Il designer Maurizio Montalti, il re delle top model Piero Piazzi
A guardarli sembrano coralli, oppure i tamburelli delle danze popolari, però senza sonagli. A toccarli la sensazione ricorda il velluto, la pelle o il cuoio. Ma non servono a ripulire i mari né a tenere il ritmo, bensì «a cambiare le sorti dell’umanità». La pensa così Maurizio Montalti, designer sperimentale e transdisciplinare fondatore di Officina Corpuscoli e del progetto industriale Mogu (fungo, in cinese). Dal 2010 lavora sugli organismi fungini per la messa in atto di processi di degradazione della materia. Obiettivo: ottenere biomateriali utilizzabili in diversi settori industriali, dalla moda al design. Ma perché i funghi? «Perché sono i grandi decompositori e riciclatori del sistema naturale, scompongono le molecole e le restituiscono all’ambiente, creando nuovi processi di crescita».
L’avventura di Mogu inizia nel 2015 a Varese come naturale proseguimento delle ricerche nel campo della micologia effettuate da Officina Corpuscoli, che ha sede ad Amsterdam dove tuttora vive Montalti. «L’economia mondiale», spiega, «gira attorno alla produzione del superfluo e nessuna azienda si assume la responsabilità di capire cosa succede quando quel tale prodotto viene inserito nel mercato». Nonostante alcune realtà della moda ci abbiano e ci stiano provando, da grandi brand di sportswear a fashion designer, la realtà è che si tratta ancora di “marketing strategies”. «Anche perché, quando un capo o un accessorio è in edizione limitata e costa più degli altri, come tale non serve a nessuno».
Nell’ultima decade si è lavorato per introdurre un cambiamento a livello culturale che già ha avuto i suoi risultati, ma
è un processo che richiede tempo: «Il problema è tecnologico, quindi di competenze, non finanziario». Negli Stati Uniti, per esempio, si sono investiti milioni di dollari per realtà come Bolt Threads e Modern Meadow che hanno lavorato molto sulle biotecnologie. «A livello globale però i designer che come me si sono impegnati oltre la visione sperimentale si contano sulle dita di massimo due mani». Nonostante ci sia tanta enfasi attorno all’argomento, «finché la competizione non viene tramutata in collaborazione per il benessere collettivo resteremo indietro. Ma ci arriveremo, anzi, ci stiamo arrivando». Più ottimista o utopista? «In Mogu la sperimentazione sta diventando realtà su larga scala: a partire dai primi mesi del 2019 lanceremo una serie di prodotti di interni, moduli, pannellature, pavimentazioni. E sono certo che anche il sistema moda aprirà ai biomateriali».
Ma può una simil pelle replicare le qualità di una vera pelle? «È qui il problema: alcuni brand hanno lanciato prodotti che non hanno funzionato perché hanno cercato di replicare materiali già esistenti, mentre questo tipo di tecnologia offre possibilità ben più vaste». Dovrà essere un materiale diverso, alternativo, non una brutta copia dell’originale: «I tessuti creati in modo tradizionale hanno qualità tecniche ed esperienziali fantastiche, perché possiedono strutture molecolari di un certo tipo che gli consentono di avere grandi resistenze meccaniche, potenziate inoltre da interventi di ingegnerizzazione». Come la pelle trattata con alcune sostanze o il filo di cashmere lavorato in un certo modo.
Il discorso cambia radicalmente con i materiali che derivano da processi biologici: la più grande difficoltà sta nel sopperire alla mancanza di tali proprietà strutturali, per esempio la poca resistenza allo strappo. «Ci stiamo lavorando: introdurremo attraverso le nanotecnologie altre componenti organiche che, senza nulla togliere alla naturalità del prodotto finito, gli conferiscono addizionali proprietà meccaniche». Da solo il “wow-factor”, ossia l’effetto sorpresa, non basta: serve anche la performance per rendere il tessuto più desiderabile di quello tradizionale. E serve l’affidabilità di reperimento: «Non ci illudiamo certo di soddisfare da soli la domanda di tutta l’industria del fashion. Ma possiamo offrire a tanti altri le nostre tecnologie, per aiutarli a soddisfarla. Entro un paio di anni ci riusciremo».
«I biomateriali hanno ancora alcuni limiti strutturali ma, attraverso nuove nanotecnologie, otterremo oggetti più desiderabili di quelli tradizionali»