Il fantasma dell’opera
JULIANSCHNA BEL ha voluto W IL LE MD AFOE per interpretare Vincent van Gogh nel suo film. Questa è la storia della loro “spettrale” avventura
«Ero al Met con mamma. Guardai un’opera di Rembrandt, Aristotele contempla il busto di Omero, e in me successe qualcosa. Mi sembrò diversa rispetto a tutto ciò che la circondava: splendeva». Julian Schnabel non aveva nemmeno 10 anni, quel pomeriggio in cui capì di voler diventare un artista. Un desiderio così intenso da consentirgli di resistere anche nei periodi in cui non aveva «neanche i soldi per comprare una mozzarella». Finché, negli Anni 80, si affermò sulla scena newyorkese, aiutando molti altri a farsi strada.
«A quei tempi sognavo di creare una comune», racconta. «Lavoravo come cuoco in un ristorante vicino a Washington Square: gli artisti sarebbero venuti a mangiare gratis e avrebbero anche potuto mostrare il loro lavoro ai clienti». Difficile non restare ipnotizzati dai racconti del pittore, regista e sceneggiatore americano, classe 1951. Come quello sul suo viaggio in Italia, a 20 anni, solo per vedere il Caravaggio dal vivo, «perché sui libri non è mai la stessa cosa».
All’ultima Mostra del Cinema di Venezia, dove al solito si è presentato sul red carpet in giacca e pigiama, il pluripremiato e plurinominato (anche all’oscar) Schnabel ha portato in concorso il suo sesto film, Van Gogh - At Eternity’s Gate. «Non faccio arte per illustrare quello che so», spiega, «ma per trovare qualcosa che non so. Il vero successo, dal mio punto di vista, arriva nel momento in cui crei e scopri qualcosa dentro di te. Quella è gioia e bellezza, lì ti senti davvero vivo, non quando gli altri guardano i tuoi lavori». Suo complice nell’impresa, stavolta, è stato l’attore Willem Dafoe, 63 anni, che per la sua interpretazione di Van Gogh nel film (nelle sale dal 3 gennaio) ha vinto la Coppa Volpi come miglior attore protagonista.
Possente e impetuoso Schnabel, etereo e penetrante Dafoe, in questa conversazione si confrontano proprio sul pittore olandese dell’ottocento che per il regista diventa in realtà quasi un pretesto. «Il mio non è un biopic», chiarisce.«quello che mi interessava era raccontare cosa significa essere artisti ed essere vivi». Così è nato il suo film più personale, che racconta gli ultimi anni di vita di Van Gogh, mettendo al centro il suo rapporto con la natura e la sensazione che restituisce creare un’opera d’arte. Cosa avete scoperto l’uno dell’altro, lavorando insieme? J.S. Conosco Willem da trent’anni, l’ho visto in situazioni da cui sarebbero scappati in molti. Da amico, se non gli avessi chiesto di interpretare Van Gogh non avrei sopportato me stesso. E da artista ho pensato che non ci fosse nessun altro con la sua profondità. W.D. Conosco Julian da una vita, sono stato in studio a guardarlo creare e ho visto anche cosa ha attraversato nella vita. Le persone e gli artisti con cui amo lavorare raccolgono molte cose intorno sé e vi si relazionano: non sono interpreti, creano sul serio. Stare intorno a gente così ti trasforma. Vi siete mai sentiti gli unici sani in un mondo di matti? W.D. Non ci ho mai pensato. J.S. Io mi sento sempre così. E in effetti Van Gogh era sano, nonostante avesse una paura terrificante di impazzire. Sono andato con lo sceneggiatore Jean-claude Carrière a vedere la mostra Van Gogh/artaud: Il suicidato della società, al Musée d’orsay. Guardando
i suoi dipinti ci è venuta l’idea di rendere l’emozione, l’esperienza di avvicinarsi ai quadri, guardarli e passare oltre. Ma se penso al titolo del mio primo dipinto su tavola del 1978, I pazienti e i dottori, la domanda sottesa è chiara: sono da ricoverare quelli in manicomio o quelli che stanno fuori? La domanda «chi è più matto?» era già lì. Cosa vi immaginavate di realizzare insieme? J.S. Quando inizi un lavoro ci sono cose che sai, altre che accadono e non ti spieghi. Prima delle riprese Louise Kugelberg, la donna con cui vivo e con cui ho realizzato questo film, ha scattato una foto a Willem. Volevamo mostrarla agli investitori e pensavamo che fosse splendida, ma quando lui è arrivato in Francia ed è entrato nel personaggio quella foto sembrava ridicola al confronto. Willem si è trasfigurato, lo ha abitato un fantasma. Un fantasma? Addirittura? J.S. Le racconto una cosa. L’altra notte, sdraiato a letto, l’ho dipinto nei panni di Van Gogh. Era buio, ho visto che il quadro iniziava a muoversi e ho pensato: «Mio Dio, magari è davvero Gesù Cristo e avremo un sacco di problemi!». Willem è l’incarnazione vivente di qualcosa che stavo aspettando. E qual è la cosa che, invece, ha stupito di più Willem? W.D. Insegnandomi a dipingere, Julian ha cambiato davvero il mio modo di vedere la realtà. Mi ha spiegato come si tiene un pennello e come si mescola il colore, poi mi ha detto «dipingi quel cipresso», e io ho cercato di abbozzare la sagoma di un albero. A quel punto lui mi ha chiesto: «Ma cosa vedi davvero?». Ho risposto che vedevo macchie scure, e lui: «Allora dipingi quelle». È diventata una chiave per comprendere Van Gogh: ho iniziato a vedere forme, ombre, vibrazioni, mi sono liberato da un modo di pensare meccanico. Quindi lei dipinge per davvero, nel film. W.D. In tanti mi hanno chiesto di chi sono le mani che si vedono sullo schermo. Naturalmente Julian non poteva stare a guardarmi tutto il giorno, ma nel caso del quadro con le scarpe, per esempio, mi ha fatto esercitare e poi ha voluto che lo eseguissi in tempo reale. È stato spaventoso dover produrre qualcosa di credibile per le riprese. Ma osservare in un certo modo, in termini visivi, ti porta a guardare tutto in modo diverso, in particolare la natura: entri in contatto con il mistero che muove tutte le cose. Ero già affascinato dalla visione di Van Gogh che dice «la bellezza è la natura e la natura è Dio», ma sperimentare un esercizio concreto che ti faccia stare in quella dimensione è favoloso. Tutto il film è focalizzato sulla febbre della creatività: una febbre in cui la velocità ha un ruolo centrale. W.D. Sì, perché la velocità mette fuori gioco sia il giudizio che la tentazione di essere troppo concettuali. Anche da attore non vuoi mai pensare troppo, per essere completamente presente nell’azione. Se sei troppo concentrato non senti, e attraverso di te non fluisce niente. E questo vale dentro e fuori dallo schermo. J.S. Oltre alla velocità, conta la chiarezza: un solo tratto, deciso e chiaro. Van Gogh dice che i pittori che gli piacciono dipingono velocemente. Ho voluto mostrare come lavoravano Goya, Velázquez e anche Caravaggio, che doveva essere veloce per forza: lo inseguivano in continuazione per arrestarlo... Van Gogh diceva di essere stato rinchiuso in una stanza per tutta la vita, e di poter vivere solo nella natura. W.D. Un aforisma dice che nessuna tristezza è grande come quella dell’uomo che non riesce a rimanere seduto da solo nella propria stanza, perché la cosa più difficile che ci sia è stare con se stessi. Quando Van Gogh è nella natura avverte invece una connessione col tutto, e penso che proprio per questo motivo sia riuscito ad andare, nel senso buddista, oltre il pensiero dualistico: lui ormai sa contenere dentro di sé, in modo molto semplice, tanto la crudeltà della natura quanto la sua bellezza. J.S. È un uomo alla disperata ricerca della libertà per ribellione contro il padre, un pastore protestante severissimo, che lo ha cresciuto imponendogli regole molto rigide. Van Gogh dice, addirittura, di essersi sentito più claustrofobico in collegio, da ragazzo, di quanto lo sia da adulto in manicomio. Su di lei, Julian, gli spazi aperti ce l’hanno un effetto? J.S. Certo. Quando fai una passeggiata, in campagna o in città, torni diverso, anche se sei stanco o pigro, come sono sempre stato io. L’ho constatato soprattutto girando questo film. Abbiamo scalato montagne per trovare location che andassero bene a Louise. E per lei il punto giusto era sempre un po’ più in là.
«L’altra notte ho dipinto WILLEM nei pan nidi VANGO G H. Era buio, ho visto che il quadro iniziava a muoversi e ho pensato: “Mio Dio, magari è davvero Gesù Cristo e avremo un sacco di problemi!”» – JULIAN SCHNABEL