra accadono cose degne di Romeo e Giulietta, una storia di amicizia che cambia perché Mercuzio si fa uccidere per difendere Romeo da Tebaldo. Il potere dell’amicizia innesca la tragedia. Difende l’amico, però alla fine muore lui e scaglia l’anatema: La peste alle vostre famiglie, avete fatto carne da vermi di me
«In Gomorra accadono cose degne di Romeo e Giulietta, una storia di amicizia che cambia perché Mercuzio si fa uccidere per difendere Romeo da Tebaldo. E scaglia il suo anatema. Il potere dell’amicizia innesca la tragedia»
Anche Arturo aveva un’amica. Con lei ha inventato un modo di fare teatro nei luoghi più impensabili di Napoli, con pochi euro, in inglese, soprattutto William Shakespeare, proprio. È morta un anno fa. «Con Ludovica Rambelli ho avuto un rapporto molto forte. Sono stati anni bellissimi di grande condivisione. Ci sentivamo tutti i giorni, tutte le sere, la nostra compagnia è stata come un figlio. Ci sono mali che a volte non ti danno una seconda possibilità, ma la nostra amicizia non è finita, dura nei miei pensieri, nel modo di guardare determinate cose. Lei era con me quando ci chiedevano: “Ma perché recitate in inglese? Chi vi capisce? Chi viene a vedervi?”. La nostra risposta era: “Perché se la gente non è abituata a una cosa non gliela dobbiamo dare?”. Magari invece guardandoti recitare si mette a studiare, inizia a sforzarsi, si prende qualcosa dallo spettacolo, anche solo il gusto di aver capito una frase».
È proprio questo piacere di trasmettere, di osservare, di dialogare, di costruire rapporti umani che ha fatto emergere Muselli come attore. «Solo la sincerità, il difetto, l’assenza di velature portano all’amicizia vera. Ci deve essere l’onestà di essere quello che sei. Nell’amicizia cerco l’intimità di comprendersi senza tante parole. È capitato di recente di rincontrare due compagni del liceo. Non ci vedevamo da qualche anno, strade diverse, luoghi distanti. Eravamo seduti lì, come un tempo. Non era cambiato nulla. Di loro, all’epoca sapevo che sarebbero stati così. E hanno confermato le mie aspettative. È stato un ritrovarsi».
A proposito di aspettative: a casa Muselli non si riponeva tanta fiducia nell’idea di avere un attore in famiglia. «Sono figlio unico. Mio padre ex dipendente dell’enel, mia madre lavorava nel negozio di parrucchiere di mio nonno. Avevano una genuina preoccupazione: “Non conosciamo nessuno in quel campo, come possiamo aiutarti?”. Ho dovuto cominciare a dire: “Non mi occorre il vostro aiuto, è una cosa che voglio fare da solo”. Ma per il quieto vivere mi sono preso il pezzo di carta. A 24 anni avevo fatto il mio con la laurea in lettere moderne. Potevo rimettere la testa al teatro e sono partito per l’inghilterra. Ho cominciato a studiare inglese a quattro anni perché mi affascinava la lingua, i suoni mi sembravano naturali. A Londra ho trovato la mia forma di teatro, quella che racconta storie e incontra il pubblico senza cadere negli intellettualismi, senza eccessi di simbologia o interpretazione. Non mi piacciono le persone che vengono a teatro per darsi un tono, per dire a se stessi che sono colti, ma alla fine non scambiano nulla con gli attori».
Così Muselli ha capito che forse come attore non era tanto male, che c’era del talento su cui costruire, e che anche i suoi dubbi sul futuro erano paure da scacciare. «Ho messo in circolo un’energia artistica che prima non sentivo. Ho cominciato a fire a me stesso: “Passa sopra chi cerca di fermarti”. Non in chiave aggressiva, non come un fine che giustifica i mezzi, ma con il principio che se non trovo uno spazio per fare uno spettacolo vado a metterlo in scena in un ristorante, nel cortile dell’università, tra le barchette del porto. Non è un problema, non mi lascio bloccare dalle circostanze. Ho bisogno di non stare fermo ad aspettare la chiamata sul cellulare. La depressione di tanti attori arriva dall’attesa, che è uno spreco di energia. Mi sono detto che non potevo più attendere. Ho troppe idee e immagini da restituire, da far uscire da me. Perché se restano dentro fanno stare male».
I genitori volevano che dopo la laurea provasse a insegnare a scuola. «Ma non è una cosa per cui mi sento portato, è una responsabilità e un potere − quello del maestro − che non fa per me. Non sopporto le forme di chiusura, i blocchi. Peter Brook dice che nel teatro non esistono maestri. Ci sono persone che vi indicheranno delle strade, ma le strade resteranno comunque tante e varie. La diversità e la scoperta sono crescita». La sua, di crescita, avviene soprattutto all’actors Centre di Londra, un luogo di esercizio e formazione continua per attori professionisti che non stanno lavorando. «Ho cominciato a fare dei workshop con persone che volevano quello che volevo io: recitare. È come una palestra, perché l’attore quando non è sul set o in scena deve comunque allenarsi per sentirsi vivo. Solo così non si cede alla depressione. Che a un certo punto è arrivata anche per me. E stavo per smettere. Ma ho trovato la forza e l’orgoglio di risalire dall’apnea».
Fare domande su cosa ci aspetta per la quarta serie di Gomorra, che pare invaderà anche la City londinese con i suoi traffici, è davvero inutile. Da Arturo si ottiene solo un «sarà una serie piena di situazioni sempre più inaspettate». Di certo c’è che lui l’ha presa molto a cuore. «Leggo sempre di notte le sceneggiature perché ho bisogno di ragionare e di capire in silenzio. Bisogna percepire il dolore, farlo proprio. Non è una cosa detta per fare scena: l’attore soffre di più perché sa. È consapevole di come va a finire la storia. Ma recitando deve far capire il momento, senza superarlo: il personaggio che interpreti non lo sa cosa accade. Girare Gomorra equivale a otto mesi di tensione costante, nessuna scena è banale o leggera. E le radici del male sono così profonde che non capisci da dove nascano».
«L’attore soffre di più perché sa, è consapevole di come va a finire la storia. Ma recitando deve far capire il momento senza superarlo: il personaggio non sa cosa accadrà. Ecco perché girare la serie significa vivere mesi di tensione»
LA CARRIERA Muselli debutta al cinema nel 2004, nel film Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino. Nel 2017 era nel cast di La tenerezza di Gianni Amelio