PERCORSI DIVERSI
Vent’anni fa, mentre nasceva GQ, pubblicava il primo album. Ora G U É P E QUENO misura la distanza tra quello che considera vero rap e il modello mainstream
«La mia lezione è che non bisogna avere paura di niente e di nessuno». Lo scrisse Frank Sinatra, uno dei feticci di Gué Pequeno (Gué come “il Guercio”, Pequeno come Zé Pequeno, il protagonista di City of God). Gli ha intitolato il suo ultimo album, lo ha citato nella sua autobiografia, Guérriero. A Cosimo Fini (suo padre Marco è stato un grande studioso e giornalista) un po’ di paura può capitare di averla. La prima cosa che mi dice ridendo è: «Sto chiamando in paranoia i miei collaboratori per capire quanti biglietti abbiamo venduto». Il 16 marzo avrà il Forum di Assago tutto per sé. «Non esco da un talent e non sono un grande del pop, per la mia storia non è un posto scontato».
Questa storia ha tra i quindici e i venti anni, dipende come si datano i fossili, le prime rime con i Sacre Scuole nel 1999, embrione dei Club Dogo, a loro volta embrione di Gué, eccessivo, amato, odiato, rispettato, imprescindibile. Ha ragione quando dice che la grande onda trap è anche figlia dei suoi vent’anni di swag. «Gli anni dalla fine dei 90 al 2004 sono come memorie dell’asilo, non è rimasto niente. I primi ricordi di business e musica sono dal 2004 in poi, con i Club Dogo. La prima parte underground, poi la major. Da lì ho goduto, ho girato il mondo, sei dischi di platino. Ma oggi non è un gran momento storico». No? Perché? Non sono giudice, moralista o mentore, ma questa epoca social è aberrante. Sono nauseato. E ne faccio parte, lo so, ma è come quando non puoi più pagare cash e devi farlo con la carta. Ecco, oggi se fai musica non puoi permetterti di farne a meno, è una droga, ci ha cambiati, ha diffuso bugie e cazzate. Pensavo fossimo nell’età dell’oro per il rap italiano. Nonostante le classifiche, l’hip hop in Italia non è mai stato capito, non c’è retroterra culturale nel pubblico e negli addetti ai lavori, pochi sanno così bene l’inglese da coglierne i riferimenti. È una moda. I bambini cosa devono ascoltare? I rapper sono fighi da vedere, anch’io se avessi dieci anni ascolterei certi rapper coi vestiti colorati e la loro musica melodica. Noi negli Anni 90 avevamo la dance, è uguale. I bambini cliccano la stessa cosa cento volte di fila, eccolo il picco del rap. Oggi i numeri sono impressionanti. Pensavo fosse finito alle medie il tempo delle misure, coi porno, invece rieccoci nell’era del righello: «Siamo i primi in tendenze universo, 180 milioni di like, gli stream, i record...». Poi non è tutto da buttare, nell’urban c’è qualità, un livello di sound alto, artisti validi. Ma è tutto estremamente stressante. Apprendo dal suo libro che in Francia Booba è addirittura paragonato a Céline... Ma tra addetti ai lavori lì c’è un livello diverso, e non serve una laurea, basta capire quelle quattro cose. Perché in Italia nessuno è in grado di cogliere il legame tra Marracash e i poeti italiani? Poi un rapper va in finale a X Factor e la gente dice: ma che figata, come scrive bene. Ma allora non hai capito. Si è sempre tenuto alla larga dalla politica: le è mai venuta la tentazione di parlarne? Nel primo disco lo facemmo, era antipolitici, volevamo i loro soldi e le loro donne. Poi non ho più avuto alcuna tentazione, per me è repellente vedere cosa fanno altri per l’attenzione, godere se il politico ti risponde. In Italia ti fa essere mainstream. Alla gente della musica non frega niente: devi avere il retweet di Salvini, la denuncia di Gasparri. I vent’anni di carriera coincidono anche con un periodo di grandi cambiamenti nella sua Milano. È migliorata a livello estetico, di offerta, di atmosfera: è la sospirata città europea. Ma rischia di confondere perché l’italia vera è dalla metà in giù. È troppo facile starsene a Milano. È solo uscendone che capisci perché vince quello, come mai votano quell’altro, le ragioni per cui ascoltano quell’altro ancora.