MISSION POSSIBLE
Diario degli esperimenti sportivi di SEAN CONW AY, nuotatore, corridore, ciclista, aspirante avventuriero estremo. Allergico all’ufficio
Il primo insegnamento di Sean Conway – il “Forrest Gump della Cumbria” o “Il pazzo più ispirazionale d’inghilterra” secondo i tabloid – è che tutto deve avere un senso. La sua barba lunga per esempio, che si è fatto crescere non per vezzo ma per proteggersi dalle scosse in faccia delle meduse criniera di leone, nuotando da solo nel Mare del Nord. Una folta peluria rossa che non cura e tantomeno increma, anzi spesso utilizza come armadietto nelle pedalate da record: «Ci metto lo spazzolino da denti e il tubetto del dentifricio quando non voglio perdere il ritmo», racconta nel salotto del suo cottage di Coniston, nel Lake District britannico.
Poi, Sean insegna che è possibile essere un grande avventuriero e allo stesso tempo un inguaribile e goffo improvvisatore: prima di nuotare per quattro mesi filati lungo tutta l’inghilterra, da Land’s End a John o’ Groats, sapeva a malapena stare a galla e aveva fatto allenamento solo nella piscina comunale di Cheltenham, a casa della madre, dove s’era trasferito dopo aver mollato il lavoro: «Non avevo soldi né tempo per allenarmi in mare», dice candidamente, «però ero certo che sarei riuscito a entrare in forma direttamente nell’oceano».
Prima di attraversare di corsa e in bici la medesima distanza, inaugurando un ideale Endurance British Triathlon, non s’era mai allenato, anche per colpa di un problema al tendine d’achille che glie l’aveva sempre impedito. «I grandi spedizionieri sono ex militari o ex olimpionici. Io, soltanto una persona in cerca di se stessa, che ha creato le proprie regole e ora vuole essere da esempio».
Prima di pedalare da Cabo da Rocas in Portogallo fino a Ufa in Russia lo scorso maggio – 6.500 chilometri in 24 giorni stabilendo il record del mondo certificato dal Guinness – aveva tentato la stessa impresa su di una bici di bambù, fallita dopo quattro giorni per un dolore alla gamba: «Cosa ho imparato? A spingere meno nei primi chilometri e a mangiare pancake di patate e Nutella quando mi sento sfinito, vera benzina per missili».
Ma più di tutto, Sean insegna che l’avventura può essere vicina senza bisogno di spedizioni intercontinentali: «Non c’è differenza alcuna, durante una tempesta, tra le onde che sbattono sulle scogliere di Cape Wrath in Scozia e quelle della Patagonia: un avventuriero cerca la conoscenza, non l’esotismo». E coerentemente, per la nuotata dalla Cornovaglia alle Highlands del 2013, s’è trovato una squadra d’appoggio improbabile almeno quanto lui: uno skipper che non aveva mai azzardato una spedizione e l’ha mollato a metà percorso per accettare un posto pubblico da professore; un marinaio che non era andato mai oltre qualche gita sul traghetto. E una responsabile logistica terrorizzata dall’acqua. Tutti imbarcati su una nave d’appoggio presa in prestito, una bagnarola del 1961 senza riscaldamento né acqua corrente. Eppure, con quattordici imprese all’attivo (compresa una scalata per beneficenza del Kilimangiaro vestito da pinguino), ce l’ha quasi sempre fatta.
A trentasette anni, nato in Zimbabwe e figlio di un ranger del parco nazionale di St Lucia Wetlands, Sean Conway è il superuomo più normale del mondo. Un collezionista di record (e fallimenti) che da quando ha lasciato il suo lavoro d’ufficio gli hanno permesso di girare il mondo tenendo speech motivazionali in scuole e aziende, scrivere libri d’avventura, e soprattutto uscire da una condizione esistenziale che non ha paura a definire «pietosa». Fino a dieci anni fa lavorava a Londra, dove aveva aperto una società specializzata in fotografia scolastica. Scattava quindicimila ritratti all’anno a bambini delle scuole elementari, e guadagnava benissimo. Poi, un giorno ha venduto la sua quota per inseguire il sogno adrenalinico, trasferendosi in campagna dalla madre in modo da risparmiare denaro e programmare le avventure.
Oggi racconta di ricevere centinaia di email ogni giorno, persone che gli raccontano d’aver cambiato la propria esistenza grazie al suo esempio: «Nonostante internet dia accesso a decine di storie incredibili, stranamente c’è in giro un sacco di gente insicura, che non realizza il proprio potenziale, come se i trenta-quarantenni fossero schiacciati da una forza antirivoluzionaria che li spinge a star dentro il sistema», dice, con l’umiltà empirica di chi c’è passato davvero. Quasi inghiottito dal sogno borghese anche lui, che potenzialmente l’avventura ce l’aveva proprio a un passo: «Perché non sono rimasto a vivere in mezzo agli elefanti e ai rinoceronti? Me lo chiedo ogni giorno. Pensi che tornando a casa dall’ospedale dove sono nato, in Zimbabwe, mio padre guidava il Land Rover mentre mia madre teneva me con una mano e con l’altra imbracciava un mitragliatore,
per difenderci dai bracconieri e dalle fazioni tribali in lotta». Immaginava di diventare un fotografo del National Geographic, ma presto s’è seduto sul divano della comodità, fino alla crisi dei trent’anni e alla decisione di ricominciare da se stesso. Semplicemente volendolo. Senza doti fisiche particolari, senza capacità psicologiche rare.
«Credo che la mia più grande qualità sia la capacità di resistere a lungo in condizioni miserabili». Persino un laboratorio di medicina sportiva di Londra l’ha voluto analizzare, test fisiologici e da sforzo per stabilire alla fine che no, Sean Conway non ha davvero nulla di speciale. Anzi, per certi parametri risulta persino sotto la media: «Hanno scoperto che ho un problema serio con i sali minerali: ne perdo troppi e questo, teoricamente, dovrebbe rendermi incapace di fare quello che faccio».
Racconta delle ore passate in mare nuotando e vomitando continuamente, per via della fatica e dell’acqua salata che le onde gli cacciavano in gola. Del naufragio subito al largo delle coste scozzesi, dove per un soffio non ci ha rimesso la vita. Dei branchi di lupi appostati fuori dai tubi di scarico in cui si rifugiava per la notte durante la traversata europea in bicicletta, al confine tra Ucraina e Russia. Delle ossa di animale spolpato trovate nel deserto di Atacama e usate come carta igienica. «Laggiù in Sudamerica ho avuto davvero paura, per via di un’automobile piena di brutti ceffi, credo spacciatori, che mi hanno curato per ore», ricorda. «Mi sono nascosto dietro alle rocce e ho telefonato a mio padre, che è riuscito a trovarmi il numero dell’ambasciata sudafricana a Lima: dopo un’ora è arrivata un’auto della polizia, che mi ha scortato per due giorni interi». Giorni passati pedalando diciannove ore filate e bruciando cinquecento kilocalorie l’ora. Con una pace mentale raggiunta senza alcun tipo di meditazione, rivendica, ma solo pensando a faccende spicce e concrete: dove dormire, cosa mangiare, come trovare l’acqua, gestire i muscoli e arrivare fino in fondo. «Anche perché fermarsi in mezzo alla steppa, da un punto di vista pratico, ti mette in una posizione logistica peggiore che stringere i denti e arrivare alla meta». Durante il record a cavallo dell’europa stava persino organizzando il suo matrimonio, e usava le soste per scegliere il ristorante, ordinare l’abito, prenotare la location. «E poi mentre pedalavo ascoltavo audiolibri su altri avventurieri: Ernest Shackleton, Tony Hawks, Michael Palin. Con una cuffietta sola però, lasciando l’altro orecchio libero di ascoltare il paesaggio».
Lo scorso luglio s’è sposato con Caroline, che ha già fatto il giro di Cuba in bicicletta. Ora Sean sta scrivendo il suo prossimo libro e preparando la discesa di corsa del fiume Zambesi, mai tentata prima. Anche se il sogno è completare l’ultrarun dell’africa, dal Cairo a Cape Town, un’impresa che potrebbe convincerlo ad appendere l’adrenalina al chiodo. «Il mio desiderio è avere figli, in modo che possano seguirmi durante quell’avventura», dice. «Me la sto tenendo in serbo per quando avrò sessant’anni».