L’ombra di Maradona
Corre ogni volta che lui lo chiama, lo accudisce, lo asseconda. Perché per STEFANO CE C I «stare vicino a Diego è come salvargli la vita»
Stefano Ceci è (sin da bambino) l’alter ego del campione argentino
A Dubai, tutte le sere, Stefano Ceci mette a nanna il suo eroe. «Raccolgo il succo di frutta da tavola, lo prendo sottobraccio, saliamo le scale e gli appoggio il bicchiere sul comodino. Poi gli metto il telefonino sotto carica e gli do il bacio della buonanotte, come si fa con un bambino». Una consuetudine solo momentaneamente interrotta da quando el pibe de oro alloggia all’hotel Flora di Culiacán, México, chiamato ad allenare la squadra dei Dorados di Sinaloa. Rocío Oliva, la giovane fidanzata del campione, assiste alla scena e ogni tanto protesta, ma quei due di farla finita non ne vogliono sapere: «L’altro giorno s’è fatto baciare in fronte tre volte», racconta Ceci, che su di lui ha libertà totale di pettegolezzo.
Da più di vent’anni, Diego Armando Maradona e il “Tano”, come lo chiama lui, vivono due vite intrecciate e parallele, in una specie di doppio sogno indistricabile, a tratti tragico, a tratti spassoso e romantico. Uno sognava di diventare il migliore amico di Maradona e ora è molto ma molto di più, l’unica persona fidata, manager e amico, «assistente confidenziale» si definisce. L’altro desiderava un adepto-martire da prendere e mollare, trattare bene e trattare male, scacciare nei momenti di gloria e chiamare in aiuto in quelli di difficoltà. Ne è nata una storia incredibile, raccontata nel libro che Ceci ha pubblicato per l’editore Rai Eri, Maradona: il sogno di un bambino. La più concreta testimonianza del rapporto fantastico e carnale che può nascere tra una celebrità e il suo più accanito e determinato ammiratore: «Quando mi processarono per traffico internazionale di cocaina il mio avvocato disse al giudice che se Maradona si fosse buttato giù da un ponte, allora l’avrei fatto anche io. La perizia dello psichiatra del Sert certificò che non ero dipendente dalla droga, ma da Diego. Avevano ragione». Nel dicembre 2004 viene incarcerato per dieci giorni, e poi condannato a sette mesi di arresti domiciliari. Arrestato e condannato, altra coincidenza, nello stesso mese e anno di Diego: «Ero solo un drogato, e pure stupido. Così stupido che mi ero spedito la cocaina da solo, con un corriere, con nome e cognome sul pacco. Altroché narcotrafficante. Praticamente ero lo spacciatore di me stesso». Ma anche in galera, Ceci riesce a vedere un segno del destino: «Vuole sapere che numero aveva la cella?». La risposta è ovvia: il dieci.
Stefano e Diego si sono conosciuti nel Duemila, a Cuba, dove Ceci era andato per cercarlo, spendendo 300 euro al giorno per farsi guidare sulle sue tracce da tale Pedro. Maradona era ricoverato alla clinica La Pradera, per approcciarlo Stefano gli porta una maglietta del Napoli originale e una palla Puma, da autografare: «Mi porse la mano sinistra, perché nell’altra teneva una Coca-cola. Vide il pallone e disse che se lo voleva tenere, ma rifiutai. Mi dette dell’hijo de puta e litigammo». Da quel giorno, però, sono inseparabili. «Ricordo il momento in cui sono entrato nelle sue grazie, gennaio 2001, nel mio secondo viaggio a Cuba», racconta. «Portai un Rolex per Diego e un accendino Cartier per l’allora manager Guillermo Coppola, e fui subito invitato a una festa. Quando arrivai, vidi Maradona che ballava da solo un pezzo di Santana, tenendo in equilibrio dei bicchieri sulla testa: per farmeli amici spesi duemila dollari di champagne Bollinger. Il giorno dopo dovevano partire tutti per l’argentina, e Coppola mi disse: “Porta un altro orologio la prossima volta, Diego ne usa sempre due”». Anche Ceci non esce mai di casa senza una coppia di Rolex ai polsi.
Inseparabili e a tratti indistinguibili, per gran parte della loro amicizia: stesso modo di camminare, stessi capelli, stessa corporatura. «Una volta, in penombra, mi fece indossare la sua maglietta per fargli da controfigura mentre faceva una sveltina nel bagno di un ristorante. La sua fidanzata non si accorse di nulla». Soffrono dello stesso dolore al ginocchio destro e del medesimo mal di schiena. Sono stati alcolizzati assieme, portano gli stessi tatuaggi e tre orecchini di diamanti, due al lobo sinistro e uno al destro, in parallelismo perfetto. «Più di una volta sono intervenuto al suo posto, al telefono, durante le trasmissioni della tv italiana», dice Ceci da Dubai, dove risiede per non lasciarlo mai solo. «Visto che abbiamo la stessa calligrafia, ho scritto io la dedica autografa per i trent’anni di Del Piero, pubblicata in pompa magna da un quotidiano nazionale. E una volta mi passarono al telefono perfino Ibrahimovic, che ci cascò in pieno».
Sono diventati obesi assieme e si sono sottoposti all’intervento di bypass gastrico nello stesso ospedale di Cartagena, in seguito a una serata di reciproci convincimenti a casa di Salvatore Bagni: «Dopo la cocaina e l’operazione, Diego cominciò a bere: e con lo stomaco in quelle condizioni, l’alcol si assorbe in un attimo. Io stesso l’ho visto ubriacarsi tutte le sere e trangugiare coppe di Dom Pérignon appena sveglio: se il dottor Alfredo Cahe, dieci anni fa, non gli avesse fatto una puntura di calmante obbligandolo al ricovero a Buenos Aires, sarebbe morto, e io con lui». Hanno convissuto per 18 anni nella stessa villa da 500 metri quadrati alla Palm Jumeirah di Dubai, con tre filippine, la cuoca e l’autista che alterna una Rolls-royce e una BMW i8 elettrica, di cui Diego si disinteressa completamente.
Mamma casalinga e cinque fratelli, Stefano Ceci è cresciuto nella classica famiglia napoletana che vive perennemente al di sopra delle proprie possibilità. «Mio padre era dipendente dell’azienda di trasporti, finito in pensione a quarant’anni e assunto dopo aver perseguitato l’ex sindaco di Napoli. Da piccolo lavorava al porto, il tipico scugnizzo che guadagnava trecento dollari al giorno con gli americani sbarcati dopo
la Liberazione. Ricordo che negli Anni 70 vendemmo un appartamento e ci spendemmo tutto in vacanza, l’estate successiva». Trentacinque anni fa si trasferiscono tutti a Catanzaro Lido per inaugurare alcune pizzerie, ora chiuse: «Appena arrivati, mia madre ci guardò negli occhi e disse: “Se ci vedono a Napoli, ci sputano in faccia”».
Quando parla della vita di Diego la descrive come noiosa, se non piatta, «con l’umore di solito non dei migliori». Abituato a essere servito, dice, da solo non sa fare nulla, tanto che una volta ha quasi mandato a fuoco la villa di Dubai, causando un cortocircuito nel semplice tentativo di cambiare una lampadina. Con uno dei fratelli ha litigato, con l’altro si parla a stento. Le figlie sono diventate grandi e non lo vanno mai a trovare. Con la moglie è separato, ci sono alcuni contenziosi economici in ballo. E gli amici arrivano sempre più raramente: «Amore, Diego, ne ha davvero poco». Chi si avvicina, dice Ceci, di solito lo fa per denaro: «Io invece mi sono sempre pagato tutto, hotel e aerei. Quando era a Cuba a disintossicarsi ci sono andato dieci volte in un anno, viaggiando in business a spese mie. Ero tossicodipendente ma prima di partire restavo pulito per due settimane, altrimenti non mi avrebbero fatto entrare nella clinica. Un sacrificio enorme». Diego invece, a sentire il suo
«Quando era a Cuba a disintossicarsi ci sono andato dieci volte in un anno. Prima di partire non mi facevo per settimane, se no non potevo entrare nella clinica. Una fatica tremenda»
amico più caro, sacrifici non ne fa per nessuno: «La maggiore gratificazione che può darti è rivolgersi a te nel momento del bisogno». Chiamate che Ceci ha raccolto tutte, fino allo sfinimento, e nelle situazioni più assurde: «Per esempio le infinite partite di golf a cui mi costringe, dalle dieci del mattino alle tre di notte. Diego che colpisce una pallina fluorescente e io che devo stare sulla bandierina sventolando un fazzoletto, per fargli prendere la mira, con un milione di zanzare a sbranarmi».
Situazioni impossibili ma anche decine di occasioni spassose e fruttuose: gli incontri con Maduro, il presidente venezuelano. I bidoni tirati al figlio di Gheddafi e ad altri milionari: «Coi politici e i potenti diventa dispettoso». La cena con venti cinesi, organizzata da Ceci, pronti a sborsare 500 mila dollari solo per averlo a tavola. Il russo che gli ha fatto autografare tre quadri, a 30 mila dollari l’uno. Ma poi di nuovo il buio, a un passo dalla tragedia: «Un giorno eravamo a Punta del Este ed ebbe un infarto: aveva sniffato tutta la cocaina e mangiato da solo due chili di asado. Ebbe un collasso. Per almeno quaranta secondi, Diego se ne è andato in cielo». Sul motivo per cui fa tutto questo, la risposta di Ceci è quella di un fratello, di un cieco, di un padre innamorato: «È semplice: gli voglio bene. E stargli vicino è come salvargli la vita».
«Mi costringe a infinite partite di golf. Diego che colpisce una pallina fluorescente e io che devo stare sulla bandierina sventolando un fazzoletto, per fargli prendere la mira»