LA MAPPA DEL TESORO
A lungo gli economisti sono stati convinti che le differenze tra persone e luoghi sarebbero sparite con l’adeguamento dei mercati. È successo il contrario: ecco come globalizzazione, nuove tecnologie e Paesi emergenti stanno cambiando la distribuzione del
La crescita della politica populista − di sinistra e di destra − in molti Paesi occidentali ha aumentato l’attenzione pubblica nei confronti delle aree geografiche in cui i voti in questa direzione sono risultati predominanti. Gli schemi elettorali del contro-establishment sono evidenti ovunque, ma tendono a prevalere in alcune aree, tra cui le Midlands e il Nord dell’inghilterra, le aree rurali dell’austria, degli Stati Uniti e della Scandinavia, quelle poco industrializzate della Francia e le regioni orientali della Germania. Qui, oggi le preferenze politiche appaiono decisamente diverse rispetto a quelle di molte delle zone più prospere e più densamente popolate, e questo suggerisce che diverse esperienze socio-economiche possono rendere conto di diverse scelte elettorali. La geografia è un tema centrale nei dibattiti politici, più di quanto lo sia stata nei decenni scorsi. Nel mondo degli studi accademici, delle politiche sociali e dei sondaggi elettorali, molto lavoro è ora dedicato alla comprensione di questi trend e di ciò che rappresentano per l’economia politica e di governo locali. L’impatto della moderna globalizzazione, in positivo e in negativo, è stato infatti molto diverso non solo tra una nazione e l’altra, ma anche tra diverse zone di uno stesso Paese. E queste differenze spesso mettono in difficoltà la coerenza politica e la coesione sociale, poiché alcune regioni diventano sempre più prospere mentre altre sono costrette ad arrancare. Ovviamente ogni nazione ha le sue specificità, cui però fanno da contrappunto anche alcuni elementi comuni. Distinguere tra elementi simili e diversità è essenziale, se le nostre società vogliono trovare il modo di progredire sul sentiero del buon governo negli anni a venire. Le forze che guidano questi cambiamenti sono infatti di carattere globale a livello geografico e tematico, e spesso superano la capacità di controllo dei singoli governi. Quindi, anzitutto è necessario comprendere i tratti della moderna globalizzazione e considerare come città e regioni ne siano state coinvolte. Oggi dal mercato valutario di Londra passano ogni giorno circa 2 miliardi di miliardi di dollari e in città vengono quotidianamente firmati contratti derivati per 1 miliardo di miliardi di dollari. Per contestualizzare questi dati, pensiamo che nell’arco di una sola settimana, sempre attraverso il mercato di Londra vengono movimentate transazioni che equivalgono a metà del prodotto annuale delle economie degli Usa e dell’unione Europea. E stiamo parlando di un solo centro finanziario. Ecco il punto: il potere del mercato globale è immenso e la natura stessa della globalizzazione lo ha costretto a cambiamenti fondamentali. L’avvento di questa globalizzazione moderna (contrapposta a quella imperiale, tra il XVI e il XIX secolo), che si colloca tra la fine degli Anni 80 e l’inizio dei 90, rappresenta il cambiamento più rilevante in tutta la storia dell’economia. Tra il 1988 e il 1994, il crollo del sistema sovietico e la caduta del Muro di Berlino hanno portato all’espansione dell’economia del mercato europeo, mentre la rapida apertura delle gigantesche economie emergenti in Cina, India, Brasile, Indonesia e Sudafrica − avvenute quasi dall’oggi al domani − hanno aumentato di un terzo le dimensioni del mercato globale. Nello stesso tempo, la costituzione del Mercato Unico dell’unione Europea, del North American Free Trade Agreement e dell’organizzazione Mondiale del
Commercio − insieme alla decuplicazione dei trattati di doppia imposizione e a quelli di investimento bilaterale − hanno facilitato enormemente i movimenti di denaro, beni e servizi oltre i confini nazionali. Questi cambiamenti economici e istituzionali hanno avuto come conseguenza un rapido aumento nella quantità e velocità di esternalizzazione e delocalizzazione da parte delle economie avanzate, favorite in questo anche dalla svolta epocale avvenuta nel 1991 grazie a Tim Berners-lee con la creazione del world wide web: le nuove tecnologie di informazione e comunicazione hanno permesso infatti alle aziende occidentali di gestire e monitorare in un modo prima impossibile le proprie attività in Paesi lontani. L’impatto è stato enorme. Per prima cosa, molte attività di tipo routinario, sia nei servizi che nell’industria, hanno potuto facilmente essere esternalizzate e delocalizzate. In passato, questo tipo di attività era svolta dalla classe media, sia in termini sociali che economici e manageriali. Molti di questi lavoratori per esempio non possedevano un’istruzione di livello universitario, ma avevano acquisito le proprie competenze sul campo. E attribuivano anche grande valore alla fedeltà aziendale, finché si sono scoperti via via sempre più disillusi vedendo scomparire i loro posti di lavoro: con la delocalizzazione, infatti, nei Paesi d’origine questi ruoli sono stati sempre più spesso sostituiti da un numero inferiore di cariche di livello più alto, che richiedono maggiori competenze intellettuali, impiegate nelle cosiddette “città globali”. Dove cioè hanno sede le aziende delocalizzatrici, più a proprio agio con l’ambiente del commercio globale. Queste attività ad alta retribuzione sono destinate a laureati, quindi i lavoratori “medi” si sono visti costretti a competere per ruoli con mansioni e stipendi inferiori a prima. L’effetto combinato è definito “polarizzazione del lavoro”: gli stipendi dei professionisti qualificati aumentano, e così pure il numero dei lavoratori a bassa retribuzione, mentre scende quello dei lavoratori a retribuzione media. Dal punto di vista della coesione sociale, tradizionalmente il collante delle comunità è sempre stato costituito proprio dai lavoratori “medi” − per competenze, guadagni e responsabilità − che spesso erano alla guida delle attività culturali, educative o religiose. Oggi, con i loro incarichi sempre più esternalizzati, queste schiere di lavoratori faticano a mantenere il proprio ruolo e l’indebolimento del tessuto sociale rischia di impoverire la vitalità delle comunità locali, o addirittura di esaurirla. L’insieme di tutti questi cambiamenti sociali ha avuto le maggiori ripercussioni sul piano geografico. I più alti livelli di polarizzazione lavorativa e di diseguaglianze retributive si riscontrano nelle città, dove spesso dirigenti molto pagati vivono a stretto contatto con lavoratori poco retribuiti in settori come la ristorazione, la sicurezza, le pulizie, la cura dei bambini eccetera. Ironia della sorte, queste disuguaglianze sono più marcate nelle città ricche, dove si trovano i posti di lavoro più pagati e in cui, per questo motivo, le persone giovani e istruite tendono a emigrare. In genere, le grandi città sono anche meglio connesse
«LE GRANDI CITTÀ SONO PIÙ CONNESSE, HANNO ATTIVITÀ LOCALI AL CENTRO DI NETWORK INTERNAZIONALI, E SONO I LUOGHI IN CUI LE AZIENDE GLOBALI INVESTONO PIÙ VOLENTIERI»
a livello nazionale e non, vantano molte attività locali al centro di network internazionali, e sono i luoghi in cui le aziende globali investono più volentieri. Il costante afflusso di investimenti di capitale, insieme ai nuovi laureati, aumenta la competitività di queste città, dove la forza-lavoro locale diventa più incline ad adottare e sviluppare nuove tecnologie per creare opportunità di business. Le città e le regioni di questo tipo hanno prosperato in maniera significativa all’interno della moderna globalizzazione, grazie all’afflusso di nuove competenze e di una maggior diversificazione di idee ed esperienze. Nel XXI secolo, le economie più avanzate del mercato globale combattono principalmente sul terreno dello sfruttamento delle competenze, e gli afflussi di persone e capitali sono la moneta sonante della rivalità. Sono inoltre luoghi dove l’invecchiamento demografico è più lento e l’aumento della popolazione è maggiore, proprio per l’arrivo di giovani. In forte contrasto vivono invece quelle città e regioni da cui i lavoratori più competenti tendono ad andarsene. Molti di questi luoghi erano prosperi nei decenni scorsi, ma le recenti trasformazioni globali li hanno lasciati indietro perché le loro economie, spesso, non sono state in grado di adattarsi alle nuove realtà: diverse aziende locali si servono ancora di tecnologie e pratiche di business superate, hanno un mercato per lo più locale e la loro esposizione alle nuove opportunità fornite dalle tecnologie e dal mercato globale risulta significativamente inferiore. Mentre queste aree rimangono indietro rispetto alle regioni più prospere, aumenta il numero di giovani istruiti che abbandonano l’economia locale. Questa fuga fa anche sì che la popolazione invecchi molto più rapidamente e che, nonostante la domanda locale di servizi legati all’assistenza e alla salute aumenti rapidamente, le economie locali abbiano una sempre minor capacità di fornire tali servizi. Esattamente il contrario dei luoghi più prosperi, che tendono ad avere minori richieste di tipo assistenziale, anche se le loro economie locali sono più in grado di fornirle. All’orizzonte non si vede un obiettivo chiaro che possa limitare o rallentare la divergenza di esperienze tra luoghi diversi all’interno di uno stesso Paese. Alti livelli di congestione e un aumento dei prezzi nelle regioni e città più ricche dovrebbero offrire una pausa a tali processi, ma i driver dei cambiamenti sul mercato internazionale sono molto più potenti dei processi locali. Città e regioni culturalmente diverse, con alti numeri di lavoratori laureati, ottime competenze nella lingua inglese, forti settori in ambito Ricerca e Sviluppo, università prestigiose, aeroporti internazionali e un background di tradizioni e asset culturali di alta qualità sono oggi, in termini economici, sistematicamente in vantaggio. Sono le destinazioni che attraggono investitori e dirigenti, indipendentemente dalla loro nazionalità. Nell’era post-crisi è molto difficile immaginare come altri luoghi possano competere con questi negli anni a venire. Le differenze tra aree più o meno prospere all’interno degli stessi Paesi sono aumentate nel corso della moderna globalizzazione, nonostante esistano anche significative peculiarità intranazionali. Negli Stati Uniti, in Canada e in Australia sono soprattutto le zone rurali a essere rimaste indietro rispetto alle città e, in gradi differenti, schemi simili si riscontrano anche in Francia, Austria e Scandinavia. Diversamente, in Gran Bretagna e in Germania si tratta di certe regioni piuttosto che di divario tra zone urbane e rurali. Ma qualunque sia lo schema ciò a cui stiamo assistendo è
«NEGLI USA SONO LE ZONE RURALI A ESSERE RIMASTE INDIETRO. COSÌ COME IN FRANCIA, AUSTRIA E SCANDINAVIA»
che il voto politico riflette fortemente queste differenze, che stanno sempre più dando e cambiando forma alla politica interna ed estera. Nei decenni scorsi l’economia come disciplina accademica era dominata dalla convinzione che le differenze tra persone e luoghi sarebbero diminuite o addirittura sparite con l’adeguamento dei mercati. In effetti, negli Anni 70, 80 e all’inizio dei 90 c’erano riscontri di diffuse convergenze in molte aree dell’economia. Ma a partire dalla crisi finanziaria globale del 2008, molti processi economici si sono caratterizzati per le loro divergenze piuttosto che per le convergenze. Ciò vale anche in termini geografici e rende ampiamente conto della nuova mappa dello scontento, che si riflette nel voto politico. In molti Stati questi shock elettorali hanno portato a un ripensamento fondamentale delle scelte economiche. In particolare, le politiche di sviluppo economico raccomandate dieci anni fa da istituzioni come la Banca Mondiale erano fautrici di scelte indifferenti alla geografia. Si trattava di piani che privilegiavano le regioni più forti, in crescita, dotate di città importanti, e rifuggivano qualunque tentazione di appoggiare le zone più deboli, ritenendo che questo avrebbe ridotto l’efficienza nazionale nel suo complesso. Al contrario, una ricerca pubblicata nello stesso periodo dall’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico di Parigi − e a uno studio condotto da esperti diretti da Fabrizio Barca per la Commissione Europea − è giunta a una conclusione diametralmente opposta: le politiche “localizzate” a sostegno delle regioni più deboli, se ben strutturate e implementate, risultano essenziali per il miglioramento globale dello Stato. Al tempo della crisi del 2008, l’atteggiamento indifferente alla geografia era prevalente a livello internazionale, ma ora è l’approccio contrario a dominare il pensiero politico in tutto il mondo, anche in quei Paesi che per molti anni si sono fortemente opposti a tale visione, come per esempio gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Ma probabilmente questo accade con almeno dieci anni di ritardo. Il cuore del pensiero localizzato consiste nella crescita di politiche che sostengano l’impegno pubblico, privato e civile e attribuiscano alle comunità locali una maggior autonomia nello stabilire le proprie priorità di sviluppo, piuttosto che appoggiarsi su direttive del governo centrale. Ciò comporta che il contesto politico guardi perlopiù dal basso verso l’alto e non viceversa, che sia flessibile e possa essere modificato in base alle peculiarità locali, e che sia sufficientemente realistico nelle sue ambizioni e dimensioni affinché gli investitori locali desiderino impegnarvisi. Alla lunga, in molti Paesi queste politiche localizzate stanno diventando la pietra angolare della pianificazione nazionale. Tuttavia, sfortunatamente, il decennio perduto, dominato dalla programmazione indifferente alla geografia, ora comporta che molti partiti politici si trovino costretti a recuperare terreno, non essendosi preparati in anticipo a muoversi in maniera puntuale rispetto al cambiamento.
* L’autore di questo articolo, Philip Mccann, insegna Economia urbana e regionale alla University of Sheffield Management School ed è Professore onorario di Geografia economica alla Facoltà di Scienze territoriali dell’università di Groningen, Paesi Bassi. È stato consulente speciale della Commissione Europea, dell’ocse e della Banca Europea per gli Investimenti.
«SOLO DIECI ANNI FA LE POLITICHE ECONOMICHE ERANO INDIFFERENTI ALLA GEOGRAFIA. OGGI È L’ESATTO CONTRARIO»