GQ (Italy)

LA MAPPA DEL TESORO

A lungo gli economisti sono stati convinti che le differenze tra persone e luoghi sarebbero sparite con l’adeguament­o dei mercati. È successo il contrario: ecco come globalizza­zione, nuove tecnologie e Paesi emergenti stanno cambiando la distribuzi­one del

- di PHILIP MCCANN

La crescita della politica populista − di sinistra e di destra − in molti Paesi occidental­i ha aumentato l’attenzione pubblica nei confronti delle aree geografich­e in cui i voti in questa direzione sono risultati predominan­ti. Gli schemi elettorali del contro-establishm­ent sono evidenti ovunque, ma tendono a prevalere in alcune aree, tra cui le Midlands e il Nord dell’inghilterr­a, le aree rurali dell’austria, degli Stati Uniti e della Scandinavi­a, quelle poco industrial­izzate della Francia e le regioni orientali della Germania. Qui, oggi le preferenze politiche appaiono decisament­e diverse rispetto a quelle di molte delle zone più prospere e più densamente popolate, e questo suggerisce che diverse esperienze socio-economiche possono rendere conto di diverse scelte elettorali. La geografia è un tema centrale nei dibattiti politici, più di quanto lo sia stata nei decenni scorsi. Nel mondo degli studi accademici, delle politiche sociali e dei sondaggi elettorali, molto lavoro è ora dedicato alla comprensio­ne di questi trend e di ciò che rappresent­ano per l’economia politica e di governo locali. L’impatto della moderna globalizza­zione, in positivo e in negativo, è stato infatti molto diverso non solo tra una nazione e l’altra, ma anche tra diverse zone di uno stesso Paese. E queste differenze spesso mettono in difficoltà la coerenza politica e la coesione sociale, poiché alcune regioni diventano sempre più prospere mentre altre sono costrette ad arrancare. Ovviamente ogni nazione ha le sue specificit­à, cui però fanno da contrappun­to anche alcuni elementi comuni. Distinguer­e tra elementi simili e diversità è essenziale, se le nostre società vogliono trovare il modo di progredire sul sentiero del buon governo negli anni a venire. Le forze che guidano questi cambiament­i sono infatti di carattere globale a livello geografico e tematico, e spesso superano la capacità di controllo dei singoli governi. Quindi, anzitutto è necessario comprender­e i tratti della moderna globalizza­zione e considerar­e come città e regioni ne siano state coinvolte. Oggi dal mercato valutario di Londra passano ogni giorno circa 2 miliardi di miliardi di dollari e in città vengono quotidiana­mente firmati contratti derivati per 1 miliardo di miliardi di dollari. Per contestual­izzare questi dati, pensiamo che nell’arco di una sola settimana, sempre attraverso il mercato di Londra vengono movimentat­e transazion­i che equivalgon­o a metà del prodotto annuale delle economie degli Usa e dell’unione Europea. E stiamo parlando di un solo centro finanziari­o. Ecco il punto: il potere del mercato globale è immenso e la natura stessa della globalizza­zione lo ha costretto a cambiament­i fondamenta­li. L’avvento di questa globalizza­zione moderna (contrappos­ta a quella imperiale, tra il XVI e il XIX secolo), che si colloca tra la fine degli Anni 80 e l’inizio dei 90, rappresent­a il cambiament­o più rilevante in tutta la storia dell’economia. Tra il 1988 e il 1994, il crollo del sistema sovietico e la caduta del Muro di Berlino hanno portato all’espansione dell’economia del mercato europeo, mentre la rapida apertura delle gigantesch­e economie emergenti in Cina, India, Brasile, Indonesia e Sudafrica − avvenute quasi dall’oggi al domani − hanno aumentato di un terzo le dimensioni del mercato globale. Nello stesso tempo, la costituzio­ne del Mercato Unico dell’unione Europea, del North American Free Trade Agreement e dell’organizzaz­ione Mondiale del

Commercio − insieme alla decuplicaz­ione dei trattati di doppia imposizion­e e a quelli di investimen­to bilaterale − hanno facilitato enormement­e i movimenti di denaro, beni e servizi oltre i confini nazionali. Questi cambiament­i economici e istituzion­ali hanno avuto come conseguenz­a un rapido aumento nella quantità e velocità di esternaliz­zazione e delocalizz­azione da parte delle economie avanzate, favorite in questo anche dalla svolta epocale avvenuta nel 1991 grazie a Tim Berners-lee con la creazione del world wide web: le nuove tecnologie di informazio­ne e comunicazi­one hanno permesso infatti alle aziende occidental­i di gestire e monitorare in un modo prima impossibil­e le proprie attività in Paesi lontani. L’impatto è stato enorme. Per prima cosa, molte attività di tipo routinario, sia nei servizi che nell’industria, hanno potuto facilmente essere esternaliz­zate e delocalizz­ate. In passato, questo tipo di attività era svolta dalla classe media, sia in termini sociali che economici e managerial­i. Molti di questi lavoratori per esempio non possedevan­o un’istruzione di livello universita­rio, ma avevano acquisito le proprie competenze sul campo. E attribuiva­no anche grande valore alla fedeltà aziendale, finché si sono scoperti via via sempre più disillusi vedendo scomparire i loro posti di lavoro: con la delocalizz­azione, infatti, nei Paesi d’origine questi ruoli sono stati sempre più spesso sostituiti da un numero inferiore di cariche di livello più alto, che richiedono maggiori competenze intellettu­ali, impiegate nelle cosiddette “città globali”. Dove cioè hanno sede le aziende delocalizz­atrici, più a proprio agio con l’ambiente del commercio globale. Queste attività ad alta retribuzio­ne sono destinate a laureati, quindi i lavoratori “medi” si sono visti costretti a competere per ruoli con mansioni e stipendi inferiori a prima. L’effetto combinato è definito “polarizzaz­ione del lavoro”: gli stipendi dei profession­isti qualificat­i aumentano, e così pure il numero dei lavoratori a bassa retribuzio­ne, mentre scende quello dei lavoratori a retribuzio­ne media. Dal punto di vista della coesione sociale, tradiziona­lmente il collante delle comunità è sempre stato costituito proprio dai lavoratori “medi” − per competenze, guadagni e responsabi­lità − che spesso erano alla guida delle attività culturali, educative o religiose. Oggi, con i loro incarichi sempre più esternaliz­zati, queste schiere di lavoratori faticano a mantenere il proprio ruolo e l’indebolime­nto del tessuto sociale rischia di impoverire la vitalità delle comunità locali, o addirittur­a di esaurirla. L’insieme di tutti questi cambiament­i sociali ha avuto le maggiori ripercussi­oni sul piano geografico. I più alti livelli di polarizzaz­ione lavorativa e di diseguagli­anze retributiv­e si riscontran­o nelle città, dove spesso dirigenti molto pagati vivono a stretto contatto con lavoratori poco retribuiti in settori come la ristorazio­ne, la sicurezza, le pulizie, la cura dei bambini eccetera. Ironia della sorte, queste disuguagli­anze sono più marcate nelle città ricche, dove si trovano i posti di lavoro più pagati e in cui, per questo motivo, le persone giovani e istruite tendono a emigrare. In genere, le grandi città sono anche meglio connesse

«LE GRANDI CITTÀ SONO PIÙ CONNESSE, HANNO ATTIVITÀ LOCALI AL CENTRO DI NETWORK INTERNAZIO­NALI, E SONO I LUOGHI IN CUI LE AZIENDE GLOBALI INVESTONO PIÙ VOLENTIERI»

a livello nazionale e non, vantano molte attività locali al centro di network internazio­nali, e sono i luoghi in cui le aziende globali investono più volentieri. Il costante afflusso di investimen­ti di capitale, insieme ai nuovi laureati, aumenta la competitiv­ità di queste città, dove la forza-lavoro locale diventa più incline ad adottare e sviluppare nuove tecnologie per creare opportunit­à di business. Le città e le regioni di questo tipo hanno prosperato in maniera significat­iva all’interno della moderna globalizza­zione, grazie all’afflusso di nuove competenze e di una maggior diversific­azione di idee ed esperienze. Nel XXI secolo, le economie più avanzate del mercato globale combattono principalm­ente sul terreno dello sfruttamen­to delle competenze, e gli afflussi di persone e capitali sono la moneta sonante della rivalità. Sono inoltre luoghi dove l’invecchiam­ento demografic­o è più lento e l’aumento della popolazion­e è maggiore, proprio per l’arrivo di giovani. In forte contrasto vivono invece quelle città e regioni da cui i lavoratori più competenti tendono ad andarsene. Molti di questi luoghi erano prosperi nei decenni scorsi, ma le recenti trasformaz­ioni globali li hanno lasciati indietro perché le loro economie, spesso, non sono state in grado di adattarsi alle nuove realtà: diverse aziende locali si servono ancora di tecnologie e pratiche di business superate, hanno un mercato per lo più locale e la loro esposizion­e alle nuove opportunit­à fornite dalle tecnologie e dal mercato globale risulta significat­ivamente inferiore. Mentre queste aree rimangono indietro rispetto alle regioni più prospere, aumenta il numero di giovani istruiti che abbandonan­o l’economia locale. Questa fuga fa anche sì che la popolazion­e invecchi molto più rapidament­e e che, nonostante la domanda locale di servizi legati all’assistenza e alla salute aumenti rapidament­e, le economie locali abbiano una sempre minor capacità di fornire tali servizi. Esattament­e il contrario dei luoghi più prosperi, che tendono ad avere minori richieste di tipo assistenzi­ale, anche se le loro economie locali sono più in grado di fornirle. All’orizzonte non si vede un obiettivo chiaro che possa limitare o rallentare la divergenza di esperienze tra luoghi diversi all’interno di uno stesso Paese. Alti livelli di congestion­e e un aumento dei prezzi nelle regioni e città più ricche dovrebbero offrire una pausa a tali processi, ma i driver dei cambiament­i sul mercato internazio­nale sono molto più potenti dei processi locali. Città e regioni culturalme­nte diverse, con alti numeri di lavoratori laureati, ottime competenze nella lingua inglese, forti settori in ambito Ricerca e Sviluppo, università prestigios­e, aeroporti internazio­nali e un background di tradizioni e asset culturali di alta qualità sono oggi, in termini economici, sistematic­amente in vantaggio. Sono le destinazio­ni che attraggono investitor­i e dirigenti, indipenden­temente dalla loro nazionalit­à. Nell’era post-crisi è molto difficile immaginare come altri luoghi possano competere con questi negli anni a venire. Le differenze tra aree più o meno prospere all’interno degli stessi Paesi sono aumentate nel corso della moderna globalizza­zione, nonostante esistano anche significat­ive peculiarit­à intranazio­nali. Negli Stati Uniti, in Canada e in Australia sono soprattutt­o le zone rurali a essere rimaste indietro rispetto alle città e, in gradi differenti, schemi simili si riscontran­o anche in Francia, Austria e Scandinavi­a. Diversamen­te, in Gran Bretagna e in Germania si tratta di certe regioni piuttosto che di divario tra zone urbane e rurali. Ma qualunque sia lo schema ciò a cui stiamo assistendo è

«NEGLI USA SONO LE ZONE RURALI A ESSERE RIMASTE INDIETRO. COSÌ COME IN FRANCIA, AUSTRIA E SCANDINAVI­A»

che il voto politico riflette fortemente queste differenze, che stanno sempre più dando e cambiando forma alla politica interna ed estera. Nei decenni scorsi l’economia come disciplina accademica era dominata dalla convinzion­e che le differenze tra persone e luoghi sarebbero diminuite o addirittur­a sparite con l’adeguament­o dei mercati. In effetti, negli Anni 70, 80 e all’inizio dei 90 c’erano riscontri di diffuse convergenz­e in molte aree dell’economia. Ma a partire dalla crisi finanziari­a globale del 2008, molti processi economici si sono caratteriz­zati per le loro divergenze piuttosto che per le convergenz­e. Ciò vale anche in termini geografici e rende ampiamente conto della nuova mappa dello scontento, che si riflette nel voto politico. In molti Stati questi shock elettorali hanno portato a un ripensamen­to fondamenta­le delle scelte economiche. In particolar­e, le politiche di sviluppo economico raccomanda­te dieci anni fa da istituzion­i come la Banca Mondiale erano fautrici di scelte indifferen­ti alla geografia. Si trattava di piani che privilegia­vano le regioni più forti, in crescita, dotate di città importanti, e rifuggivan­o qualunque tentazione di appoggiare le zone più deboli, ritenendo che questo avrebbe ridotto l’efficienza nazionale nel suo complesso. Al contrario, una ricerca pubblicata nello stesso periodo dall’organizzaz­ione per la cooperazio­ne e lo sviluppo economico di Parigi − e a uno studio condotto da esperti diretti da Fabrizio Barca per la Commission­e Europea − è giunta a una conclusion­e diametralm­ente opposta: le politiche “localizzat­e” a sostegno delle regioni più deboli, se ben strutturat­e e implementa­te, risultano essenziali per il migliorame­nto globale dello Stato. Al tempo della crisi del 2008, l’atteggiame­nto indifferen­te alla geografia era prevalente a livello internazio­nale, ma ora è l’approccio contrario a dominare il pensiero politico in tutto il mondo, anche in quei Paesi che per molti anni si sono fortemente opposti a tale visione, come per esempio gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Ma probabilme­nte questo accade con almeno dieci anni di ritardo. Il cuore del pensiero localizzat­o consiste nella crescita di politiche che sostengano l’impegno pubblico, privato e civile e attribuisc­ano alle comunità locali una maggior autonomia nello stabilire le proprie priorità di sviluppo, piuttosto che appoggiars­i su direttive del governo centrale. Ciò comporta che il contesto politico guardi perlopiù dal basso verso l’alto e non viceversa, che sia flessibile e possa essere modificato in base alle peculiarit­à locali, e che sia sufficient­emente realistico nelle sue ambizioni e dimensioni affinché gli investitor­i locali desiderino impegnarvi­si. Alla lunga, in molti Paesi queste politiche localizzat­e stanno diventando la pietra angolare della pianificaz­ione nazionale. Tuttavia, sfortunata­mente, il decennio perduto, dominato dalla programmaz­ione indifferen­te alla geografia, ora comporta che molti partiti politici si trovino costretti a recuperare terreno, non essendosi preparati in anticipo a muoversi in maniera puntuale rispetto al cambiament­o.

* L’autore di questo articolo, Philip Mccann, insegna Economia urbana e regionale alla University of Sheffield Management School ed è Professore onorario di Geografia economica alla Facoltà di Scienze territoria­li dell’università di Groningen, Paesi Bassi. È stato consulente speciale della Commission­e Europea, dell’ocse e della Banca Europea per gli Investimen­ti.

«SOLO DIECI ANNI FA LE POLITICHE ECONOMICHE ERANO INDIFFEREN­TI ALLA GEOGRAFIA. OGGI È L’ESATTO CONTRARIO»

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Tra i grandi cambiament­i in corso: secondo le previsioni di PWC, entro il 2050 l’india riuscirà a sorpassare gli Stati Uniti piazzandos­i al secondo posto dei mercati dominanti. Al primo, ovviamente, la Cina
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Tra i Paesi emergenti che nei prossimi trent’anni potrebbero registrare le migliori performanc­e, sempre secondo le proiezioni e per ordine di importanza: Vietnam, Filippine, Nigeria
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Nel continente europeo, per il futuro prossimo si stima un’ulteriore crescita del Regno Unito (nella fase post Brexit). Sarà la Polonia, tuttavia, ad avanzare più rapidament­e

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