«Il segreto del mio successo: un esibizionismo sfrenato»
«POTREMMO SEDERCI INTORNO A UNA FIAMMA E RACCONTARCI STORIE. ECCO QUELLO CHE DOVREMMO FARE, INVECE DI AVVELENARCI E UCCIDERCI A VICENDA»
C’è un aneddoto dell’infanzia di Ezra Miller che dice già tutto dell’uomo che sarebbe diventato, o almeno lo fa intuire. Succede in prima elementare, a sei anni circa, il giorno in cui la maestra assegna agli alunni la lettura di un libro a scelta che dovrà poi essere presentato alla classe intera. Lui sceglie Cujo di Stephen King, la storia di un docile San Bernardo che viene morso da un pipistrello, contrae la rabbia, diventa violento, uccide almeno tre persone e ne attacca altrettante prima di venire finito a colpi di mazza da baseball. Siccome il libro lo appassiona molto, per presentarlo alla classe il piccolo Ezra non si limita a un tema o a un riassunto, ma pensa a qualcosa di speciale. Prima di tutto si fa comprare un grosso cane di peluche. Poi lo ricopre di sangue e registra se stesso mentre legge il romanzo, in un’interpretazione alquanto sentita. Quindi collega il pulsante di riproduzione alla zampa del cane: basta premerla perché le parole vengano fuori dal pupazzo. Ingegnoso, indubbiamente, tanto che la maestra prima gli dà un bel 10, poi però gli dice che a fine giornata deve riportare tutto a casa perché a scuola un cane insanguinato, per quanto di peluche, non ci può stare.
Poco più di dieci anni dopo lo studente creativo si è trasformato in un attore acclamato dai critici per l’interpretazione di un piccolo serial killer in …E ora parliamo di Kevin, film del 2011 diretto dalla regista Lynne Ramsay e con Tilda Swinton nella parte della mamma. Coincidenze? Non proprio. «Ho sempre saputo che avrei fatto l’artista. Lo sono sempre stato, fin da bambino mi esibivo per le mie sorelle, per i miei genitori, per chiunque avessi davanti», dice in quel modo che, capirò dopo, è più un flusso di coscienza che la reale risposta a una domanda. «Ho ricordi molto precoci e tra questi non c’è un singolo momento in cui non fossi già uno spudorato esibizionista. Quando avevo tre anni mia sorella mi disse che come lavoro non avrei potuto fare il personaggio dei cartoni animati. Ne fui devastato. In fondo la mia vita si riduce proprio a questo, a una lotta continua contro quello che mi è stato insegnato precocemente: la realtà. Francamente, rispetto l’opinione di tutti, ma quello che è reale lo decido io nella mia testa. E mi domando che cosa sia reale per gli altri. Il dentifricio? Il fottuto lavoro? Che cosa è reale per te? Io non ne sono così sicuro, dubito sempre, non sono nemmeno sicuro che esista, il lavoro. So che queste cose sono importanti, ma non penso siano reali».
La loquacità non gli fa difetto. E neanche la capacità di raccontare storie, abbellire ogni frase con una citazione, possibilmente letteraria. Nessuna domanda è troppo banale per lui: riesce comunque a trasformarla in una riflessione filosofica, affascinante quanto difficile da seguire. Siccome ci parliamo per telefono, per prima cosa gli chiedo dov’è. In Europa, forse? Potrebbe rispondere semplicemente Londra. Invece dice: «Sono in quella che è Europa per un altro paio di mesi, un posto conosciuto come Inghilterra. E quindi sì, sono tecnicamente ancora in Europa, almeno fino a quando non sarà attuata la Brexit. “Non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te”. Conosce questi versi? Leggerli oggi avendo in mente la Brexit è una cosa che rende molto tristi ( l’autore del brano da cui Hemingway ha poi preso il verso diventato titolo del romanzo Per chi suona la campana si chiama John Donne, poeta e religioso inglese vissuto a cavallo tra il 1500 e il 1600, ndr)». Poi racconta dell’ultima volta che li ha sentiti. Era al Festival di Glastonbury, il giorno in cui passò il referendum sull’uscita del Regno Unito dall’europa. «La gente era scioccata, sconvolta. PJ Harvey ha interrotto il suo concerto e letto i versi sul palco, davanti a migliaia di persone, a quel punto tutte in lacrime. È stato un momento molto vero. E comunque sì, sono a Londra, seduto fuori dal locale in cui suonerò insieme alla mia band subito dopo aver finito questa conversazione».
Ezra Miller è nato e cresciuto a Wyckoff, in New Jersey. Suo padre, Bob, è un editore. La madre, Marta, una ballerina di danza moderna. Ha due sorelle maggiori, Saiya e Caitlin. La passione per lo spettacolo, come appunto racconta lui stesso, arriva presto: «Mi sono sempre sentito diverso. A cinque anni soffrivo di balbuzie. Mi sentivo fuori posto, ma più mi sentivo a disagio più mi innervosivo, e più mi innervosivo più balbettavo. Ero un escluso». La soluzione che i genitori trovano su consiglio del pediatra, una volta capito che la balbuzie dipende da un problema di respirazione e di controllo del fiato, è di mandarlo a lezione di canto classico. A sei anni incomincia a studiare l’opera e a esibirsi con la New York City Opera al Metropolitan, cosa che da una parte gli fa passare il disturbo di linguaggio, dall’altra lo rende un ragazzino ancora più strano e originale rispetto ai compagni. «È una sensazione che conosco bene e che ho provato in molti contesti della mia vita. Dall’altra
« LUCIANO PAVAROTTI ABBRACCIAVA TUTTI. ERO SOLO UN RAGAZZINO, MA GIÀ LO SAPEVO: AVREI DATO LA VITA PER VIVERE ALMENO UN SECONDO AL POSTO SUO»
parte, però, mi sono sentito accettato e invitato in un mondo speciale, magico, splendente, scintillante come quello dell’opera. Luciano Pavarotti era uno che abbracciava tutti. Andava sempre in giro e abbracciava anche i più piccoli, anche quelli non famosi. Quando l’ho visto esibirsi era già alla fine della carriera e stava seduto su uno sgabello, sul palco, e lì seduto cantava comunque l’aria migliore che chiunque avesse mai sentito in vita sua. Capisce? Era alla fine della carriera, eppure insisteva per portarsi da solo sul palco lo sgabello su cui si sarebbe appoggiato per un po’ prima di far esplodere la sua voce. Già da ragazzino dentro di me lo sapevo: avrei dato la vita per vivere un secondo da Luciano Pavarotti».
Il resto è storia. Il debutto come attore avviene nel 2008 in Afterschool di Antonio Campos. Seguono titoli quasi dimenticati – City Island, Beware the Gonzo, Every Day – fino al 2011, con la parte del piccolo psicopatico in …E ora parliamo di Kevin, accolto molto bene al Festival di Cannes. Che di fatto, a soli 18 anni, lo fa entrare in tutte quelle classifiche sui giovani da tenere d’occhio e le star del futuro. È qui che lui decide di lasciare il liceo per dedicarsi completamente alla carriera di attore.
«I miei genitori mi hanno cresciuto ripetendomi di lavarmi i denti e di trovarmi un lavoro. Quando ho cominciato a lavorare e a guadagnare soldi erano entusiasti. Non altrettanto quando ho deciso di lasciare la scuola. Diciamo che in momenti diversi della mia vita hanno avuto preoccupazioni diverse per il mio assoluto – e sottolineo assoluto – nonché spericolato abbandono nel perseguire le mie passioni, e nel mettere molto poco sforzo o attenzione per tutto il resto. Mollare il liceo è stato per me un modo, forse l’unico possibile, per continuare e intensificare la mia educazione in modo serio».
È a quell’età che Ezra incomincia anche a mettere in dubbio la sua identità sessuale, a provare attrazione per i maschi o, come dice lui, «a pensare di baciare i ragazzi. E quindi sì, so una cosa o due su cosa vuol dire essere un reietto sociale, anche se pur sempre all’interno di un contesto privilegiato e bianco». Torna a parlare dei genitori: «Sono stati di totale supporto nel mio impazzimento e nel mio scappare da ogni aspetto normale della vita, allo scopo di dare soddisfazione all’esibizionista smisurato che è dentro di me. Mi hanno sostenuto pienamente, in un modo bello di cui sono davvero grato. Forse, a un certo punto, soprattutto mio padre era preoccupato che non avessi pensato a un piano b, a una possibilità alternativa». E c’era? «Assolutamente no, non c’è mai stata. Non potrei fare altro. Non riesco a scendere da questa vita. E prego di non doverlo fare mai».
A giudicare da come gli stanno andando le cose, è un pericolo che non corre. Soprattutto da quando ai film piccoli e indipendenti si sono aggiunti quelli da grande pubblico come Animali fantastici e dove trovarli, in cui ha il ruolo di Credence Barebone. La parte del supereroe Flash – prima con un piccolo cameo in Batman v Superman: Dawn of Justice, poi in Justice League – ora diventa un film di cui è protagonista, Flashpoint, in pre-produzione e previsto per il 2020. Una direzione, quella dei grandi franchise hollywoodiani, che forse neanche lui si aspettava, che gli sta regalando una fama ben al di là della sua nicchia generazionale, e che potrebbe costringerlo a un aggiustamento delle prospettive e delle responsabilità.
Ezra Miller ci pensa più del solito e poi urla: «Si fottano le prospettive!». Poi fa un’altra pausa e poi elabora il suo pensiero così: «Quando da ragazzino facevo teatro, a cinque, sei anni, ero in cima al mondo. Ero al massimo, il top, capisce? Non c’è gerarchia nell’arte. È una cosa che è stata sovraimposta dal capitalismo e dalla strana, rovinata cultura dentro alla quale tutti ci troviamo a nuotare. Ma quando fai arte e la fai bene e senti che stai dando tutto te stesso, allora quella è la cosa importante, quello è il successo, e tu sei la superstar. Sei la supernova, il sole che esplode, il dio vivente, il creatore che fa girare i colori. Non sei quello che ti dicono gli altri. E non sei quello che pensi di essere. Quando fai arte sei molto meno e molto di più».
Come pochi prima di lui, Miller ha una di quelle facce che sembrano rappresentare perfettamente i tempi liquidi in cui viviamo. Non il passato. Non il futuro. Esattamente l’oggi. L’adesso. Con tutte le sue mille sfumature. Un po’ quello che è stato Keanu Reeves negli Anni 90 e prima di lui, anche se in modo diverso, Johnny Depp: uomini giusti al momento giusto e con la faccia giusta. Così è lui, lo è il suo volto dagli zigomi pronunciati ma non troppo, dolci abbastanza da sembrare effemminati. Lo sono i servizi fotografici in cui porta il rossetto, i tacchi e le calze a rete. Lo sono le fotografie sui vari red carpet dove è capace di presentarsi angelico in Dior vestito di fiori, oppure avvolto in un piumino nero Moncler lungo fino ai piedi
«QUANDO FAI ARTE E DAI TUTTO TE STESSO SEI LA SUPERS TAR, LA SUPERNOVA, IL SOLE CHE ESPLODE, IL CREATORE CHE FA GIRARE I COLORI»
disegnato da Pierpaolo Piccioli, e con sulle labbra un rossetto color prugna. Lo sono le dichiarazioni in cui si dice orgogliosamente queer, termine che indica un’identità sessuale non definita, così come quelle in cui sostiene di essere attratto sia dagli uomini che dalle donne. Sfuggente, restio alle etichette, come quest’epoca non più fatta di bianco e nero e di certezze binarie, ma dove gusti, identità, sessualità stanno all’interno di un continuum, si mischiano, non rispondono a nessuna regola, si esprimono per gradi più che per la semplice alternanza di presenza e assenza.
«Non farebbe male avere più spazio per più etichette, più spazio all’interno di etichette diverse, più spazio all’interno di ciascuna etichetta», dice, quando gli chiedo come vuole essere definito. «Sono per l’abbandono anarchico delle etichette che arriverà nell’apocalisse post-capitalista». Poi aggiunge: «Non è affascinante? Il fatto è che nella nostra società di marchi e di classificazioni non ne usciamo mai, passiamo continuamente da una casella all’altra. Anche quelli che riescono a sfuggire all’incasellamento poi passano alla storia come quelli che sono fuggiti dalle caselle. Non siamo mai veramente liberi». Insisto per sapere se preferisce il pronome femminile o quello maschile. «Io sono io. Sono un’entità, come qualsiasi altra entità. Provi a vedermi come un intero, come un tutto. Ha mai letto Daniel Gruber? Mi interessa molto il messianismo ebraico di cui scrive. Lui dice che già dal primo momento siamo abituati a classificare le persone, è un automatismo del nostro cervello, è un impulso che però si può frenare attraverso la pratica mistica. Trattenersi, fare domande, non saltare subito alle conclusioni. Cosa difficilissima da fare nel secolo in cui viviamo».
Poi Ezra Miller cita Leonard Cohen e il suo ultimo album, You Want It Darker, uscito nell’ottobre del 2016, venti giorni prima della sua morte, avvenuta il 7 novembre. E arriva il momento di parlare di musica. «È l’inizio e la fine, è tutto. Da bambino sono cresciuto con il bluegrass e i Beach Boys. Barbara Ann è uno dei miei primi ricordi in assoluto. L’opera uno di quelli più profondi e appassionati: è lì che ho iniziato a trovare la mia voce, a fare della musica il mio strumento». La band nella quale suona e che tra poco lo chiamerà per l’ultima prova si chiama Sons of an Illustrious Father e ne fanno parte anche Lilah Larson e Josh Aubin. Lilah e Ezra erano a scuola insieme, alle medie. Il genere per alcuni è gotico, per altri confessionale, emotivo, filosofico. Loro si definiscono una band genre-queer, una parola inventata che richiama gender-queer, a indicare l’indeterminatezza anche nel genere musicale. La canzone U.S. Gay è stata scritta dopo la strage avvenuta nel giugno del 2016 al Pulse, un club gay di Orlando, Florida, in cui morirono 49 persone.
Siccome so che vive in una fattoria in Vermont, gli chiedo se è una scelta fatta per tenersi lontano da Hollywood e da tutto quello che rappresenta. Dice che no, è un’interpretazione troppo elaborata. Sem- plicemente, da bambino è stato spesso in Vermont con la madre e si è innamorato di quella terra. «Mi sono ripromesso che quando avessi avuto i soldi l’avrei comprata. Non penso però che la terra ci appartenga, ma che siamo, nel peggiore dei casi, turisti, al massimo amministratori, e come via di mezzo ospiti». La questione ambientale gli sta molto a cuore: «Abbiamo un solo pianeta. È un dono, ci è stato regalato. E noi esistiamo per servire uno scopo. Non per incasinare il pianeta e avvelenarlo come stiamo facendo adesso. Non è quello per cui siamo qui. Sa che cos’altro potremmo fare collettivamente, come specie, oltre che ucciderci a vicenda e procurare buchi irreparabili alla nave spaziale su cui ci troviamo tutti? L’altra cosa che potremmo fare come specie è fottutamente fantastica. È la stronzata più bella di sempre. Vada a un qualsiasi raduno di persone dove non ci sono regole da seguire. In questo tipo di situazione l’umanità riesce ancora a sorprendere, perché quello che farà sarà costruire cose che non si sono mai viste, vedere colori che non possiamo neanche immaginare. L’umanità ha questa capacità: esattamente come fa oggi con il cinema, e come in passato abbiamo fatto davanti a un focolare, è la capacità di sedersi intorno a una fiamma tremolante e raccontare storie. Raccontare storie, ecco quello che dovremmo fare invece di ucciderci e avvelenarci a vicenda».
La conversazione verte sulla possibilità di rifugiarci tutti su Marte, cosa che Ezra Miller trova agghiacciante. «No, no, no. A parte che sarebbe una possibilità concessa solo a pochi, ma poi crede che non avremo bisogno della Madre Terra una volta lì? E a parte le patate, che cosa coltiviamo su Marte? No, non è questa la soluzione. Abbiamo un solo pianeta e dovremmo pensare a trattarlo bene, a tenercelo stretto». Quindi, cosa farebbe se avesse una bacchetta magica? La risposta, di getto, vira di nuovo su un altro piano: «Metterei fine alla misoginia».