GQ (Italy)

Benvenuti a baita Cognetti

Lo scrittore ha festeggiat­o i 40 anni e un Premio Strega: con un viaggio, un nuovo libro e il progetto del suo rifugio

- Testo di CRISTINA D ’ ANTONIO

È appena tornato dal Nepal, dove ha camminato intorno al Kangchenju­nga, il terzo Ottomila del pianeta. Sarà quello, sarà il passo: si vede che Paolo Cognetti è arrivato a un dunque nella sua vita. Premio Strega 2017 per Le otto montagne, è ora in libreria con Senza mai arrivare in cima, un libro che celebra diverse cose: un anno di svolta, che coincide con i suoi 40 anni, onorato con un viaggio che non è l’ennesimo e basta, ma un viaggio interiore con due amici, e cioè un regalo molto desiderato. In un bar del quartiere Bovisa, davanti a un tè verde «senza altre cose strane dentro», si parla di uomini, di giochi tra maschi, di cani e di una baita speciale, una nuova casa, la prova fisica dell’ingresso di Cognetti nell’età adulta.

Allora è vero: l’himalaya crea dipendenza? È che mi piace tornare nei luoghi per conoscerli bene: l’ho fatto per 10 anni con New York, ora c’è il Nepal. Al terzo viaggio in cinque anni comincio a cogliere delle differenze in quello che vedo: è un Paese a cui sento di voler restituire qualcosa.

Senza mai arrivare in cima, che è un racconto autobiogra­fico, vive del confronto con due compagni speciali, Nicola e Remigio. Per un po’ ho coltivato il mito della solitudine. A 40 anni mi sono chiesto: sarò capace di praticare la condivisio­ne? Ciò che per altri è naturale per me è un’impresa: ce l’ho messa tutta, per gestire la timidezza. Che i miei amici abbiano accettato di partire con me è stato un grande dono.

Il primo è Nicola Magrin. Se avessi un fratello, sarebbe lui. L’ho conosciuto quando ho scritto Il ragazzo selvatico. Nicola è un pittore: anche lui aveva vissuto in montagna, da eremita, per scelta. Ma lui quella storia l’aveva disegnata: è stato come guardarsi allo specchio. Abbiamo fondato la nostra amicizia sul camminare in montagna: credo che le relazioni si costruisca­no facendo delle cose assieme, concrete, anche manuali.

Come succede tra i due personaggi di Le otto montagne, che costruisco­no una casa.

E qui veniamo al secondo, Remigio Vicquery. Uno dei miei maestri di montagna. È sua la baita dove sono andato a vivere in Val d’ayas: l’aveva rimessa in piedi da solo, in memoria del padre. Tra di noi è cominciata per via dei libri: lui li voleva in prestito, io gli chiedevo di insegnarmi a muovermi in pendenza, che è diverso dallo stare in pianura.

È differente l’amicizia con le donne? Le donne sono più brave a spingerti a trovare le parole, a definirti: una dimensione che riconosco meglio nella coppia. Con gli amici maschi posso condivider­e il silenzio. Ma non si sta in silenzio con le mani in mano, fermi su un divano, e qui torno al “fare” tra uomini, ai giochi dei maschi.

A cosa giocano gli uomini adulti? Vediamo. Viaggi come questo iniziano nell’imbarazzo: ci si ritrova in un’intimità fisica a cui non si è abituati, con un uomo che dorme al posto della tua donna. È un genere di vicinanza che riporta indietro nel tempo, a una dimensione adolescenz­iale, di spogliatoi, di accenni di lotta, di discorsi fra maschi.

Di cosa parlate fra voi? Di roba triviale. Di donne, di sogni. Di cose che ti mancano mentre sei lontano da tutto.

È liberatori­o poter parlare senza filtri? Sì, e succede di rado quando si è adulti. La comprensio­ne che non giudica: nel mio caso, di solito, capita con persone più vecchie di me.

Anche nei racconti newyorkesi gli amici erano sempre di un’altra generazion­e. Sono sempre stato attratto da uomini più grandi: mi metto volentieri nella posizione dell’allievo.

In Nepal c’erano anche un libro, Il leopardo delle nevi, e il suo autore, Peter Matthiesse­n. Il libro è una presenza necessaria nei viaggi: ti apre gli occhi su quello che stai vedendo. Lo scrittore è un amico immaginari­o al quale poni delle domande, uno spirito che fa la strada con te.

In luoghi lontani da sé si procede per somiglianz­e: Kanjiroba, il cane che vi segue, ricorda quello lasciato a casa. È un antidoto allo smarriment­o? È un modo per cercare di capire. Il paesaggio è come una scrittura: se la lingua è straniera, cerchi le parole famigliari; ne afferri una, inizi a decifrare. In montagna, dove il paesaggio è in parte lavoro dell’uomo, riconoscer­e un terrazzame­nto equivale a sentirsi un po’ a casa.

La casa risuona spesso nel racconto. Sono uno scrittore: quella della stanza è una dimensione indispensa­bile per fare ciò che devo. Anche in viaggio, che dovrebbe essere un sogno di nomadismo, c’è questo sogno di casa che si sposta da un luogo all’altro, che è la tenda, o l’amicizia.

Dove sarà casa da adesso in poi? In Val d’ayas: sopra la baita dove vivevo, in una stalla che diventerà ostello e centro culturale. Se l’età adulta è quella generativa, in cui si smette di sentirsi figli e si è in grado di procreare, allora io me la gioco con un progetto: il rifugio a Brusson rappresent­a la mia soglia dell’età adulta. Costruisco qualcosa di solido, una casa dove gli altri verranno ospitati, e non dove sono io a bussare. .

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