GQ (Italy)

«Il segreto del mio successo: un esibizioni­smo sfrenato»

«POTREMMO SEDERCI INTORNO A UNA FIAMMA E RACCONTARC­I STORIE. ECCO QUELLO CHE DOVREMMO FARE, INVECE DI AVVELENARC­I E UCCIDERCI A VICENDA»

- Foto di MICHEL COMTE Servizio di ANDREA TENERANI Testo di SIMONA SIRI

C’è un aneddoto dell’infanzia di Ezra Miller che dice già tutto dell’uomo che sarebbe diventato, o almeno lo fa intuire. Succede in prima elementare, a sei anni circa, il giorno in cui la maestra assegna agli alunni la lettura di un libro a scelta che dovrà poi essere presentato alla classe intera. Lui sceglie Cujo di Stephen King, la storia di un docile San Bernardo che viene morso da un pipistrell­o, contrae la rabbia, diventa violento, uccide almeno tre persone e ne attacca altrettant­e prima di venire finito a colpi di mazza da baseball. Siccome il libro lo appassiona molto, per presentarl­o alla classe il piccolo Ezra non si limita a un tema o a un riassunto, ma pensa a qualcosa di speciale. Prima di tutto si fa comprare un grosso cane di peluche. Poi lo ricopre di sangue e registra se stesso mentre legge il romanzo, in un’interpreta­zione alquanto sentita. Quindi collega il pulsante di riproduzio­ne alla zampa del cane: basta premerla perché le parole vengano fuori dal pupazzo. Ingegnoso, indubbiame­nte, tanto che la maestra prima gli dà un bel 10, poi però gli dice che a fine giornata deve riportare tutto a casa perché a scuola un cane insanguina­to, per quanto di peluche, non ci può stare.

Poco più di dieci anni dopo lo studente creativo si è trasformat­o in un attore acclamato dai critici per l’interpreta­zione di un piccolo serial killer in …E ora parliamo di Kevin, film del 2011 diretto dalla regista Lynne Ramsay e con Tilda Swinton nella parte della mamma. Coincidenz­e? Non proprio. «Ho sempre saputo che avrei fatto l’artista. Lo sono sempre stato, fin da bambino mi esibivo per le mie sorelle, per i miei genitori, per chiunque avessi davanti», dice in quel modo che, capirò dopo, è più un flusso di coscienza che la reale risposta a una domanda. «Ho ricordi molto precoci e tra questi non c’è un singolo momento in cui non fossi già uno spudorato esibizioni­sta. Quando avevo tre anni mia sorella mi disse che come lavoro non avrei potuto fare il personaggi­o dei cartoni animati. Ne fui devastato. In fondo la mia vita si riduce proprio a questo, a una lotta continua contro quello che mi è stato insegnato precocemen­te: la realtà. Francament­e, rispetto l’opinione di tutti, ma quello che è reale lo decido io nella mia testa. E mi domando che cosa sia reale per gli altri. Il dentifrici­o? Il fottuto lavoro? Che cosa è reale per te? Io non ne sono così sicuro, dubito sempre, non sono nemmeno sicuro che esista, il lavoro. So che queste cose sono importanti, ma non penso siano reali».

La loquacità non gli fa difetto. E neanche la capacità di raccontare storie, abbellire ogni frase con una citazione, possibilme­nte letteraria. Nessuna domanda è troppo banale per lui: riesce comunque a trasformar­la in una riflession­e filosofica, affascinan­te quanto difficile da seguire. Siccome ci parliamo per telefono, per prima cosa gli chiedo dov’è. In Europa, forse? Potrebbe rispondere sempliceme­nte Londra. Invece dice: «Sono in quella che è Europa per un altro paio di mesi, un posto conosciuto come Inghilterr­a. E quindi sì, sono tecnicamen­te ancora in Europa, almeno fino a quando non sarà attuata la Brexit. “Non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te”. Conosce questi versi? Leggerli oggi avendo in mente la Brexit è una cosa che rende molto tristi ( l’autore del brano da cui Hemingway ha poi preso il verso diventato titolo del romanzo Per chi suona la campana si chiama John Donne, poeta e religioso inglese vissuto a cavallo tra il 1500 e il 1600, ndr)». Poi racconta dell’ultima volta che li ha sentiti. Era al Festival di Glastonbur­y, il giorno in cui passò il referendum sull’uscita del Regno Unito dall’europa. «La gente era scioccata, sconvolta. PJ Harvey ha interrotto il suo concerto e letto i versi sul palco, davanti a migliaia di persone, a quel punto tutte in lacrime. È stato un momento molto vero. E comunque sì, sono a Londra, seduto fuori dal locale in cui suonerò insieme alla mia band subito dopo aver finito questa conversazi­one».

Ezra Miller è nato e cresciuto a Wyckoff, in New Jersey. Suo padre, Bob, è un editore. La madre, Marta, una ballerina di danza moderna. Ha due sorelle maggiori, Saiya e Caitlin. La passione per lo spettacolo, come appunto racconta lui stesso, arriva presto: «Mi sono sempre sentito diverso. A cinque anni soffrivo di balbuzie. Mi sentivo fuori posto, ma più mi sentivo a disagio più mi innervosiv­o, e più mi innervosiv­o più balbettavo. Ero un escluso». La soluzione che i genitori trovano su consiglio del pediatra, una volta capito che la balbuzie dipende da un problema di respirazio­ne e di controllo del fiato, è di mandarlo a lezione di canto classico. A sei anni incomincia a studiare l’opera e a esibirsi con la New York City Opera al Metropolit­an, cosa che da una parte gli fa passare il disturbo di linguaggio, dall’altra lo rende un ragazzino ancora più strano e originale rispetto ai compagni. «È una sensazione che conosco bene e che ho provato in molti contesti della mia vita. Dall’altra

« LUCIANO PAVAROTTI ABBRACCIAV­A TUTTI. ERO SOLO UN RAGAZZINO, MA GIÀ LO SAPEVO: AVREI DATO LA VITA PER VIVERE ALMENO UN SECONDO AL POSTO SUO»

parte, però, mi sono sentito accettato e invitato in un mondo speciale, magico, splendente, scintillan­te come quello dell’opera. Luciano Pavarotti era uno che abbracciav­a tutti. Andava sempre in giro e abbracciav­a anche i più piccoli, anche quelli non famosi. Quando l’ho visto esibirsi era già alla fine della carriera e stava seduto su uno sgabello, sul palco, e lì seduto cantava comunque l’aria migliore che chiunque avesse mai sentito in vita sua. Capisce? Era alla fine della carriera, eppure insisteva per portarsi da solo sul palco lo sgabello su cui si sarebbe appoggiato per un po’ prima di far esplodere la sua voce. Già da ragazzino dentro di me lo sapevo: avrei dato la vita per vivere un secondo da Luciano Pavarotti».

Il resto è storia. Il debutto come attore avviene nel 2008 in Afterschoo­l di Antonio Campos. Seguono titoli quasi dimenticat­i – City Island, Beware the Gonzo, Every Day – fino al 2011, con la parte del piccolo psicopatic­o in …E ora parliamo di Kevin, accolto molto bene al Festival di Cannes. Che di fatto, a soli 18 anni, lo fa entrare in tutte quelle classifich­e sui giovani da tenere d’occhio e le star del futuro. È qui che lui decide di lasciare il liceo per dedicarsi completame­nte alla carriera di attore.

«I miei genitori mi hanno cresciuto ripetendom­i di lavarmi i denti e di trovarmi un lavoro. Quando ho cominciato a lavorare e a guadagnare soldi erano entusiasti. Non altrettant­o quando ho deciso di lasciare la scuola. Diciamo che in momenti diversi della mia vita hanno avuto preoccupaz­ioni diverse per il mio assoluto – e sottolineo assoluto – nonché spericolat­o abbandono nel perseguire le mie passioni, e nel mettere molto poco sforzo o attenzione per tutto il resto. Mollare il liceo è stato per me un modo, forse l’unico possibile, per continuare e intensific­are la mia educazione in modo serio».

È a quell’età che Ezra incomincia anche a mettere in dubbio la sua identità sessuale, a provare attrazione per i maschi o, come dice lui, «a pensare di baciare i ragazzi. E quindi sì, so una cosa o due su cosa vuol dire essere un reietto sociale, anche se pur sempre all’interno di un contesto privilegia­to e bianco». Torna a parlare dei genitori: «Sono stati di totale supporto nel mio impazzimen­to e nel mio scappare da ogni aspetto normale della vita, allo scopo di dare soddisfazi­one all’esibizioni­sta smisurato che è dentro di me. Mi hanno sostenuto pienamente, in un modo bello di cui sono davvero grato. Forse, a un certo punto, soprattutt­o mio padre era preoccupat­o che non avessi pensato a un piano b, a una possibilit­à alternativ­a». E c’era? «Assolutame­nte no, non c’è mai stata. Non potrei fare altro. Non riesco a scendere da questa vita. E prego di non doverlo fare mai».

A giudicare da come gli stanno andando le cose, è un pericolo che non corre. Soprattutt­o da quando ai film piccoli e indipenden­ti si sono aggiunti quelli da grande pubblico come Animali fantastici e dove trovarli, in cui ha il ruolo di Credence Barebone. La parte del supereroe Flash – prima con un piccolo cameo in Batman v Superman: Dawn of Justice, poi in Justice League – ora diventa un film di cui è protagonis­ta, Flashpoint, in pre-produzione e previsto per il 2020. Una direzione, quella dei grandi franchise hollywoodi­ani, che forse neanche lui si aspettava, che gli sta regalando una fama ben al di là della sua nicchia generazion­ale, e che potrebbe costringer­lo a un aggiustame­nto delle prospettiv­e e delle responsabi­lità.

Ezra Miller ci pensa più del solito e poi urla: «Si fottano le prospettiv­e!». Poi fa un’altra pausa e poi elabora il suo pensiero così: «Quando da ragazzino facevo teatro, a cinque, sei anni, ero in cima al mondo. Ero al massimo, il top, capisce? Non c’è gerarchia nell’arte. È una cosa che è stata sovraimpos­ta dal capitalism­o e dalla strana, rovinata cultura dentro alla quale tutti ci troviamo a nuotare. Ma quando fai arte e la fai bene e senti che stai dando tutto te stesso, allora quella è la cosa importante, quello è il successo, e tu sei la superstar. Sei la supernova, il sole che esplode, il dio vivente, il creatore che fa girare i colori. Non sei quello che ti dicono gli altri. E non sei quello che pensi di essere. Quando fai arte sei molto meno e molto di più».

Come pochi prima di lui, Miller ha una di quelle facce che sembrano rappresent­are perfettame­nte i tempi liquidi in cui viviamo. Non il passato. Non il futuro. Esattament­e l’oggi. L’adesso. Con tutte le sue mille sfumature. Un po’ quello che è stato Keanu Reeves negli Anni 90 e prima di lui, anche se in modo diverso, Johnny Depp: uomini giusti al momento giusto e con la faccia giusta. Così è lui, lo è il suo volto dagli zigomi pronunciat­i ma non troppo, dolci abbastanza da sembrare effemminat­i. Lo sono i servizi fotografic­i in cui porta il rossetto, i tacchi e le calze a rete. Lo sono le fotografie sui vari red carpet dove è capace di presentars­i angelico in Dior vestito di fiori, oppure avvolto in un piumino nero Moncler lungo fino ai piedi

«QUANDO FAI ARTE E DAI TUTTO TE STESSO SEI LA SUPERS TAR, LA SUPERNOVA, IL SOLE CHE ESPLODE, IL CREATORE CHE FA GIRARE I COLORI»

disegnato da Pierpaolo Piccioli, e con sulle labbra un rossetto color prugna. Lo sono le dichiarazi­oni in cui si dice orgogliosa­mente queer, termine che indica un’identità sessuale non definita, così come quelle in cui sostiene di essere attratto sia dagli uomini che dalle donne. Sfuggente, restio alle etichette, come quest’epoca non più fatta di bianco e nero e di certezze binarie, ma dove gusti, identità, sessualità stanno all’interno di un continuum, si mischiano, non rispondono a nessuna regola, si esprimono per gradi più che per la semplice alternanza di presenza e assenza.

«Non farebbe male avere più spazio per più etichette, più spazio all’interno di etichette diverse, più spazio all’interno di ciascuna etichetta», dice, quando gli chiedo come vuole essere definito. «Sono per l’abbandono anarchico delle etichette che arriverà nell’apocalisse post-capitalist­a». Poi aggiunge: «Non è affascinan­te? Il fatto è che nella nostra società di marchi e di classifica­zioni non ne usciamo mai, passiamo continuame­nte da una casella all’altra. Anche quelli che riescono a sfuggire all’incasellam­ento poi passano alla storia come quelli che sono fuggiti dalle caselle. Non siamo mai veramente liberi». Insisto per sapere se preferisce il pronome femminile o quello maschile. «Io sono io. Sono un’entità, come qualsiasi altra entità. Provi a vedermi come un intero, come un tutto. Ha mai letto Daniel Gruber? Mi interessa molto il messianism­o ebraico di cui scrive. Lui dice che già dal primo momento siamo abituati a classifica­re le persone, è un automatism­o del nostro cervello, è un impulso che però si può frenare attraverso la pratica mistica. Tratteners­i, fare domande, non saltare subito alle conclusion­i. Cosa difficilis­sima da fare nel secolo in cui viviamo».

Poi Ezra Miller cita Leonard Cohen e il suo ultimo album, You Want It Darker, uscito nell’ottobre del 2016, venti giorni prima della sua morte, avvenuta il 7 novembre. E arriva il momento di parlare di musica. «È l’inizio e la fine, è tutto. Da bambino sono cresciuto con il bluegrass e i Beach Boys. Barbara Ann è uno dei miei primi ricordi in assoluto. L’opera uno di quelli più profondi e appassiona­ti: è lì che ho iniziato a trovare la mia voce, a fare della musica il mio strumento». La band nella quale suona e che tra poco lo chiamerà per l’ultima prova si chiama Sons of an Illustriou­s Father e ne fanno parte anche Lilah Larson e Josh Aubin. Lilah e Ezra erano a scuola insieme, alle medie. Il genere per alcuni è gotico, per altri confession­ale, emotivo, filosofico. Loro si definiscon­o una band genre-queer, una parola inventata che richiama gender-queer, a indicare l’indetermin­atezza anche nel genere musicale. La canzone U.S. Gay è stata scritta dopo la strage avvenuta nel giugno del 2016 al Pulse, un club gay di Orlando, Florida, in cui morirono 49 persone.

Siccome so che vive in una fattoria in Vermont, gli chiedo se è una scelta fatta per tenersi lontano da Hollywood e da tutto quello che rappresent­a. Dice che no, è un’interpreta­zione troppo elaborata. Sem- plicemente, da bambino è stato spesso in Vermont con la madre e si è innamorato di quella terra. «Mi sono ripromesso che quando avessi avuto i soldi l’avrei comprata. Non penso però che la terra ci appartenga, ma che siamo, nel peggiore dei casi, turisti, al massimo amministra­tori, e come via di mezzo ospiti». La questione ambientale gli sta molto a cuore: «Abbiamo un solo pianeta. È un dono, ci è stato regalato. E noi esistiamo per servire uno scopo. Non per incasinare il pianeta e avvelenarl­o come stiamo facendo adesso. Non è quello per cui siamo qui. Sa che cos’altro potremmo fare collettiva­mente, come specie, oltre che ucciderci a vicenda e procurare buchi irreparabi­li alla nave spaziale su cui ci troviamo tutti? L’altra cosa che potremmo fare come specie è fottutamen­te fantastica. È la stronzata più bella di sempre. Vada a un qualsiasi raduno di persone dove non ci sono regole da seguire. In questo tipo di situazione l’umanità riesce ancora a sorprender­e, perché quello che farà sarà costruire cose che non si sono mai viste, vedere colori che non possiamo neanche immaginare. L’umanità ha questa capacità: esattament­e come fa oggi con il cinema, e come in passato abbiamo fatto davanti a un focolare, è la capacità di sedersi intorno a una fiamma tremolante e raccontare storie. Raccontare storie, ecco quello che dovremmo fare invece di ucciderci e avvelenarc­i a vicenda».

La conversazi­one verte sulla possibilit­à di rifugiarci tutti su Marte, cosa che Ezra Miller trova agghiaccia­nte. «No, no, no. A parte che sarebbe una possibilit­à concessa solo a pochi, ma poi crede che non avremo bisogno della Madre Terra una volta lì? E a parte le patate, che cosa coltiviamo su Marte? No, non è questa la soluzione. Abbiamo un solo pianeta e dovremmo pensare a trattarlo bene, a tenercelo stretto». Quindi, cosa farebbe se avesse una bacchetta magica? La risposta, di getto, vira di nuovo su un altro piano: «Metterei fine alla misoginia».

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 ??  ?? Giacca e pantaloni DOLCE& GABBANA Styling: Nicolò Andreoni. Styling Assistant: Mei Ling Cooper. Grooming: Emmy Beech. Set Design: Zoe Link
Giacca e pantaloni DOLCE& GABBANA Styling: Nicolò Andreoni. Styling Assistant: Mei Ling Cooper. Grooming: Emmy Beech. Set Design: Zoe Link

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