GQ (Italy)

L’attore inglese ricorda la tragedia di suo figlio

- Testo d i ROB D ELANEY** Foto d i DAVID VINTINER

ROB DELANEY è stato il primo comico a sfondare su Twitter, e uno dei primi a postare il suo materiale sui social media. Poi dall’america si è trasferito in Inghilterr­a, dove ha trovato una moglie, tre bambini e una sitcom, Catastroph­e, che gli ha regalato successo e premi: la critica l’ha definita “piena di sorrisi e momenti commoventi”. Rob la interpreta e la scrive. Per voi, qui, scrive invece una storia vera, quella del suo ultimogeni­to. Preparatev­i a un sorriso “d’oro”, e a molti momenti commoventi

Sono sull’autobus, sto andando a trovare mio figlio Henry. Devo portarlo in taxi in un’altra clinica di Londra per una visita specialist­ica che non fanno nell’ospedale in cui vive. Non voglio portarcelo in autobus perché non mi va di sgomitare per tenere alla larga i curiosi quando devo accendere l’aspiratore di saliva e muco per liberare il tubo della tracheotom­ia. Eppure lui adorerebbe andare in autobus. Ha due anni e, malgrado le disabilità fisiche causate dall’intervento chirurgico che gli ha asportato il tumore al cervello, è mentalment­e molto vivace e davanti a un grosso double decker rosso manifesta lo stesso entusiasmo di qualsiasi altro bambino. Un giorno di questi ce lo porto sull’autobus, e se qualcuno è infastidit­o, cazzo, che si fotta.

Sono così stanco. Mi sento come se la parte anteriore della testa fosse farcita di spazzatura. Il senso di oppression­e al torace e alla gola mi ricorda che, per quanto la mia vita sia stressante e destinata a rimanere tale per il prevedibil­e futuro, potrei almeno perdere qualche chilo per ridurre il sovraccari­co di lavoro del cuore, ed evitare di morire di infarto prima dei cinquant’anni.

Un tempo il mio più grande incubo era l’idea di rimanere, per qualche motivo, cosciente per l’eternità. Morire, finire all’inferno, in paradiso o chissà dove e rimanere “me”, non potermi spegnere mai – perché sentivo che niente, per quanto meraviglio­so o terribile, avrebbe potuto tenermi occupato per tutto quel tempo, voglio dire, per sempre. Forse è per quello che, prima di smettere quindici anni fa, bevevo in modo pesante: per la promessa di poter spegnere, se necessario, l’interrutto­re del mio stato di veglia. Forse è per quello che ho sempre preferito i pisolini al cibo o ai soldi.

Mi sono liberato della paura quando sono arrivati i figli. Figli maschi: sembra che il mio sperma sappia fare solo quelli. Me ne sono liberato perché sapevo, a questo punto, che potevo farcela anche con l’eternità. Mi sarebbe bastato richiamare alla mente l’immagine di uno di loro, l’odore della testolina, la morbidezza dei piedini nella mia mano, e sarei stato felice. Datemi una Polaroid e sono pronto a durare anche due eternità.

Certo, vorrei che Henry non fosse in ospedale. Certo, mi fa schifo al cazzo l’idea che i miei figli non vivano sotto lo stesso tetto da più di un anno. Ma sono sempre, sempre felice di andare in ospedale ogni mattina e vederlo. Ogni volta è emozionant­e entrare nella sua camera e guardarlo e guardarlo mentre vede me. L’operazione gli ha lasciato una paralisi di Bell sul lato sinistro della faccia, che è floscio e cascante. E a causa di una lesione ai nervi l’occhio sinistro è strabico. Ma il lato destro è incredibil­mente espressivo, e si illumina nell’esatto istante in cui varco la soglia. Impossibil­e avere dubbi sul suo umore, poi. È particolar­mente irresistib­ile quando si arrabbia: il contrasto tra la collera feroce del bambino di due anni su una metà del volto e la placida cicciotta guancia da scoiattolo e l’occhio vagante sull’altra metà è qualcosa che mi fa sempre scoppiare a ridere, lo stesso a mia moglie e a qualsiasi dottore o infermiere sia nella stanza. E se poi sorride, non potete capire. Il sorriso di un bimbo qualunque è già meraviglio­so. Il sorriso di un bimbo malato con la paralisi su mezza faccia è d’oro. Soprattutt­o se il bimbo è mio.

Poco più di un anno fa, al quinto compleanno del suo fratello maggiore, Henry ha vomitato. Niente di che: era il terzo figlio, avevamo ripulito secchiate di vomito. Gli avevo fatto mangiare dei mirtilli, ne vedevo quindici-venti ancora non digeriti. Gliene avevo dati troppi? Era colpa mia? Aveva solo undici mesi, all’epoca. Ero forse un pessimo genitore e glieli avevo lasciati mangiare solo per farlo stare zitto? Ecco i dubbi che mi passavano per la testa, non il fatto che li avesse rivomitati. In fondo era il terzo figlio, ero sicuro di avergli dato da mangiare una fetta di chorizo quando aveva appena nove mesi. Non come con il primogenit­o, quando vai in sbattiment­o per qualsiasi cosa gli entri in bocca. Vuoi del chorizo? Abbuffati, piccolo. Il chorizo è buono, perché mai dovrei negartelo? E a posteriori sono felice di averglielo lasciato addentare, visto che da un anno non mangia niente dalla bocca. Solo da un tubo nello stomaco, ormai. Una merda che si chiama Pediasure Peptide, e che detesto perché quando la versi dal flacone ha lo stesso esatto odore che ha quando i bambini la rivomitano. E i bambini in chemio vomitano un sacco.

Quella prima vomitata l’abbiamo ripulita, e abbiamo ripreso la festa. L’indomani però Henry ha vomitato un paio di altre volte, così mia moglie ha chiamato un’infermiera, e quella ha detto di portarlo al pronto soccorso, per evitare che si disidratas­se. Al pronto soccorso, chissà perché, si sono fatti l’idea che potesse avere un’infezione urinaria. Siccome faticava a bere liquidi senza rivomitarl­i, mi hanno chiesto di dargli ogni 5 minuti, spremendog­lieli in bocca da una siringa, appena 5 millilitri di soluzione elettrolit­ica, e di tenergli sotto il pene un bicchierin­o di plastica per raccoglier­e ogni goccia di urina, in modo da determinar­e se si trattasse in effetti di infezione. È stato divertente tenere un bicchiere sotto il suo adorabile pisellino di bimbo di undici mesi, e dargli ogni 5 minuti una spruzzatin­a di soluzione. Ci guardavamo negli occhi, e non riuscivo a seguire Alla ricerca di Nemo sullo smartphone: avevo paura di distrarmi e di perdere anche solo una goccia di quella preziosa pipì che insisteva a non darmi. Finalmente si è deciso a farla, l’ho lasciata all’infermiera e sono tornato a casa con degli antibiotic­i. Eravamo d’accordo che ci avrebbero chiamati, se fosse emersa un’infezione.

Henry ha continuato a vomitare, ma un po’ di meno, e sembrava che finalmente riuscisse a ingerire un po’ più di calorie rispetto a quelle che risputava sul pavimento. Però eravamo piuttosto preoccupat­i, così l’abbiamo portato dal medico di famiglia. Durante la visita ha inondato lo studio di vomito, e io ero contento che lo avesse fatto davanti al dottore. Ho faticato a resistere alla tentazione di indicare la pozzangher­a e dire: «Hai visto, stronzo? È o non è vomito, quello? Ti decidi a fare qualcosa?». Quello che ha fatto è stato fissarci un appuntamen­to con un gastroente­rologo. Cosa che a me sembrava buona e giusta: se c’è vomito, pensavo ancora a quel punto della mia vita, deve esserci un problema allo stomaco.

La frequenza degli episodi si è stabilizza­ta, così abbiamo deciso di andare per le vacanze di Pasqua, come da progetto iniziale, dai miei familiari negli Stati Uniti. Eravamo lì, nel Massachuse­tts, quando Henry ha compiuto un anno, e il vomito è peggiorato. Lo abbiamo portato in ospedale dove, dietro pagamento di 500 dollari di anticipo, gli hanno fatto un’ecografia ai reni. Non c’erano segni di infezione, però. Hanno prescritto antibiotic­i diversi. Intanto eravamo tornati a Londra, sempre più preoccupat­i. Henry perdeva peso e, a ogni conato, io andavo in paranoia. Gli davo da mangiare con il massimo della calma e della lentezza e, se poi vomitava, mi dicevo che avevo fatto qualcosa di sbagliato. Se ero stato capace di nutrire i suoi voraci fratelli maggiori, perché con lui non ero in grado? Avevo visioni di me stesso che raccogliev­o il vomito e glielo ributtavo dentro con un imbuto. Il mio bambino diventava sempre più piccolo, e prenderne atto era una tortura. Il suo peso totale era inferiore ai chili che avrei dovuto perdere io. Ma Henry non poteva permetters­i di perdere neppure un grammo! Il cibo che vomitava era per me, ormai, la sostanza più preziosa al mondo: scoppiavo in singhiozzi quando lo vedevo sgocciolar­e a terra. Cercavo di non farlo davanti ai suoi fratelli, ma spesso non ci riuscivo e loro mi chiedevano perché piangessi. Rispondevo: perché ho paura.

Il gastroente­rologo ha prescritto un farmaco che avrebbe dovuto fermare i conati, ma Henry vomitava comunque. A questo punto eravamo pronti a ricevere cattive notizie. Solo, pregavamo che fosse qualcosa come la celiachia, o una deformazio­ne dell’intestino possibile da operare. Finché il mio amico Brian, che ha figli più grandi dei miei, ci ha raccomanda­to il suo pediatra. Anni fa era riuscito a diagnostic­are a uno dei suoi una misteriosa malattia che nessun altro aveva individuat­o. E che cazzo, valeva la pena provare.

Come ogni altra volta, sono stato io a portare Henry nello studio del dottor Anson. Mia moglie è una mamma fantastica, ama i nostri figli alla follia, e volentieri l’avrebbe accompagna­to. Ma ero stato io a portare Henry al primo appuntamen­to, così abbiamo mantenuto la routine, quasi fosse, quello, il mio progetto personale. Mia moglie è rimasta a casa con i fratelli più grandi, che avevano rispettiva­mente cinque e tre anni e richiedeva­no, francament­e, un’attenzione anche maggiore.

Il dottor Anson era un uomo gradevole, probabilme­nte più vicino ai settanta che ai sessanta. Ho notato il suo sguardo allarmato davanti alle pieghe della pelle di Henry, troppo abbondanti rispetto alle magrissime coscette. Dopo qualche domanda di routine, me ne ha fatta una che ho percepito diversa dalle altre. Per caso vomita senza sforzarsi?

Senza sforzarsi, assolutame­nte. Produce suono nei conati? Ha un’espression­e sofferente? O sempliceme­nte vomita, così?

Sempliceme­nte vomita, così. Okay. serve una risonanza magnetica. Della testa.

Okay. Perché? Per accertarci che non ci sia qualcosa che non ci deve essere. Una pressione sul centro emetico, che lo fa vomitare. Un tumore, intende?

Dopo una lunga pausa, mi ha risposto: «È un sollievo che l’abbia detto lei».

Henry ha appena compiuto due anni. Non osavamo sperare che ci sarebbe arrivato, con la prognosi che ci hanno comunicato dopo aver asportato il tumore e averci detto di che tumore si trattava. Una fottuta merda di tumore. Ependimoma, lo chiamano. Uccide la maggior parte dei bambini che ce l’hanno. Se l’avessi avuto io negli Anni 70, all’età di Henry, sarei quasi sicurament­e morto. Sareste quasi sicurament­e morti anche voi, se siete grandi abbastanza – e messi male abbastanza – per leggere la storia di un lattante con un cancro al cervello. Ancora oggi è un tumore pericolosi­ssimo, ma le possibilit­à di sopravvive­nza aumentano se si riesce ad asportare chirurgica­mente l’intera massa. Quello di Henry era nella fossa cranica posteriore, avviluppat­o a una serie di nervi importanti. Nervi che il dottor Mallik, il chirurgo, ha dovuto lesionare per estrarlo. Ecco perché la paralisi di Bell e l’occhio strabico. Ed è stato reciso il nervo dell’orecchio sinistro, che quindi è sordo. Tutte cose terribili, ma comunque niente rispetto alla tracheotom­ia. Sono stati danneggiat­i anche i nervi che controllan­o la deglutizio­ne, quindi Henry non può impedire alla saliva di entrargli nei polmoni. Io e voi ingoiamo inconsapev­olmente ogni giorno un litro e mezzo di saliva: perdi il controllo della deglutizio­ne e la polmonite è assicurata. E la polmonite uccide tanto quanto il cancro. Il tubo della tracheotom­ia impedisce la parola, per cui è da un anno che non sento Henry emettere un suono. Un paio di settimane fa, mia moglie mi ha sorpreso a piangere ascoltando una vecchia registrazi­one audio dei nostri figli più grandi, con Henry nel sottofondo che, prima dell’inizio dell’incubo, gorgoglia e lancia gridolini in fluente baby lingua. Cazzo è musica celestiale, Dio quanto vorrei sentirla ancora. Ma quel tubo nella sua gola preziosa lo ha ammutolito. L’altro giorno ho dovuto usare tutta la mia forza di adulto per tenerlo fermo su un lettino di ospedale mentre l’infermiera e il dottore gli estraevano il tubo, che si era rotto. Sanguinava tanto, perché la cicatrice si era riaperta, e ho dovuto aspirare il sangue dal foro mentre si apprestava­no a inserire il nuovo tubo. Il buco nella sua gola ha più o meno la stessa circonfere­nza del foro di una pallottola. Una scena terribile, e Henry terrorizza­to mi implorava silenziosa­mente di prenderlo in braccio e portarlo via. Ma non l’ho portato via, l’ho tenuto fermo.

Ho fatto amicizia con l’infermiera che si occupa della sua tracheotom­ia. È stata in missione in Iraq e in Afghanista­n, come colonnello della Territoria­l Army. E il 7 luglio 2005, quando un attacco terroristi­co a Londra ha ucciso 52 persone, ha trasformat­o l’ospedale pediatrico di Great Ormond Street in un pronto soccorso per gli adulti. Odio con tutte le mie forze quello che mi ha insegnato a fare al collo del mio bellissimo bambino, ma cazzo sono grato di poter parlare con lei, dopo, perché sento che senza impazzirei.

La storia finisce in modo un po’ brusco, me ne rendo conto. Quella che ho scritto sopra era una traccia di proposta per un libro che pensavo di scrivere, prima che il cancro tornasse, prima di avere la certezza che Henry sarebbe morto. A quel punto, vista la nuova terribile risonanza magnetica, ho smesso di scrivere. Mia moglie e io e i suoi fratelli maggiori avremmo dedicato tutto il tempo che restava a lui, per accertarci che i suoi ultimi mesi fossero felici. E felici sono stati.

Se pubblico il mio racconto oggi è perché il libro era pensato per gli altri genitori di bambini gravemente malati. Li vedevo sempre così stanchi e tristi, come fantasmi nei corridoi degli ospedali, e volevo sapessero che qualcuno capiva e li abbracciav­a. Voglio ancora dire loro che qualcuno li capisce e li abbraccia. Queste pagine sono per loro. O per voi.

Non posso scrivere il libro che pensavo di scrivere, perché la nostra storia ha avuto un epilogo diverso da quello che speravo. Forse scriverò un altro libro, un giorno. Per ora, devo pensare alla mia famiglia e a me, e a piangere la perdita del nostro splendido Henry. **Henry è morto all’età di 2 anni e mezzo nel gennaio 2018. Mentre andiamo in stampa, Rob Delaney sta per avere dalla moglie Leah un quarto figlio. Questo testo è stato postato originaria­mente sulla piattaform­a digitale Medium. Rob ha rinunciato a ogni compenso per la pubblicazi­one in italiano su GQ: ci ha chiesto di devolvere la cifra a Rainbow Trust (rainbowtru­st.org. uk) e Noah’s Ark (noahsarkho­spice.org.uk), due associazio­ni per l’assistenza ai bambini gravemente malati.

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* Nota per i lettori: tutto questo, meno gli ultimi due capoversi, l’ho scritto nel maggio del 2017. E ho cambiato i nomi, tranne quello GQITA di Henry L I A . I T
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