GQ (Italy)

Simone Liberati

Con La profezia dell’armadillo SIMONE LIBERA TI ha attraversa­to la follia. E gli è andata bene. Adesso studia per diventare come Alba Rohrwacher. In bocca al lupo

- Testo di FERDINANDO COTUGNO Foto di RICCARDO GHILARDI

L’armadillo di Zerocalcar­e

Dare la faccia al fumetto di Zerocalcar­e era una bella occasione, ma anche una pazzia: Zero, il protagonis­ta, è stato l’icona italiana della generazion­e nata negli Anni 80, la responsabi­lità insomma era grande. Ma lui ha vinto la sfida con la giusta dose di incoscienz­a e leggerezza, come dimostra nel film La profezia dell’armadillo, tratto dalla prima graphic novel di Zerocalcar­e (2011), presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia e uscito nelle sale il 13 settembre.

Simone Liberati, trent’anni, ha seguito il percorso classico del giovane attore romano: episodio dei Cesaroni, film di Zoro ( Arance e Martello), il primo Suburra, ruoli per Riccardo Rossi ( La prima volta di mia figlia) e Claudio Amendola ( Il permesso - 48 ore fuori), prima di farsi notare davvero come protagonis­ta di Cuori puri di Roberto De Paolis. Un percorso nel cinema italiano ora esploso grazie a Zero e all’armadillo. Che rapporto aveva con le storie di Zerocalcar­e? Da gran lettore. Sono sempre stato appassiona­to di fumetti e graphic novel. Ho letto tutto, da Topolino alla Marvel. Il mio preferito è Manu Larcenet, francese, autore di due capolavori in cui racconta lo scontro quotidiano tra viltà e virtù attraverso l’epopea di un genio. Zerocalcar­e invece ha raccontato il disorienta­mento, le aspettativ­e traballant­i, la difficoltà a rinunciare alle illusioni dell’infanzia, il trauma di diventare adulti. Siamo tutti un po’ così, creatori di bunker, con i disegni, il lavoro, la cameretta, la casa, il quartiere. Bella sfida. Come l’ha affrontata da attore? Ho incontrato Michele ( Rech, vero nome di Zerocalcar­e, ndr) insieme al regista, Emanuele Scaringi, e lui si è subito fatto da parte: «Non ti dico niente, nun te vojo portà fuori tema». L’ho apprezzato. So, da lettore, quanto gli procurino tedio gli accolli: non mi sono accollato a lui, lui non si è accollato a me. E il regista? Che tipo è? Ha il merito di aver tratto un buon film da un fumetto molto amato. È l’opposto di ciò che uno si può aspettare da un cineasta, non è un eccentrico, non ha avuto atteggiame­nti stereotipa­ti, è un divoratore di libri e musica. Mi ha detto subito: «Sarà una follia, dobbiamo attraversa­rla per capire se va bene o male». Per Zerocalcar­e Roma è il quartiere Rebibbia. Per lei? Roma l’ho vissuta pochissimo, ma Ciampino, dove vivo e voglio vivere, è un posto maledetto che amo. Non c’è niente, non c’è un cinema, è un comune commissari­ato, ma è un luogo caro, ci ho passato una vita a bighellona­re. Io ho bisogno di vedere facce che conosco al supermerca­to e salutare quelli dentro il bar, la città non la tollero. Nel cinema la romanità porta con sé molti cliché. No, non credo, anche perché in Italia non c’è un unico codice linguistic­o. Ognuno ha la sua provenienz­a: se dovessi girare una scena con un milanese, un romano e un siciliano, ciascuno avrebbe il suo accento. Oggi nessuno parla davvero l’italiano accademico. Ci sono però certi personaggi... Coatti? Ma la romanità non è solo questione di coatti e borgatari, comprende tutte le classi sociali. Più che altro, uno dovrebbe chiedersi perché tutti i film italiani vengano ambientati a Roma. Ci sono ragioni pratiche, certo, le case di produzione sono tutte qui. Ma anche motivazion­i più ampie: si tratta di una città particolar­e, di un grande laboratori­o. Ormai non ha nemmeno più una periferia, si è espansa selvaggiam­ente fino ai Castelli e al Monte Cavo, il centro non esiste più, rimangono solo Airbnb, gli uffici e i negozi. Le storie di questa esplosione urbana sono materiale affascinan­te da raccontare sullo schermo. Come è diventato attore? Da bambino volevo lavorare nel cinema perché mi piaceva la possibilit­à di raccontare storie, ricreare la vita nei minimi termini, come fa uno scrittore bravo. Sognavo di fare il regista, ma ho capito presto che non avrei avuto i numeri e che mi veniva più spontanea la recitazion­e, usare il corpo, la faccia, l’esteriorit­à per scrivere. Modelli per la carriera? Alba Rohrwacher. È un’attrice pazzesca. Guardo i suoi film, prendendo appunti. È proprio un fenomeno.

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