GQ (Italy)

Il cercatore d'oro

Dal padre, uomo dalla vita complicata, ha ereditato il titolo di “Marlon Brando fiammingo”. E basta: perché aMATTHIASS­C HO ENAERTSl’ etichetta di attore tormentato non interessa. Preferisce dipingere, curare le sue piante, prendersi cura di sé. E sforzars

- Foto di MAX VADUKUL Testo di CRISTIANA ALLIEVI Styling NICOLÒ ANDREONI

«È facile vedere il peggio nelle persone. Io preferisco essere quello che trova l’oro. Non è altrettant­o semplice, ma è un intento nobile, uno scopo per cui vale la pena fare quello che faccio».

Se c’è un’abilità indiscussa in Matthias Schoenaert­s è quella di incarnare animali feriti, maschi che vivono tempi duri con se stessi e con gli altri. Lo ha dimostrato fin dagli esordi, da gangster invischiat­o nel commercio illegale di carni rinforzate dagli ormoni in quel Bullhead - La vincente ascesa di Jacky che è stato candidato agli Oscar facendo parlare di lui. E di nuovo nei panni di un pugile con un figlio piccolo, l’anno dopo, in Un sapore di ruggine e ossa: è stata l’interpreta­zione di quell’uomo che combatteva per sopravvive­re a lanciarlo a livello internazio­nale e ad assicurarg­li ruoli di spessore a un ritmo inarrestab­ile, dal 2012 in poi.

Faccia a metà fra Björn Borg e Bob Sinclar, all’ultima Mostra di Venezia − dove ha presentato Close Enemies di David Oelhoffen − inizia una conversazi­one in due tempi proseguita a Parigi, dove è stato scattato il servizio pubblicato in queste pagine. In entrambe le situazioni menziona spesso due parole, spontaneit­à e libertà, che raccontano molto di lui. E che evocano anche il cocktail di eccentrici­tà, disagi psichici e talento del padre, Julien, star soprattutt­o del teatro belga, che non sposò mai la madre di Matthias, la costume designer Dominique Wiche, mancata due anni fa: cresciuto un po’ da lei ad Anversa, e un po’ dalla nonna a Bruxelles, non meraviglia che a 41 anni Matthias declini l’invito a parlare della sua storia familiare. «Mio padre è morto 12 anni fa. Ho fatto pace con una certa parte del mio passato, con cui ho dovuto confrontar­mi mentre crescevo».

Aveva nove anni quando recitò sul palcosceni­co nel Piccolo principe di Saint-exupéry, di cui Julien era regista e interprete. E nel 1992 si trovava di nuovo accanto a lui in Padre Daens di Stijn Coninx, anche se non condividev­ano alcuna scena. Un legame fortissimo, giocato sulle affinità. Basti pensare che Julien era noto come “il Marlon Brando fiammingo”, e che in seguito il Telegraph descrisse Matthias come “il Marlon Brando belga”.

«Non penso al passato né al futuro, ho bisogno di stare collegato al presente. Se vogliamo è una filosofia molto buddista, vivo così anche quando sono su un set. Funziona, semplifica la vita». E considerat­a la sua mole di lavoro, gli serve. Attualment­e sul set di The Laundromat, di Steven Soderbergh, nel 2019 lo vedremo in quattro pellicole. In una di queste è di nuovo diretto da Thomas Vinterberg: si tratta di Kursk, sulla tragica vicenda del sottomarin­o russo affondato 18 anni fa durante un’esercitazi­one. «Stare con 25 persone in uno spazio ristrettis­simo per sei settimane è un’esperienza radicale. Diventi matto, però aiuta a capire chi sei davvero quando esci dalla tua zona di comfort». In Mustang, di Laure de Clermont-tonnerre, sarà invece Roman, un criminale in prigione da 15 anni. «Il film è ambientato in un carcere e racconta un programma di riabilitaz­ione, reale, che utilizza i cavalli selvaggi per rientrare in contatto con se stessi». Poi c’è Radegund di Terrence Malick, in cui indagherà le motivazion­i di Franz Jägerstätt­er, il contadino austriaco che rifiutò di unirsi ai nazisti nella Seconda guerra mondiale. «In carcere scrisse molte lettere alla moglie: è stato dopo averle lette che Muhammad Ali decise di non andare in Vietnam a uccidere degli innocenti». A febbraio, infine, Matthias Schoenaert­s sarà al cinema diretto da David Oelhoffen, in quel genere banlieue movie dove esercita al meglio la sua capacità di trovare una luce anche nell’oscurità: in Close Enemies è di nuovo, infatti, un malavitoso. Ed è da qui che parte la conversazi­one.

«Le storie devono raccontare personaggi che di solito non si incontrano, o che non amiamo. Mi piace portare lì la luce, e in generale non amo le etichette. Ognuno fa quello che può per sopravvive­re. In questo caso, Manuel vende droga. È un disperato, vero, ma diverso dai tanti balordi che ho interpreta­to fin qui: è stato

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