EFFETTO BREXIT
PER CERCARE DI CAPIRE LO SPIRITO EMBRIONALE DEL REFERENDUM INGLESE BISOGNA ANDARE ALLA FONTE, CIOÈ AL TAMIGI: GQ HA SEGUITO IL SUO CORSO, NEL 130ESIMO ANNIVERSARIO DI TRE UOMINI IN BARCA
Alla fine, dalla scogliera di Reculver che si affaccia in modo solenne sul Mare del Nord, è arrivata come una sferzata di vento invernale la conferma che il fiume trasporta il dramma e l’enigma della nazione. Perché il Tamigi è ancora oggi il fiume della nazione e qui, sulla sponda settentrionale del Kent, nel punto estremo dell’immenso estuario, è dove tutto converge e precipita, tutto si tiene e si complica: da questo sbalzo – a ridosso delle rovine del forte romano e dei monconi pencolanti della chiesa di Santa Maria, costruita dai monaci di Canterbury e devastata dai vichinghi – ti chiedi se, dove muore il Tamigi, sia l’inizio o la fine della storia, la soglia o il limite, l’apertura al mondo oppure l’ingresso all’inghilterra. E viene da pensare al Tevere, imperiale anche lui e anche lui fiumiciattolo rispetto ai mostri della geografia planetaria, solo una cinquantina di chilometri più lungo del Tamigi: non è forse un caso che i legionari abbiano consegnato il testimone in modo così simbolico, lasciando un segno qui di fronte al continente – quasi un auspicio all’isola di farne parte – e poi al principio, cioè proprio vicino alle sorgenti del Tamigi nella regione dei
monti Cotswolds, nel Gloucestershire, fondando con tanto di anfiteatro da ottomila posti a sedere ciò che è oggi Cirencester, pieno cuore di quell’inghilterra fiera della propria diversità e che ostenta la siderale ed esistenziale distanza dall’europa. Ecco perché per cercare di capire dove nasce lo spirito embrionale della Brexit bisogna andare alla fonte, cioè al Tamigi, che secondo John Burns, uno dei capi del grande sciopero dei portuali londinesi del 1889, «non è un fiume, ma Storia fatta d’acqua».
« Liquid history », lo dice anche l’oste del Thames Head, pub a mezzo miglio dalla pozza dove nasce il fiume: «Racconta chi siamo. Custodisce i nostri miti, le nostre paranoie e i nostri segreti». Compreso quello scandaloso di due milioni e passa di anni fa, quando la Manica non esisteva e il Tamigi si buttava nel Reno. Anche la geologia diventa arma politica nel drammone Brexit. Lo scopriamo subito, la sera dell’inizio del viaggio a Trewsbury Mead, il pianoro da cui il Tamigi prende a gattonare verso est. Una madre e un figlio camminano lungo il sentiero, il labrador sguazza felice nelle sacre acque, e loro, dopo un silenzio pieno d’angoscia, confessano la piccola guerra civile familiare: lei ha votato leave, lui remain, stavano quasi per non fare il Natale insieme, non fosse stato per la morosa di lui che la pensa come la suocera. «Il suo nazionalismo è fuori dal mondo, i vecchi ci stanno fottendo il futuro», dice il ragazzo. La madre lo guarda negli occhi: «Te lo ripeto Steve, non abbiamo mai votato per entrare in Europa, non ce l’hanno mai chiesto. Hanno calpestato la democrazia. Siamo diversi, noi, siamo su un’isola e siamo gente che non accetta che tipi – che ne so – del Lussemburgo vengano a dare ordini e a sputtanare le nostre tasse… Questo fiume ora è europeo, ma tra poco ce lo riprendiamo e, vedrai, tornerà a cantare solo per noi».
Fino a Londra scorre per un centinaio di miglia in un tempo che sembra congelato nella leggenda, è il fiume mitico-letterario, fiabesco e pittoresco, quello cantato da poeti e scrittori nel Cinquecento e Seicento, Edmund Spenser, Thomas Warton, Alexander Pope. Procede lieve attraverso paesaggi arcadici pre-industriali, solca la campagna inglese che ti sorprendi sia proprio così come te l’immaginavi che fosse, salici, canneti, cigni, ponticelli di pietra, villaggi di pietra inselvatichiti il giusto, con quel sofisticato senso inglese per la promiscuità tra casa e natura. E poi cottage di pietra grigia e bionda con i tetti in ardesia o di paglia, muretti a secco e siepi a delimitare pascoli di mucche e pecore. Lungo il Thames Path, il “tratturo” che bordeggia il Tamigi fino a Londra – oggi la megalopoli che detta le regole alla modernità globale – gli inglesi sembrano camminare dentro un acquerello, da soli o in coppia, senza fretta e senza iphone, con scarpe in cuoio e vestiti come ai tempi di Charles Dickens o di Jerome K. Jerome, quello di Tre uomini in barca (per non parlar del cane), gustandosi il loro essere tradizionali ed eccentrici, radicati nella realtà ma fieramente antimoderni, infischiandosene delle chiacchiere della gente del mondo, soprattutto se europea.
Eppure solo quarant’anni fa era morto, il fiume. Il museo di Storia naturale scrisse l’epitaffio: «Non
MARTIN KINCH, AGRICOLTORE «QUI L’AGRICOLTURA STA MORENDO A CAUSA DI BRUXELLES E DEI SUPERMERCATI»
c’è più ossigeno». Il Parlamento bocciò la proposta di un finanziamento «perché nel Tamigi non c’è alcun segno di vita», come disse un membro della Camera dei Lord. Ora a Londra arrivano le foche e le lontre, addirittura le balene beluga imboccano, magari per sbaglio, l’estuario. Sono ricomparse 130 specie di pesci, erano duecento anni che i salmoni non saltavano le 45 chiuse per deporre le uova a Cricklade. Martin pescatori, aironi, germani reali e oche canadesi si contendono i canneti; i cigni muti del Tamigi (di proprietà reale per decreto di Enrico VIII), quando decollano in stormo, spostano l’aria come i bimotori della Raf. «È successo per via della chiusura delle industrie nelle Midlands, ma anche grazie ai fondi dell’unione europea», dice Stuart Ballard, tecnico ambientale impegnato in vari progetti lungo il fiume tra Gloucestershire e Oxfordshire: «Il ripopolamento è stato finanziato quasi interamente da Bruxelles, era stato da poco approvato un piano da 24 milioni di euro per il monitoraggio della biodiversità del Tamigi, metà stanziati dall’unione europea. Ma ora con la Brexit rischia di saltare tutto. Temo che, in assenza delle rigide regole ambientali europee, il fiume simbolo dell’identità inglese diventerà preda di speculazioni selvagge».
Anche il Thames Path National Trail è a rischio. Lo dice il presidente Steve Good, un Tory di ferro amico di David Cameron e Boris Johnson. Steve, consigliere per l’ambiente dell’oxfordshire, ha votato remain, eppure è pronto a «dare la vita per far rispettare la democrazia e l’esito del referendum, costi quel che costi». Siamo nella piazza di Bampton, davanti alla chiesa gotica dov’è stato girato Downton Abbey. Steve apre il cofano dell’auto e mostra le bottiglie di birra che ha fatto produrre su sua ricetta – «dopo 15 sedute di assaggi» – dalla più antica brewery lungo il Tamigi, situata nel retrobottega del cinquecentesco pub Red Lion di Cricklade. Si chiama Liquid Highway e l’ha prodotta per contribuire a finanziare il Trail in vista della Brexit: «L’80 per cento del percorso è stato costruito con i fondi europei. Che cosa accadrà ora? Non penso che gli agricoltori si faranno carico del territorio, come immagina il governo di Theresa May. Per le nostre campagne l’impatto sarà enorme».
In questa parte del fiume ormai adolescente, fino a Oxford e Windsor e alla prima chiusa di Teddington quasi già in area metropolitana, il Tamigi serve per riavvolgere il filo del tempo, tornare indietro per capire il cortocircuito che ha portato alla distanza abissale creatasi in questi anni tra l’inghilterra tradizionale, rurale, identitaria e quella multiculturale, digitale e finanziaria di Londra. A Lechlade, sulla riverside a ridosso di un ponte del Trecento, vive una comunità di islanders, ormeggiati nelle houseboat intorno a un’isoletta coperta di salici: le news della BBC radio si confondono con il borbottio di un motore a vapore, i colpi d’ascia di uno spaccalegna, le prove di una violinista alle prese con la prima sinfonia di Scriabin.
«L’80 per cento del Thames Path National Trail è stato costruito grazie ai
. Ma ora salterà tutto» FO N D I E U R O P E I - STEVE GOOD, CONSIGLIERE PER L ’AMBIENTE MATTHEW E GEORGE, ALLEVATORI DI OSTRICHE «ESPORTIAMO LE NOSTRE OSTRICHE IN FRANCIA: CON I DAZI SARÀ DURA»
Trascorrere un pomeriggio sulla Skûtsje, la gradevole chiatta olandese di Martin e Sarah Lee, lui giardiniere professionista e lei ricercatrice fisiologa a Oxford, ci porta dentro la trama horror della Brexit. «Qui per molti è stato un voto di ripicca e forse di odio contro Londra, che è diventata il regno dei ricchi. I nostri ragazzi tornano a casa, non ce la fanno a sopravvivere», dice Sarah. «Ma rinunciare all’europa vorrà dire chiudere molti laboratori, e quindi perdere ricercatori stranieri… Saranno alla fine i pazienti a rimetterci, qui e nel mondo».
Martin racconta di amici che si preparano al peggio, quasi si trattasse di una guerra, fanno scorte di cibo a lunga scadenza e di medicine: «Noi abbiamo l’orto, ogni tanto sparo a un’oca o a un cervo. Se si svaluterà la sterlina aumenterà il turismo e noi affitteremo il vecchio barcone».
Appena poco più a valle – non lontano dagli stabilimenti della Williams – all’altezza di Radcot, il paesaggio s’allarga, nonostante le apparenze placide questa è terra insanguinata, eco di battaglie tra sassoni e danesi e della Guerra civile; si sente l’affollarsi di storia e di storie, la Vecchia Inghilterra feudale e rurale.
«Qui a differenza di Londra usiamo ancora le mani, produciamo le cose e non vendiamo fumo», dice Martin Kinch alla fattoria Buscot, 400 mucche da latte, tremila acri di terra di proprietà secolare del New College di Oxford: «Sono stato l’unico in famiglia a votare leave, non l’ho fatto per me, ma per la nazione. L’agricoltura sta morendo con i sussidi di Bruxelles e per colpa dei supermercati. Nelle città si pensa che chi lavora nei campi possa vivere senza profitto. Come se il profitto fosse un diritto solo di chi usa la cravatta».
Poi c’è l’altro fiume, quello vittoriano, capitalista, imperiale, del destino manifesto. Miracolato dalla marea che sale dall’estuario e ha trasformato
«Grazie al suicidio della Brexit si sfalderà la Gran Bretagna e Londra diventerà un’i SOLA nell’isola, più che una città Stato una città mondo» - NORMAN DAVIES, STORICO E SAGGISTA
il fiume in città e la città in fiume. La megalopoli racchiude il fiume nel suo petto, cucito con 22 ponti, attraversato da tunnel e traghetti. Serpeggia quasi avesse bisogno di tempo per rassegnarsi al mare. Le sponde che già per Joseph Conrad erano il cuore di tenebra del progresso oggi sono state gentrificate, ripulite delle scorie ottocentesche, il popolo degli abissi dell’east End spintonato verso l’estuario per lasciar posto all’architettura firmata che sprigiona ricchezza, modernità e potere, forse arroganza.
«In settant’anni è scomparso tutto. Prima l’impero e presto, a causa del suicidio della Brexit, si sfalderà anche la Gran Bretagna e Londra diventerà un’isola nell’isola, più che una città Stato una città mondo», dice Norman Davies, il maggiore studioso dell’identità inglese e britannica. Nel suo studio di Oxford sembra spossato dai brutti pensieri: «Sarà un’armageddon», sospira. «Gli inglesi sono avvelenati dal declino e dalla nostalgia, lo strapotere globale l’identità liquida di Londra non fanno che alimentare il senso di perdita che stordisce il Paese. Taking back control, ripetono, come se il passato potesse tornare. Rivogliono l’idolo del Tamigi custode dell’englishness, il mito dell’isola che combatte eroicamente e ce la fa da sola contro tutti: Napoleone, Hitler, l’europa».
L’estuario è stato la porta dell’impero, ora non sono rimasti che i docks, gli antichi attracchi di Tilbury. Un paesaggio di rovine, cielo e fiume color ardesia, sguardi cupi, sorrisi sdentati. Qui, in riva al Tamigi, Elisabetta I pronunciò il famoso discorso prima di affrontare l’invincibile Armada spagnola: «So che il mio corpo è quello d’una debole e fragile donna. Ma il mio cuore e il mio fegato sono quelli d’un re, e d’un re d’inghilterra in particolare…».
A Tilbury e sull’altra sponda, a Gravesend, che ai tempi dei docks contava 400 pub per miglio quadrato, hanno votato Brexit in massa, «contro quelli che ci mandano da Londra: polacchi, romeni, russi, gente che ci ruba il lavoro, non pagano le tasse, vivono in venti in due stanze». Dopo le otto di sera è coprifuoco.
Uno dei pochi luoghi in salute dell’estuario è Withstable, ma ormai più che Tamigi è quasi mare e ci si arriva percorrendo l’m20, l’highway che dal porto di Dover arriva a Londra, quella che secondo le previsioni diventerà la via dell’inferno dopo il ripristino delle dogane con l’unione europea, una teoria di tir senza fine, il caos. A Whitstable tutto gira intorno alla Oyster Company, farm di ostriche fondata nel 1793, ma già i romani le coltivavano e i pellegrini di Canterbury ne facevano scorta prima d’intraprendere la via di Santiago di Compostela. I ragazzi aspettano le basse maree per andare a girare le sacche e caricare sui quod le ostriche pronte per il mercato. Circa settanta tonnellate l’anno, il 60 per cento del prodotto spedito in Francia, meglio di qualsiasi certificato di qualità: «Come vendere carbone a Newcastle», ride Matthew. Con la Brexit e i dazi sull’export, potrebbe andare tutto in malora e anche Whitstable potrebbe prendere quel colore ardesia che tinge il declino e la malinconia del Tamigi che muore nel mare, senza più aprirsi al mondo.
SARAH E MARTIN, RICERCATRICE E GIARDINIERE «SE SI SVALUTERÀ LA STERLINA AUMENTERÀ IL TURISMO: AFFITTEREMO IL BARCONE»