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Viaggio di 720 chilometri su un’auto a zero emissioni, per scoprire se l’idrogeno è davvero il carburante ecologico del prossimo futuro
Wolfsburg, Germania, maggio 2018. Un dodicenne con i capelli rossi è seduto sul suo monopattino in attesa dell’autobus, mentre noi ci fermiamo a sistemare il sedile del nostro strano veicolo azzurro e prendiamo confidenza con i comandi. Sotto i suoi occhi, il motore si accende senza fare rumore. “Verso una società dell’idrogeno”, recitano le parole scritte sulla portiera laterale dell’auto. Pochi secondi dopo iniziamo il nostro tragitto fino ad Amburgo. Ci domandiamo se questa auto elettrica, che divora solamente idrogeno e come residuo non lascia altro che acqua, sarà una realtà quando il ragazzino alla fermata dell’autobus sarà un quarantenne. Una certezza c’è: se fra trent’anni tutte le auto funzioneranno così, il nostro osservatore ormai adulto godrà di un’aria molto più pulita di quella che hanno respirato i suoi genitori e i suoi nonni. Un ambiente libero da particelle di catrame, ossido di zolfo e azoto che ora vengono emesse dai tubi di scappamento delle auto. Fino a mezzo milione di morti premature ogni anno è il prezzo che oggi gli europei pagano per respirare l’aria delle città. Per capire se un tale futuro è possibile, faremo un viaggio di oltre 720 km, da Hannover fino al Parlamento danese, al volante di una Toyota Mirai alimentata da batterie a idrogeno. Il terzo giorno filiamo dolcemente percorrendo il nostro tragitto in Danimarca da Gråsten a Kolding, attraverso una verdissima campagna punteggiata da macchie di bosco. L’ipotesi di una società del futuro funzionante a idrogeno porta con sé una storia su ciò che sarebbe potuto accadere ma non è avvenuto, una sorpresa dentro l’altra, come le matrioske russe. Nell’ottobre del 1842, William Robert Grove, giudice e scienziato gallese, inviò una breve lettera al famoso fisico Michael Faraday della Royal Institution di Londra su una nuova batteria di sua invenzione. Per quanto di costruzione sofisticata, la semplicità della batteria risultava straordinaria: mescolava da un lato idrogeno e dall’altro ossigeno per produrre acqua... ed elettricità. Nelle decadi seguenti, i visionari vittoriani immaginarono un futuro ricco di meraviglie grazie all’elettricità usata per migliorare il raccolto e porre fine alle carestie, per vincere le guerre, costruire diligenze senza bisogno dei cavalli, barche con motori e persino artefatti volanti. Disgraziatamente, Grove inventò la pila a idrogeno troppo presto e il mondo la lasciò in un cassetto. «Oltre al telegrafo, l’elettricità in quel momento pareva un’esotica bizzarria», dice Iwan Rhys Morus, storico dell’università di Aberystwyth, in Gran Bretagna. «Nessuno allora avrebbe potuto immaginare che, con l’invenzione dei generatori elettrici all’inizio degli Anni 70 dell’ottocento, l’elettricità avrebbe cominciato a essere considerata una fonte di energia su scala industriale. L’idrogeno invece cadde nel dimenticatoio e lasciò il passo alle macchine a vapore, al carbone e al petrolio. La maggior parte dei vittoriani sapeva che il carbone era presente in abbondanza e costava poco. Benché si rendessero conto che le riserve non erano inesauribili, non si impegnarono per cercare alternative. Lo stesso Grove credeva che preoccuparsi delle necessità energetiche del futuro fosse una perdita di tempo». Le batterie a idrogeno sotto il sedile del veicolo che sto guidando funzionano con lo stesso principio scoperto da quel giudice gallese. L’auto assorbe l’ossigeno dell’aria attraverso il cofano e, insieme all’idrogeno dei serbatoi che stanno sotto i sedili posteriori, alimenta le batterie che inviano la corrente al motore. Sotto i piedi, l’idrogeno − gas primordiale dell’universo, il più leggero e abbondante, il primo elemento della tavola periodica, creatosi 380.000 anni dopo il Big Bang, lo stesso che brucia all’interno del sole alla temperatura di milioni di gradi e illumina le stelle − fornisce elettricità e spinta con una dolce pressione sull’acceleratore. Come sarebbe la società del Ventesimo secolo se qualcuno avesse scommesso sulla pila di Grove per produrre energia? Lo storico Iwan Rhys Morus immagina un paesaggio urbano con grandi torri che immagazzinano il gas ottenuto dalle miniere di carbone: l’idrogeno scorre in tubature che giungono fino alle abitazioni, alimentando i forni delle fabbriche e distribuendo la corrente a macchinari che lavano i panni e puliscono tappeti e mobilio. Permettendo, inoltre, di avere luce. La realtà, però, è molto diversa. Oggi siamo dipendenti dai combustibili fossili, la cui disponibilità coinvolge tutta la nostra vita. Non possiamo muovere un dito senza rilasciare nell’atmosfera anidride carbonica, che una volta faceva parte degli organismi viventi poi trasformati in petrolio, carbone e gas naturale nelle viscere della terra.
UNA CERTEZZA C’È: SE FRA 30 ANNI LE AUTO ANDRANNO A IDROGENO, L’ARIA SARÀ PIÙ PULITA
Da oltre centocinquant’anni, non abbiamo fatto altro che bruciare questa energia preconfezionata. Smettere è ormai impossibile, significherebbe la completa paralisi sociale. Ma il pianeta si sta gradatamente riscaldando. Le coltivazioni sono minacciate dal disgelo marino e dall’intrusione di acqua salata. Lo stesso gas si dissolve negli oceani e li rende più acidi. In tutto il pianeta i coralli muoiono o perdono il loro colore, distruggendo la pesca. Bisogna fare qualcosa. Il punto è: possiamo dare all’idrogeno una seconda opportunità, riavvolgere la storia, liberarci dal petrolio, decarbonizzare la società? Oppure è troppo tardi? Ci avviciniamo a Copenhagen. Ci sono segni di speranza in questo paesaggio pianeggiante: i mulini a vento, nascosti su entrambi i lati della strada da Hannover in poi, lasciano tracce che vanno oltre ciò che percepisce lo sguardo. Il computer di bordo avvisa che il motore ha ancora solo 25 km di autonomia. Fortunatamente, la distanza è stata calcolata e arriviamo a Copenhagen con un po’ di margine prima di dover ricaricare la vettura. La Danimarca possiede già dieci stazioni di servizio che erogano l’idrogeno (ESH). Queste stazioni sono come tutte le altre: in quattro minuti il rifornimento è fatto, 4 kg di idrogeno compresso, in teoria sufficienti per coprire 400 km e con un costo al chilometro leggermente inferiore a quello della benzina. In questo viaggio ecologico abbiamo consumato otto o nove kg di idrogeno senza emettere un solo grammo di carbonio. In Germania gli ESH installati sono invece già 45. Con una pianificazione corretta, è possibile viaggiare nel Paese senza rimanere a secco. Grazie a un investimento di 350 milioni di euro, il gigante tedesco ha in programma l’installazione di 400 distributori e aspira a diventare la potenza europea dell’idrogeno. Eppure, si tratta di una mezza verità. Arriviamo ad Amburgo, sede centrale della Shell, una delle società petrolifere più potenti al mondo. I suoi dirigenti parlano dei vantaggi dell’idrogeno e c’è da rimanere sbalorditi. «Il futuro nasconde un grosso mercato», dichiara Frank Belmer, coordinatore delle ricerche sull’idrogeno che la Shell svolge per l’unione Europea. «La gente cerca la mobilità, ma dobbiamo monitorare le emissioni di anidride carbonica per rispettare l’accordo di Parigi. Quindi c’è molto spazio per le auto a idrogeno, che possono ridurre le emissioni quasi a zero». Belmer suggerisce di attendere l’evoluzione del motore diesel: il consumo del suo combustibile è già dimezzato rispetto a vent’anni fa. «Il diesel sta per morire», assicura. Ma qual è la fonte dell’idrogeno che alimenta queste auto? «Il gas naturale», risponde l’esperto. Ora, estraendo l’idrogeno, si libera anidride carbonica: le società petrolifere come Shell possiedono riserve gigantesche di questo gas e quindi, nonostante nel nostro viaggio non emettiamo nemmeno un grammo di carbonio, lasciamo comunque un’impronta nell’atmosfera. La notizia positiva è che, se tutti i veicoli europei funzionassero con questo tipo di idrogeno, le emissioni di anidride carbonica si ridurrebbero drasticamente del 45%. Ma l’idrogeno che utilizziamo oggi è del tutto ecologico? «No», ammette Thomas Bystry, direttore della ricerca sull’idrogeno di Shell. «Non possiamo fare quello che sta facendo il Giappone. Prima di tutto dobbiamo spingere la gente a utilizzare l’idrogeno, e poi fare in modo che questo idrogeno sia ecologico». Qui sta il dibattito, assicura il dirigente: concentrare tutti gli sforzi per ottenere un idrogeno verde al cento per cento, oppure creare prima il mercato? Il Giappone oggi dispone di un centinaio di ESH. La decarbonizzazione entro venti o trent’anni non dipenderà solo dalla disponibilità di distributori, perché c’è una bilancia da mettere in equilibrio: da un lato, i mulini a vento e i pannelli solari e, dall’altro, le implacabili regole del mercato energetico. L’equazione deve risolversi in armonia. Alla rete di stazioni per rifornire i veicoli si uniranno le centrali per la produzione dell’idrogeno. Nella terza fase entrerà il Progetto Jidai, l’idrogeno verde. Che sarà redditizio. «La decarbonizzazione non significa solo un sollievo per l’ambiente; crea anche posti di lavoro, fa muovere l’economia. Oggi è più reale in Giappone che in qualunque altro Paese del mondo», assicura Katsuhiko Hirose, del dipartimento di Ingegneria della pianificazione tecnologica e ambientale di Toyota ad Aichi. Al Parlamento danese, le domande vanno trovando risposta. In una sala, gli esperti iniziano a parlare dell’elettrolisi. Si tratta della reazione più semplice: applicare elettricità all’acqua
IN QUESTO VIAGGIO NON ABBIAMO EMESSO UN SOLO GRAMMO DI CARBONIO
per separare i suoi componenti e portare via l’idrogeno. È la reazione inversa a quella della pila a idrogeno. L’acqua come combustibile, proprio ciò che predisse Jules Verne nel suo romanzo Lõisola misteriosa. Lars Jakobsen, dell’azienda norvegese NEL Hydrogen, è convinto che, quando l’elettricità proverrà da una fonte rinnovabile, l’elettrolisi su scala industriale cambierà il panorama energetico e riscriverà il nostro futuro. «Ci interessa l’idrogeno verde, non quello che si produce dal gas naturale, che contiene carbonio». La Norvegia è una potenza petrolifera, e qui sta il paradosso. Deve gran parte della sua prosperità alle abbondanti riserve di petrolio che estrae dal Mare del Nord. Nel 1927, gli scienziati della NEL crearono la prima stazione elettrolitica, e negli Anni 40 costruirono quella che risultò essere la più grande del mondo, un complesso che consuma 135 megawatt all’ora e nello stesso tempo produce 30.000 metri cubi di idrogeno. Solo il 5% della produzione di idrogeno nel mondo si ottiene partendo dall’acqua. Non è sufficiente. Bisogna fare un altro passo avanti. «Il problema principale dell’idrogeno non verde sta nel suo basso costo, trattandosi di un sottoprodotto. Se lo si vuole verde, è necessario ricorrere all’elettrolisi e alle energie rinnovabili», assicura Lars Jakobsen. La visione della società dell’idrogeno poggia su qualcosa che tutti noi conosciamo: il vento e la luce del sole, utilizzati come fonti esclusive di energia, e l’acqua liquida. Aggiungiamo a questi ingredienti la tecnologia elettrolitica – partire dall’acqua – e le pile a combustibile che utilizzano l’idrogeno per produrre corrente elettrica, cosa nota da più di un secolo. Così la maledizione si interrompe: la decarbonizzazione graduale della società umana diventa possibile. Quasi un terzo delle emissioni totali di CO2 proviene dai trasporti. Durante il nostro viaggio, una visita alla sede di Alstom ad Hannover ci ha permesso di conoscere uno dei maggiori produttori di treni della Germania. Solo sei anni fa, dice il suo direttore Jörg Nikutta, i concorrenti ridevano ai progetti dell’azienda per sviluppare un treno a idrogeno. Oggi i convogli Alstom saranno i primi a entrare in servizio in Germania, dove percorreranno 96 km sulla linea tra Cuxhaven e Buxtehude, nel Nord del Paese. I vagoni porteranno sul tetto i serbatoi del gas. «Ci sono molte possibilità di produrre idrogeno in maniera ecologica, e una di queste sono i mulini a vento. Per un terzo del loro tempo, i mulini producono energia che non viene impiegata. Possiamo connetterli a un dispositivo elettrolizzatore che produca idrogeno in quantità sufficiente per rifornire i serbatoi dei treni». Nei prossimi 20 o 30 anni, i mulini a vento e le fattorie solari, connessi a elettrolizzatori, divideranno le molecole d’acqua e produrranno idrogeno puro, senza tracce di carbonio. Il gas verrà immagazzinato in grandi sfere o in serbatoi, per poi convertirsi in elettricità; oppure verrà distribuito attraverso tubature agli edifici per fornire luce e calore. Alimenterà le pile a combustibile dei motori dei treni che trasportano idrogeno o i motori dei grossi camion che trasportano i serbatoi del prezioso gas fino alle stazioni di servizio. Nel nostro secondo giorno ad Amburgo, dove ogni anno si svolge la più grande fiera aeronautica, il rumore degli aerei passa attraverso le imponenti vetrate del Centro di ricerca aeronautica applicata (ZAL). L’impronta di carbonio dell’aviazione nel mondo ammonta al 2% del totale. Entro il 2050 è in progetto un aumento tra il 300 e il 700%. Presso il ZAL si sviluppano progetti per realizzare droni e aerei all’idrogeno. «Abbiamo già pronta la tecnologia per costruire un aereo a quattro posti, senza inventare niente di nuovo», dichiara Florian Becker, ricercatore dell’istituto di ingegneria termodinamica dell’agenzia aerospaziale tedesca. «Entro una decina d’anni, sarà possibile concepire un aerotaxi per nove passeggeri. Un aereo da quaranta posti con un’autonomia di 2.000 km sarà disponibile entro il 2033». L’elemento più abbondante dell’universo offre il controllo del futuro energetico. A Vincent Dewaersegger, portavoce di Toyota in Europa, piace paragonare l’idrogeno al formaggio e l’elettricità al latte. «I contadini producono latte, che è un alimento di breve durata e poco remunerativo. Ma se lo trasformano in formaggio, possono conservarlo e venderlo a un prezzo maggiore. L’energia si può immagazzinare per lungo tempo, con un alto valore economico a lungo termine, invece di venderla così com’è».
UN AEREO A IDROGENO DA 40 POSTI SARÀ DISPONIBILE ENTRO IL 2033
Qualche anno fa Eric Klinenberg, uno dei più influenti sociologi d’america, partecipò a una task force creata dall’amministrazione Obama per valutare progetti innovativi di ricostruzione nello Stato di New York dopo l’uragano Sandy. «Un team mi presentò un’idea chiamata Resilient Center », racconta Klinenberg. «Li ho ascoltati descrivere questo stimolante spazio di comunità aperto, gratuito, democratico, e gli ho detto che l’idea era meravigliosa ma che questi “centri resilienti” esistevano già e si chiamavano biblioteche pubbliche». Fu in quel momento che Klinenberg partorì quello che sarebbe poi diventato il suo nuovo saggio, Palaces for the People, e la sua teoria: le società occidentali hanno un disperato bisogno di luoghi fisici dove le persone possano incontrarsi. E per i governi sarebbe importante investire in questo tipo di infrastrutture sociali quanto lo è farlo su ponti, autostrade e aeroporti. Palazzi per il popolo è un titolo affascinante. È un’espressione di Andrew Carnegie. Fu il Bill Gates della sua epoca, tra l’ottocento e il Novecento: era uno degli uomini più ricchi del mondo, affarista senza scrupoli, a tratti crudele con i lavoratori. Non un essere umano esemplare, insomma, ma anche un vero filantropo. Credeva nel potere delle biblioteche come luoghi dove immigrati e operai potessero migliorarsi. Carnegie ha finanziato la costruzione di oltre 2.800 biblioteche nel mondo, c’è un tipo di edificio che si chiama Carnegie Library, molto grande, soffitti alti, finestre ampie, spazi generosi per ritrovarsi e leggere. Lui li chiamava palazzi per il popolo. L’idea era che potessero accogliere tutti, a prescindere da classe sociale o diritti di cittadinanza. Un’idea molto attuale. Forse oggi più che mai. Io la uso per riferirmi alle librerie, ma anche a una serie di posti fisici che possono aiutarci a costruire relazioni e comunità: i giardini, i parchi giochi, i campi atletici, le scuole, le università. Sono tutti parte di quella che io chiamo infrastruttura sociale. Quanto influisce la mancanza di questa infrastruttura? In America sperimentiamo una sorta di guerra civile per diverse ragioni, ma il fatto che le persone non abbiano spazi pubblici dove incontrarsi e confrontarsi rende tutto significativamente peggiore. Troppi trascorrono il tempo sui social media a urlarsi contro, in un contesto dove per passare da civili a violenti o minacciosi bastano 140 caratteri. Non credo che investire in edifici pubblici sia abbastanza per aggiustare tutto quello che è rotto in
America, ma credo anche che senza individuare il modo di costruire connessioni umane solide e stabili con quelli che non sono come noi perdiamo la possibilità di trovare uno scopo comune, che è il vero antidoto al populismo. Il mio libro è proprio un appello per portare investimenti pubblici nelle infrastrutture sociali. Pensa che l’attuale amministrazione americana possa essere interessata ad accoglierlo? Trump gioca su un tipo di ostilità perfetta da aizzare sui social media, contro persone che non si vedono. È facile odiare e minacciare chi esiste solo dentro uno schermo. Se le infrastrutture sociali vivono un declino, significa che hanno avuto un’età dell’oro. Assolutamente sì. New York è diventata la grande città che conosciamo perché ha creato una rete di servizi pubblici per tutti, per i lavoratori poveri come per i miliardari. Provi a immaginare un mondo nel quale le biblioteche non sono ancora state inventate. E poi immagini come sarebbe presentare l’idea a Trump. Non vorrei essere nei panni di chi lo deve fare. Per niente. Lei vada dall’attuale governo a dire che vuole aprire un bell’edificio in ogni quartiere, riempirlo di libri, film e computer, assumere persone per aiutare chi entra, gli dica che sarebbe una struttura da tenere aperta quasi ogni giorno e che sarebbe a disposizione di tutti, a prescindere da ceto, razza e diritti di cittadinanza, e soprattutto che sarebbe completamente gratuita. La caccerebbero dalla stanza ridendo come dei pazzi. Eppure c’è stato un momento in cui le città americane sono state costruite intorno a quest’idea ed è per questo che abbiamo parchi pubblici, piscine, trasporti e biblioteche. Nel suo libro scrive che la differenza sta nel modo con cui reagiamo alle finestre rotte. Perché? È una vecchia teoria: se in una zona ci sono le finestre rotte, bisogna mandare la polizia perché quello è sicuramente un quartiere di criminali. Un approccio che ha portato alla tolleranza zero e all’incarcerazione di massa, negli Stati Uniti. La mia domanda è: cosa succede invece se ripariamo le finestre, creando infrastrutture sociali e restituendo gli spazi alle città, invece di mandare la polizia ad arrestare la gente? Innanzitutto, meno arresti. Non solo. Ci sono studi interessanti sulla città di Philadelphia, che ha 50mila proprietà abbandonate. Spesso bastano poche centinaia di dollari per trasformare un terreno abbandonato in parco giochi, poche migliaia per fare di un palazzo abbandonato una biblioteca. Se metti un edificio fatiscente a disposizione del quartiere, gli spacciatori non ci andranno più. I dati dimostrano che a Philadelphia i reati si sono ridotti del 40%. Tanti crimini non sono una questione di persone, ma di situazioni. Oggi, invece, ci si ritrova sui social media. Dopo l’elezione di Trump, Mark Zuckerberg disse che non dovevamo preoccuparci di nulla, perché Facebook sarebbe diventato la nostra principale infrastruttura sociale, che avrebbe portato nella vita di tutti la possibilità di appartenere a delle comunità. E vuole sapere qual è il paradosso? Che nessuno più di Zuckerberg ha investito in infrastrutture sociali, il campus di Facebook è un posto pazzesco per lavorare, c’è tutto quello che i migliori ingegneri, architetti e designer del mondo potevano concepire per soddisfare i bisogni delle persone. Ovviamente solo di quelle che lavorano a Facebook. Come sappiamo, nella Silicon Valley stanno vietando i social e gli smartphone ai bambini: parliamo di gente che propone alla nostra società soluzioni che non vuole per i propri figli. Nel saggio precedente aveva affrontato il tema delle persone che sempre più spesso vivono da sole. Le due questioni sono collegate? Non sempre. Le persone vivono da sole ma sono connesse in nuovi modi, succede negli Stati Uniti come in Italia. Oggi è più facile vivere da soli, perché ci sono tantissimi luoghi di incontro. Ma ovviamente sono solo a disposizione di determinate classi sociali, un ricco professionista urbano non ha difficoltà, il problema della socialità fuori casa è per quelli che non hanno accesso a infrastrutture costose come caffè e ristoranti. C’è qualche esempio che la fa essere ottimista? Nello Stato di New York hanno costruito una barriera per proteggere la costa dalle inondazioni, ma l’hanno anche trasformata in un parco, che è un modo interessante di convertire un’infrastruttura in un’infrastruttura sociale. A Columbus, Ohio, i cittadini si sono autotassati per costruire nuove biblioteche. In Bangladesh ci sono biblioteche e scuole galleggianti, per permettere anche alle comunità più fragili l’accesso a cultura e socialità. E per quanto riguarda l’italia? Le vostre città sono naturalmente costruite intorno a infrastrutture sociali, come le piazze. Sono luoghi che voi date per scontati, non vi rendete conto di che privilegio sia avere un posto così in ogni città per sedersi e passeggiare. È vero anche che le vostre biblioteche stanno invecchiando, hanno bisogno di nuove risorse per adattarsi ai bisogni contemporanei, e invece si riducono gli orari e i servizi a causa dei tagli al budget. C’è bisogno di nuovi investimenti per salvare la socialità che avete la fortuna di avere.