Il cercatore d'oro
Dal padre, uomo dalla vita complicata, ha ereditato il titolo di “Marlon Brando fiammingo”. E basta: perché aMATTHIASSC HO ENAERTSl’ etichetta di attore tormentato non interessa. Preferisce dipingere, curare le sue piante, prendersi cura di sé. E sforzars
«È facile vedere il peggio nelle persone. Io preferisco essere quello che trova l’oro. Non è altrettanto semplice, ma è un intento nobile, uno scopo per cui vale la pena fare quello che faccio».
Se c’è un’abilità indiscussa in Matthias Schoenaerts è quella di incarnare animali feriti, maschi che vivono tempi duri con se stessi e con gli altri. Lo ha dimostrato fin dagli esordi, da gangster invischiato nel commercio illegale di carni rinforzate dagli ormoni in quel Bullhead - La vincente ascesa di Jacky che è stato candidato agli Oscar facendo parlare di lui. E di nuovo nei panni di un pugile con un figlio piccolo, l’anno dopo, in Un sapore di ruggine e ossa: è stata l’interpretazione di quell’uomo che combatteva per sopravvivere a lanciarlo a livello internazionale e ad assicurargli ruoli di spessore a un ritmo inarrestabile, dal 2012 in poi.
Faccia a metà fra Björn Borg e Bob Sinclar, all’ultima Mostra di Venezia − dove ha presentato Close Enemies di David Oelhoffen − inizia una conversazione in due tempi proseguita a Parigi, dove è stato scattato il servizio pubblicato in queste pagine. In entrambe le situazioni menziona spesso due parole, spontaneità e libertà, che raccontano molto di lui. E che evocano anche il cocktail di eccentricità, disagi psichici e talento del padre, Julien, star soprattutto del teatro belga, che non sposò mai la madre di Matthias, la costume designer Dominique Wiche, mancata due anni fa: cresciuto un po’ da lei ad Anversa, e un po’ dalla nonna a Bruxelles, non meraviglia che a 41 anni Matthias declini l’invito a parlare della sua storia familiare. «Mio padre è morto 12 anni fa. Ho fatto pace con una certa parte del mio passato, con cui ho dovuto confrontarmi mentre crescevo».
Aveva nove anni quando recitò sul palcoscenico nel Piccolo principe di Saint-exupéry, di cui Julien era regista e interprete. E nel 1992 si trovava di nuovo accanto a lui in Padre Daens di Stijn Coninx, anche se non condividevano alcuna scena. Un legame fortissimo, giocato sulle affinità. Basti pensare che Julien era noto come “il Marlon Brando fiammingo”, e che in seguito il Telegraph descrisse Matthias come “il Marlon Brando belga”.
«Non penso al passato né al futuro, ho bisogno di stare collegato al presente. Se vogliamo è una filosofia molto buddista, vivo così anche quando sono su un set. Funziona, semplifica la vita». E considerata la sua mole di lavoro, gli serve. Attualmente sul set di The Laundromat, di Steven Soderbergh, nel 2019 lo vedremo in quattro pellicole. In una di queste è di nuovo diretto da Thomas Vinterberg: si tratta di Kursk, sulla tragica vicenda del sottomarino russo affondato 18 anni fa durante un’esercitazione. «Stare con 25 persone in uno spazio ristrettissimo per sei settimane è un’esperienza radicale. Diventi matto, però aiuta a capire chi sei davvero quando esci dalla tua zona di comfort». In Mustang, di Laure de Clermont-tonnerre, sarà invece Roman, un criminale in prigione da 15 anni. «Il film è ambientato in un carcere e racconta un programma di riabilitazione, reale, che utilizza i cavalli selvaggi per rientrare in contatto con se stessi». Poi c’è Radegund di Terrence Malick, in cui indagherà le motivazioni di Franz Jägerstätter, il contadino austriaco che rifiutò di unirsi ai nazisti nella Seconda guerra mondiale. «In carcere scrisse molte lettere alla moglie: è stato dopo averle lette che Muhammad Ali decise di non andare in Vietnam a uccidere degli innocenti». A febbraio, infine, Matthias Schoenaerts sarà al cinema diretto da David Oelhoffen, in quel genere banlieue movie dove esercita al meglio la sua capacità di trovare una luce anche nell’oscurità: in Close Enemies è di nuovo, infatti, un malavitoso. Ed è da qui che parte la conversazione.
«Le storie devono raccontare personaggi che di solito non si incontrano, o che non amiamo. Mi piace portare lì la luce, e in generale non amo le etichette. Ognuno fa quello che può per sopravvivere. In questo caso, Manuel vende droga. È un disperato, vero, ma diverso dai tanti balordi che ho interpretato fin qui: è stato