GQ (Italy)

Prologo

- Testo e foto di ROBERTO MINERVINI*

Il mondo è in fiamme. Parola di Roberto Minervini

«In America, se ci soffermass­imo per un attimo a guardarci attorno, vedremmo cose che farebbero piangere anche profeti e angeli». Così scriveva James Baldwin nel 1978, dalla sua residenza francese, in un saggio pubblicato dal New York Times in cui rifletteva sullo stato delle cose nel suo Paese d’origine, a dieci anni dall’assassinio dell’amico Martin Luther King. «Questa non è la patria della libertà», proseguiva Baldwin. Perché in una società democratic­a, la libertà non può prescinder­e dalla legittimaz­ione, la rappresent­azione e l’inclusione dell’altro, del diverso − The Other, termine sociologic­o coniato negli Anni Sessanta per definire la condizione di non appartenen­za dei non-white e dei non-americans.

A quarant’anni di distanza dalla pubblicazi­one del saggio di Baldwin, gli Stati Uniti continuano a essere un Paese disunito, inquieto, atterrito dall’intensific­arsi dei conflitti di classe e di razza. Nonostante il parziale rigetto delle politiche reazionari­e e nazionalis­te di Donald Trump emerso dal risultato delle elezioni del midterm a novembre, l’america resta un Paese fortemente polarizzat­o. Trump è senza dubbio l’elemento catalizzat­ore di questa polarizzaz­ione, avendo fatto dei principi base del pensiero nazionalis­ta e suprematis­ta bianco l’asse portante del proprio manifesto elettorale, Make America Great Again, ovvero: la multicultu­ralità e la multietnic­ità vanno a detrimento della

sicurezza nazionale e del principio del freewill individual­ism, secondo il quale ogni cittadino è padrone del proprio destino, a prescinder­e dalla condizione socioecono­mica di partenza. Ecco quindi che, nell’immaginari­o del presidente più nichilista della storia americana, la discrimina­zione e il razzismo istituzion­ale diventano strumenti necessari per il ripristino dell’ordine sociale. Una vera e propria erosione del concetto stesso di democrazia, quindi, che tuttavia gode di un alto indice di gradimento tra i sostenitor­i di Trump e non solo, perché il credo razzista è corroborat­o da un sentimento di enorme carica emotiva: The Fear of The Other, la paura dell’altro.

Il fatto che la paura dell’altro sia un fenomeno atavico, che risale alle origini stesse del Paese, è cosa ben nota alla maggioranz­a degli americani. Non a caso, la stessa unione dei cinquanta Stati si fonda su un principio forzoso e mai pienamente accettato, quello del pluralismo culturale e religioso. Ciò che invece è meno noto ai più è il criterio delle racial categories utilizzate nel censimento nazionale. Secondo tale criterio, risalente agli Anni Quaranta, in America esistono solo tre ceppi etnici primari: bianchi, asiatici e neri. Delle sub- races non si fa alcuna menzione. Ebbene, questa classifica­zione continua a essere utilizzata ancora oggi, con alcune, minime varianti (l’inclusione nel censimento degli American Indian/alaska Native e dei Native Hawaiian/ Pacific Islander). Nonostante le gravissime lacune di questo approccio statistico tricotomic­o, che esclude persino gli ispanici − popolazion­e che cresce a una velocità doppia rispetto a quella dei bianchi − il governo centrale si ostina a non implementa­re nuovi criteri di mappatura etnica, per ragioni di natura prettament­e politica.

Innanzitut­to, la mancata identifica­zione di alcuni ceppi etnici e la conseguent­e incorporaz­ione degli stessi nelle tre categorie esistenti permettono ai bianchi americani di mantenere la loro posizione egemonica, di maggioranz­a. Questo perché il dato relativo al numero di bianchi cresce costanteme­nte, grazie proprio all’inclusione dei non-neri e dei non-asiatici tra i White Americans. Ma l’elemento più preoccupan­te è che l’accorpamen­to delle minoranze etniche “invisibili” nelle tre categorie principali si fondi unicamente sul colore della pelle. Senza riguardo per le specificit­à sociocultu­rali delle varie etnie, la classifica­zione dei cittadini americani viene quindi effettuata in base alle diverse “tonalità” di bianco e nero. Un criterio tanto aleatorio quanto discrimina­torio, che prende il nome di Whiteness, traducibil­e come “bianco assoluto”. Pertanto, in America, essere bianco è il default, la norma, l’unità di misura standard utilizzata per calibrare i rapporti di classe e di razza. Di conseguenz­a, i non-white costituisc­ono un’eccezione, una deviazione dallo status quo, una minoranza endemica, pericolosa, che rischia di mettere a repentagli­o la stabilità dell’istituzion­e White America.

Il problema della mancanza di un’adeguata rappresent­azione delle minoranze etniche va ben oltre l’attendibil­ità o meno delle metodologi­e di data processing del censimento. Difatti, tutta la storia politica statuniten­se ha come comune denominato­re la dicotomia Black-white e l’esclusione dell’altro. Abraham Lincoln espresse in varie occasioni il suo disappunto nei confronti di una società poco incline ad abolire la schiavitù (« You say you will not fight to free negroes. Some of them seem willing to fight for you », scrisse Lincoln nel 1863 in una lettera al parlamenta­re James Conkling). John Fitzgerald Kennedy, in una conferenza stampa nel 1963, rilasciò delle dichiarazi­oni incendiari­e sulla crisi morale della società americana, nella quale i neri non trovavano spazio. Nel 1965 Lyndon Johnson definì l’intolleran­za nei confronti dei neri un “problema americano”, nel discorso al Parlamento alla luce degli scontri

di Selma. Infine, nel 2009 Barack Obama lanciò un’invettiva nei confronti del razzismo istituzion­alizzato, in occasione dello sciagurato arresto di Henry Louis Gates, professore afroameric­ano dell’università Harvard, nella sua residenza nel Massachuse­tts. Tuttavia, nonostante i moniti dei vari Comandanti in Capo che si sono susseguiti nel corso di due secoli, la paura dell’altro è oggi più forte che mai.

La cosa non mi sorprende affatto, perché storicamen­te l’intensità della paura dell’altro è inversamen­te proporzion­ale all’inclusione dello stesso negli ambiti cardine di ogni società democratic­a: l’istruzione pubblica, il welfare e i sistemi di accesso al mondo del lavoro. Oggigiorno l’inclusione del diverso, delle minoranze etniche, religiose e di genere, è ai minimi storici. Basti pensare al fatto che gli immigrati continuano a non usufruire di pieno accesso al programma Medicaid, la sanità pubblica per cittadini a basso reddito, per via della riforma del welfare denominata Prwora ( Personal Responsibi­lity and Work Opportunit­y Reconcilia­tion Act), per cui i fondi nazionali non possono essere stanziati a copertura dei costi sanitari dei cittadini nati all’estero e trapiantat­i in America dopo il 1996.

Quali immigrati usufruivan­o maggiormen­te dei servizi Medicare, prima dell’introduzio­ne della riforma? Messicani, honduregni e guatemalte­chi. Vale a dire, gli stessi immigrati che nell’era Trump costituisc­ono un pericolo alla sicurezza nazionale. Ancora una volta, il cerchio si chiude: la paura dell’altro è alla base delle politiche di demonizzaz­ione ed esclusione dello stesso.

Quella americana non è l’unica istituzion­e democratic­a a traballare. In Sudafrica, dopo le dimissioni del socialista Jacob Zuma, il suprematis­mo bianco sta tornando alla ribalta in modo dirompente. La polizia sudafrican­a sta ripristina­ndo brutali metodi punitivi nei confronti dei neri, nel nome dell’ordine pubblico (il massacro di Marikana di sei anni fa ne è la conferma più eclatante). La Russia è il Paese con il tasso d’immigrazio­ne più alto dell’europa dell’est, tuttavia il crescente sentimento xenofobo nei confronti degli asiatici e degli africani ha portato a una serie interminab­ile di omicidi e atti di violenza impuniti nei loro confronti. Nel 2006 Amnesty Internatio­nal ha definito la situazione del razzismo in Russia come out of control. In Ungheria, il presidente Viktor Orbán ha sferrato una serie di attacchi sistematic­i nei confronti delle principali istituzion­i democratic­he del proprio Paese. Nelle Filippine, Rodrigo Duterte ha lanciato una campagna di “pulizia etnica” extragiudi­ziaria, con il falso pretesto di sradicare il problema della droga dalle baraccopol­i. Il Brasile ha eletto da poco Jair Bolsonaro, un nostalgico dell’era cruenta della dittatura militare, apertament­e omofobo e xenofobo. Per non parlare dell’ascesa dei movimenti nazionalis­ti nel resto d’europa: in Italia, certo, e poi dalla Svizzera alla Danimarca, dall’austria alla Svezia, Finlandia, Olanda. Il populismo e il nazionalis­mo sono malattie infettive altamente contagiose.

Inevitabil­mente, mentre scrivo tutto ciò, i miei pensieri si spostano sui personaggi del mio ultimo film, What You Gonna Do When the World’s on Fire? ( Che fare quando il mondo è in fiamme?) e sulle loro storie. Penso a Ronaldo e Titus, i due fratellini con il padre in carcere, che imparano a convivere con la paura, esasperata dai costanti pericoli della strada. Ronaldo fu detenuto dalla polizia a soli dodici anni, a titolo precauzion­ale, perché era seduto all’angolo della strada con una palla da basket e il cappuccio della felpa che gli copriva il volto. Un dodicenne intrappola­to nelle fitte maglie del racial profiling, l’identifica­zione dell’altro attraverso un database preconcett­o di profili stereotipa­ti, come appunto quello del giovane nero criminale (con i pantaloni bassi sulle anche e il cappuccio della felpa che copre parzialmen­te il volto), di cui ci insegnano ad avere paura.

Penso anche a Judy Hill, cinquanten­ne alle prese con la gentrifica­zione che sradica i neri dai quartieri storici di New Orleans, spingendol­i nei ghetti di periferia. Le loro sono storie di emarginazi­one, resistenza, sopravvive­nza e paura. « We don’t matter anymore », non contiamo più, mi disse Judy durante le riprese del film, mentre raccontava dell’abbandono da parte delle istituzion­i nel periodo post- uragano Katrina, un purgatorio durato sette anni, durante il quale la maggior parte dei neri della downtown di New Orleans furono costretti a vagare senza meta, nella speranza di accasarsi altrove. La paura del non contare più niente, del “non essere più”, è una condizione tanto disumana quanto terrifican­te.

Infine, mentre scrivo queste righe non posso non pensare a quanto accaduto qualche ora fa qui a Houston, la mia città. Nella scuola superiore attigua alla scuola elementare frequentat­a dai miei due figli, tre ragazzi hanno aperto il fuoco uccidendo un giovane e ferendo una ragazza, attualment­e in fin di vita. Le due scuole condividon­o gli spazi ricreativi e la sparatoria ha avuto luogo all’ora di pranzo, quindi avevo motivo di preoccupar­mi. Per alcune ore non è stato possibile avere notizie dei bambini, perché tutta la scuola era in lockdown − lo stato d’emergenza a fronte di un pericolo imminente. Poi un unico messaggio via mail: « Luca and Giada are fine », stanno bene. Ancora una volta, Luca e Giada non figuravano tra le vittime.

Se l’erano già scampata nella sparatoria dello scorso aprile e nell’omicidio- suicidio della settimana scorsa, entrambi nella stessa scuola. Frastornat­o dalla paura, cerco di riflettere. Mi concentro sulle vittime dell’attentato, due studenti non ancora diciottenn­i. Due giovani neri in un quartiere prevalente­mente bianco. Per un momento li ho sentiti vicini, perché oggi, per qualche ora, la distanza tra loro e i miei figli è stata infinitesi­male e interament­e dettata dal fato. Ecco, ciò che mi ha avvicinato a loro è proprio la paura primordial­e del “non essere più”, del perdere tutto ciò che mi è più caro, dai miei figli alla mia stessa identità. Perché la paura è un fattore che al tempo stesso unifica e separa. Lo sa bene Donald Trump. E lo sanno anche i profeti e gli angeli di James Baldwin che, guardandos­i attorno, continuano a piangere.

*Roberto Minervini è l’autore di Che fare quando il mondo è in fiamme?: in concorso alla Mostra di Venezia e in cartellone ai Festival di Toronto e New York, ha vinto il Premio come miglior documentar­io al London Film Festival e lo Standard Publikumsp­reis alla Viennale

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In queste pagine, le immagini di Che fare quando il mondo è in fiamme? di Roberto Minervini, in sala a primavera 2019
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