L’arte di raccontare dieci anni di viaggio
Passo dopo passo, a cinque chilometri l’ora, il due volte Premio Pulitzer Paul Salopek ha già coperto 15mila chilometri a piedi alla ricerca delle risposte esistenziali meno metafisiche del mondo. Da dove veniamo, geograficamente? Perché ci spostiamo nei secoli dei secoli? Cos’è la condizione umana e come è cambiata nei millenni? Perché facciamo la guerra e perché facciamo la pace? Chi siamo e chi avremmo potuto essere?
Partito nel giugno 2013 con il sostegno di National Geographic per il più grande progetto di “slow journalism” mai tentato, ha preso le mosse da Herto Bouri, in Etiopia (dove sono stati trovati resti di australopiteco datati 200mila anni fa), e oggi si trova in India, dopo sei anni esatti dall’avvio del suo progetto Out of Eden Walk, pronto a proseguire lungo la Via della Seta, attraversare l’america e concludere alla Fin del mundo, nella Terra del Fuoco. La moglie Linda, rassegnata e orgogliosa, lo raggiunge appena può, tanto da aver camminato con lui per lunghi tratti: Etiopia, Israele, Cipro, Georgia e Kirghizistan.
«Ho già scritto trecentomila parole, materiale per almeno tre libri», racconta, seduto in un minuscolo caffè di Kabir Chaura, non lontano da Varanasi. In modo piuttosto naif (è una sua stessa ammissione), aveva previsto di arrivare a Ushuaia per la fine del 2020, tenendo una mappatura Gps costante del proprio tragitto e inviando report fotografici e narrativi regolari al sito di National Geographic ( www.nationalgeographic. org/ projects/out- of- eden- walk). Ma poi le cose da raccontare sono diventate così tante, le tempeste invernali nel Caucaso così forti, le attese per ottenere alcuni visti così snervanti, che con tutta probabilità il tempo necessario diventerà molto di più. Dieci anni almeno. O più verosimilmente dodici. «Non si tratta di mettere alla prova il mio fisico o di trasformare tutto in una immensa maratona», dice. «La lentezza è parte del racconto».
Alla base, una critica radicale al mondo contemporaneo dell’informazione. «Nell’iperattiva e svagata età digitale i media oscurano almeno quanto illuminano», dice Salopek, giornalista per passione e biologo ambientale per formazione. «Ingoiamo tutti micropasticche colorate di fatti senza contesto, cibo in plastica privo di calorie, in un banchetto senza fine». Testimoniare i suicidi collettivi di contadini in India, perciò, significa per lui trovarne le tracce nella Green Revolution degli Anni 60, quando l’agricoltura indiana venne repentinamente industrializzata. Imbattersi in cumuli di ossa di migranti nel deserto della Dancalia, tra cadaveri di uomini e donne africani morti di sete tentando di raggiungere gli Emirati Arabi in cerca di lavoro nei cantieri, gli ha permesso di localizzare queste tragedie in un corridoio geografico che ha segnato la storia dell’umanità: «Sono centinaia di migliaia di anni che emigriamo lungo quella rotta, e sempre per le stesse ragioni: fame, ricerca di sicurezza, cambiamenti climatici, sovraffollamento, aspirazioni individuali, curiosità». A cambiare nelle diverse ere, semmai, sono stati gli ostacoli da superare: «Nella preistoria erano concreti: ghiacciai alti chilometri e bestie feroci. Oggi sono intangibili: muri di paura e ideologie».
Nel suo cammino ha visto i paradossi del progresso tecnologico, come i pastori di yak sulle montagne del Pamir possedere tutti quanti un cellulare ma senza una linea telefonica alla quale agganciarli: «Principalmente, si passano schede di memoria e guardano film porno, in continuazione». Ha testimoniato i cambiamenti climatici nel Corno d’africa, dove l’assenza di piogge sta portando in guerra tribù di pastori per il controllo dei pozzi. È finito senz’acqua nel deserto. È caduto in un ghiacciaio. Si è quasi preso un proiettile nel cuore dell’afghanistan. Ma nonostante questo si sente un camminatore privilegiato, con la pelle bianca, il portafoglio gonfio, un’istituzione importante dietro le spalle, un passaporto americano: «E in fondo, nello spazio di dieci anni, non sottoposto a rischi maggiori di un newyorkese in mezzo al traffico, allo smog, al cibo spazzatura, alla criminalità di strada». Pur tra mille drammi visti e vissuti, Salopek dice che il mondo non è mai stato bello come adesso. Mai così tante malattie sconfitte. Mai così tante tecnologie in grado di toglierci dall’isolamento. «Sono felice di essere vivo in questo secolo», dice. «E non ho paura».
«In questi dieci anni di cammino non corro più rischi di un newyorkese in mezzo al traffico, allo smog, al cibo spazzatura, alla criminalità di strada»