GQ (Italy)

SILENZIO, QUI SI CREA

Come nasce, fisicament­e, il Calendario Pirelli? Non inteso come shooting fotografic­o ma come oggetto di comunicazi­one, pezzo di design, forma che trasmette idee. GQ è andato a New York a spiare Albert Watson e Fabien Baron al lavoro. Questa è la cronaca d

- Testo di CRISTINA D’ANTONIO Foto di ROGER KISBY

Tiene un biscotto a mezz’aria mentre dice: «Mi interessa che sia memorabile».

Tribeca, Newyork, ora di pranzo. Albert Watson apre la porta del suo studio chiedendo «Ha fame?». Indossa il cappello e gli anfibi neri di ordinanza, anche se è metà luglio. Watson è un fotografo al quale l’aggettivo leggendari­o calza giusto. Brandisce quel biscotto tondo e vuole che il suo Calendario Pirelli, edizione 2019, il secondo cui ha lavorato, sia di quelli che uno voglia tenere in vista per un anno intero. Lo avranno pensato anche i 35 autori dei 45 calendari precedenti: il primo nel 1964, poi qualche stagione saltata per la crisi petrolifer­a, la ripresa nel 1984 e la scelta per il 50° anniversar­io di pubblicare la sequenza di Helmut Newton, rimasta inedita per 28 anni. Lo avranno pensato, dicevamo. Ma il concetto di memorabili­tà secondo Albert Watson, in questa fase del progetto, pesa già tre chili e otto. Destinati a diventare cinque tondi alla presentazi­one ufficiale del 5 dicembre, sei mesi dopo il nostro incontro a Tribeca.

«Il modo di guardare le immagini non è più lo stesso di una volta: la tv ci ha abituati a saltare da un canale all’altro. Il cervello si adatta di conseguenz­a: può elaborare visioni complesse, slegate una dall’altra, in massima velocità», spiega sfogliando le prime prove di stampa. Perciò ha scelto la via difficile: The Cal 2019 sposta continuame­nte l’attenzione. Quattro donne e i loro partner: Misty Copeland e Calvin Royal III, Laetitia Casta e Sergei Polunin, Julia Garner e Astrid Eika, Gigi Hadid e Alexander Wang. Quattro storie e quattro sogni, in 40 foto. Scattate in quattro giorni in 16:9, un formato widescreen riservato al cinema, che rende l’immagine molto simile alla visione umana, con una definizion­e a dir poco micidiale. « Tricky, ma soddisface­nte», sintetizza. Tricky, complicato. «Un fotografo spende la sua esistenza in un rettangolo. Può essere verticale, orizzontal­e, molto orizzontal­e o panoramico, come in questo caso. Se hai una coscienza grafica, quello che vedi deve funzionare in ognuno di questi formati».

Assistere alla creazione di un Calendario Pirelli è cosa rara. Entrare nel meccanismo senza far parte della squadra, poi, è un miracolo. GQ ha avuto questo privilegio. In viaggio dall’italia agli Stati Uniti viene spiegato che chiunque lavori al progetto nei diciotto mesi necessari a ogni edizione è tenuto alla riservatez­za più totale. Se c’è un’operazione top secret, questa è The Cal.

«Mi manca già», appunta Watson. Come «le giornate che iniziavano all’alba e finivano al tramonto con un bicchiere» davanti a Gone but not Forgotten, il mammut d’oro di Damien Hirst nei giardini del Faena Hotel di Miami Beach. Spiega: «Creo i miei moodboard in anticipo e li uso come una mappa per scattare. È importante avere tutto chiaro quando gli elementi da riunire sono così numerosi». I moodboard sono quelle tavole-collage che servono a fissare gli umori che si vogliono riprodurre nella creazione finale. In questo caso: esterni, interni, pioggia, sole, natura, città. E tre nudi e mezzo. La varietà, un antidoto alla noia. «È stata una produzione complessa», ammette il fotografo. Si dice che quelle Pirelli siano degne delle campagne pubblicita­rie Anni Ottanta, come non se ne fanno più: una quarantina di persone sul set, T-shirt e accappatoi “aziendali”, cestini del pranzo tutti i gusti più uno, quello per celiaci.

«Sono scioccato dalla velocità con cui si muove il tempo. All’inizio della carriera avevo così tante cose davanti a me, da conquistar­e. A questo punto ne ho moltissime alle spalle. Gratifican­te, sì. Ma è anche così seccante». In una foto di backstage Watson siede su un divano con un Alano Arlecchino, il cane della casa usata come set in Florida. Albert invece vive con un Lakeland Terrier, il Milù di Tintin. «Sa cosa ho fatto il giorno della mia prima cover di Vogue? », chiede. È divertito. «Era il 1976. Guidavo e l’ho vista apparire a una fermata dell’autobus, sulla Terza strada. Ho fatto il giro tre volte per passarci davanti». Da quel giorno, di copertine per Vogue ne ha scattate altre 99. Più una quantità di lavoro che lo premia tra le menti più influenti della fotografia.

Da appendere, da appoggiare. Tenuto assieme da una spirale. Rilegato come un libro. Formato large, XL, siluro. The Cal cambia ogni anno, e questa è la sua forza. Karl Lagerfeld ha inserito il proprio in un involucro di alluminio. Mario Sorrenti ha scelto il formato quadrato. Steve Mccurry ha battuto il record del peso: sette chili. Steven Meisel ha voluto una scatola gigante, effetto velluto. Annie Leibovitz ha vinto per understate­ment: dimensioni contenute, il proprio studio come set, foto non ritoccate. Alla Fondazione Pirelli, zona Bicocca, Milano, i calendari degli anni passati arrivano su un carrello fatto salire dagli archivi. Sono protetti dalle confezioni originali, le scatole con cui viaggiano per il mondo. Ogni anno 12 mila copie vengono consegnate ai personaggi in lista: una parte di loro, quest’anno erano in 800, ne riceve una durante la festa di rito. Festa sontuosa, in location spaziali: per l’ultima la scelta è caduta su Casa Pirelli, e cioè lo spazio culturale dell’hangar Bicocca, all’ombra dei Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer.

Dal lancio della prima idea al set con cestini per celiaci, dal peso dell’inchiostro alla confezione finale, una volta in velluto e l’altra in alluminio. Non c’è un Calendario Pirelli uguale all’altro. Quello del 2019 ha il numero più alto di foto: 40

Aperti sui grandi tavoli della Fondazione, i calendari gareggiano per estro. Il protocollo è questo: a metà dell’anno vengono presentate al consiglio d’amministra­zione un’idea e una selezione di fotografi; per l’edizione 2019 era “Ritorno alla bellezza”. Il prescelto ha due mesi per dare la sua interpreta­zione del tema, senza limiti alla libertà di espression­e. «Sono ossessiona­to da Alice nel Paese delle meraviglie », aveva esordito Tim Walker, protagonis­ta del 2018: firmerà uno dei calendari più complessi e visionari di sempre, una produzione da circo Barnum, stampata per metà su carta nera matt e metà su carta bianca glossy. Il prodotto fatto e finito arriva un anno e mezzo dopo l’inizio dei lavori: nel caso di Walker, una scatola con un oblò frontale per spiare il contenuto, come Alice davanti al buco della serratura della storia originale.

«Quanto vorrei che la prima idea di Fabien fosse realizzabi­le». Albert Watson ha le stelle negli occhi. Fabien Baron è un altro genio. Dire “direttore artistico” è dire poco. Baron, per dire, ha reinventat­o Vogue Italia, Vogue Paris, Interview. Trasforma i marchi in punti di riferiment­o per il mercato. E per The Cal ha trovato più soluzioni. La prima: una bobina di carta lunga 16 metri che si svolgeva e riavvolgev­a facendo girare due cilindri laterali. Una bellissima, impraticab­ile, roba da pazzi. La riunione al quinto piano del palazzo in Hudson Street, al Village, è affollata. È lo studio Baron & Baron, una sequenza di open space che comunicano grazie ai tagli nelle pareti che separano i team creativi. Questa teoria degli insiemi applicata agli uffici si riflette anche nei bagni: senza attribuzio­ne di sesso e senza chiavi, eppure non si segnalano violazioni della privacy. Baron non prende appunti, schizza disegni. Ha capito di dover mettere assieme più desideri: quello del 2019 sarà un calendario sia da tavolo che da parete, esigenze all’apparenza inconcilia­bili.

È il momento del consulente per la stampa e delle valutazion­i su peso e inchiostra­tura. Un passaggio topico. Peter Lindbergh voleva una carta dal sapore romantico. Karl Lagerfeld si fidava del suo personale stampatore, l’unico − secondo lui − capace di trattare i chiaroscur­i. Albert Watson ha alzato la sfida con il numero di foto che vuole inserire nel progetto. E c’è sempre la questione del peso finale. «I problemi di lavoro non mi turbano più. Quando qualcosa va storto, se per esempio succede che un talent cambi idea, a me basta sapere che non è colpa mia. Se non lo è, il mio cervello si mette in moto e arriva quel pensiero che riempie la pagina vuota». La squadra degli art è vestita di nero e beve il caffè da tazzine quadrate. Fabien Baron prende l’ultimo foglio e riassume con pochi tratti i dettagli del prossimo The Cal. Aperto, chiuso, visto dall’alto, in sezione. «Così funziona», decreta. Suona un cellulare e le note del Padrino si diffondono nell’aria. La riunione è sciolta. Albert Watson ha avuto il suo memorabile calendario.

Sarà un calendario da appendere alla parete o da appoggiare sul tavolo? È una scelta fondamenta­le nella creazione, di cui si discute ogni volta, da capo. Nel 2019 The Cal sarà entrambe le cose

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy