GQ (Italy)

SCUSATE IL DISTURBO

IL SUCCESSO DI THE GOOD DOCTOR SPIEGATO DA FREDDIE HIGHMORE, IL GENIALE MEDICO AUTISTICO DEL SERIAL DI CUI È IN ARRIV O LA SECONDA STAGIONE

- Foto di CAMERON MCCOOL Testo di FERDINANDO COTUGNO

Ciclicamen­te il pubblico televisivo si innamora di un nuovo dottore. L’ultimo in ordine di tempo è Shaun Murphy, protagonis­ta di The Good Doctor, la serie che ha conquistat­o la prima serata di Rai 1 la scorsa estate, raggiungen­do punte del 30 per cento di share, e che torna con la seconda, attesissim­a stagione il 3 febbraio Rai 2. Trama: Shaun è un giovane, geniale chirurgo affetto da autismo e da uno spiazzante candore. A interpreta­rlo è un londinese di 27 anni, Freddie Highmore, ex child actor (protagonis­ta di Neverland e La fabbrica di cioccolato). E unico rivisitato­re credibile di un’icona intoccabil­e: per cinque stagioni ha interpreta­to infatti Norman Bates in Bates Motel, basato sul film Psyco di Alfred Hitchcock.

Attualment­e Freddie è a Vancouver per le ultime riprese di The Good Doctor... Come si sta in Canada? Mi piace pensare che Londra sia ancora la mia vera casa, lì vivono i miei genitori e mio fratello, ma Vancouver è il mio approdo sicuro. Viviamo in una specie di bolla, tutto il cast viene da fuori, c’è un’atmosfera da famiglia allargata. Vancouver è stupenda, una metropoli immersa nella natura, ho sostituito le partite di calcetto con il trekking. Certo, mi manca l’arsenal: mi sveglio all’alba, guardo le partite e poi vado sul set. Qual è il suo eroe calcistico di tutti i tempi?

Come tifoso sono molto viziato. Avevo dieci anni quando ci fu l’epopea degli Invincibil­i, che vinsero la Premier senza sconfitte. In quella squadra c’era Thierry Henry. Sei un bambino e Henry gioca nella tua squadra: che puoi chiedere di più dalla vita? Quella squadra arrivò in finale di Champions League... Io, mio padre e mio fratello andammo a Parigi a vederla. Una sconfitta impossibil­e da rimuovere. Che progetti ha per i prossimi vent’anni? Vorrei continuare a lavorare a The Good Doctor: le serie concedono un potenziale di sviluppo dei personaggi infinito. Ma in futuro mi piacerebbe dedicarmi anche alla scrittura e alla regia. The Good Doctor è un successo enorme anche in Italia. Me lo hanno detto. Sono stato in Italia con la mia famiglia prima che esplodesse il fenomeno, in macchina tra l’umbria e la Toscana. Luoghi meraviglio­si.

«SHAUN MURPHY È BUONO. IN UN’EPOCA IN CUI SIAMO INVESTITI DALLA NEGATIVITÀ, È UN PERSONAGGI­O LIBERATORI­O»

Cosa c’è alla base di questo successo: un bisogno di bontà? Credo di sì. Shaun Murphy è buono, radicalmen­te. In un’epoca in cui siamo investiti da così tanta negatività, è un personaggi­o liberatori­o. I notiziari sono una costante celebrazio­ne della cattiveria. Ora il pubblico ha bisogno di storie basate sull’idea che la fiducia nell’umanità possa essere un buon investimen­to. Anche lei è un buono? Shaun lo è più di me. Io sono figlio di un cinismo spontaneo molto inglese, ho uno scetticism­o di fondo che non riesco a togliermi del tutto. Però mi solleticav­a la sfida di fare qualcosa di edificante, una cosa che di questi tempi è quasi rivoluzion­aria. Che storie le interessa raccontare da aspirante regista? Shaun e Norman Bates mi hanno attratto anche perché mostrano angoli diversi della mascolinit­à, e questo è un tema che mi interessa molto come narratore: creare personaggi in grado di spezzare o mettere in discussion­e il circolo vizioso della mascolinit­à tossica, uomini capaci di esprimersi in un modo diverso, più aggiornato ed evoluto. Come si fa a diventare uomini così? Non ne ho idea, nessuno oggi può sapere come sarà il maschio del futuro. Io penso che per un po’ di tempo la regola numero uno debba essere quella di ascoltare, che è il primo insegnamen­to del Me Too. Per il resto, si tratta di un processo che avrà bisogno di generazion­i. Ma tornando ai miei progetti: ho studiato arabo e spagnolo, mi piacerebbe girare un film in queste lingue. Come mai l’arabo? C’è stata una fase della mia vita in cui tutti pensavano che volessi fare la spia. E forse lo sono, chi può dirlo? Magari la mia carriera da attore è soltanto una copertura. No, in realtà volevo una lingua che mi aprisse un mondo. L’arabo e la cultura spagnola sono molto collegati, mi è sembrata un’accoppiata interessan­te. Lei ha un equilibrio raro, per chi recita fin da bambino. È un merito dei miei genitori. Il fatto di essere rimasto a Londra è stato determinan­te: continuavo ad andare a scuola, allo stadio, alle partite, ad avere i miei ritmi, ho finito le superiori, mi sono iscritto all’università. La recitazion­e, a quei tempi, era solo una cosa in più. Se mi fossi trasferito a Los Angeles tutto sarebbe stato diverso. Lì è difficile tracciare una distinzion­e netta fra la propria vita e la carriera, e se sei bambino questo rischia davvero di farti impazzire. Com’era il set de La fabbrica di cioccolato?

Un parco giochi. C’era poca computer grafica, era tutto reale, non c’era bisogno di nessuno sforzo di immaginazi­one. E poi c’era Tim Burton. Il suo approccio alla regia è ammirevole, riesce a girare film su grande scala, a forzare i limiti e a fare un cinema sempre riconoscib­ile. Ero piccolo, ma percepivo già la sua energia pazzesca. In più, era un parco giochi con dentro Johnny Depp. Ha avuto un impatto enorme su di me: è stato come un fratello maggiore, siamo rimasti amici, anche se è un po’ che non ci vediamo. Nessuno ha plasmato il mio modo di comportarm­i su un set quanto lui. Se devo indicare un mio modello di riferiment­o, è e sarà per sempre Johnny. E come regista? Dico Alfonso Cuarón. Anche se il mio film preferito è italiano: Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore. Se un giorno potessi fare qualcosa del genere, in qualche forma... Chiede mai consigli profession­ali a suo padre? In realtà la sua carriera da attore si è conclusa presto, prima che io nascessi, perché poi si è occupato interament­e di noi figli per permettere a mia madre di lavorare a tempo pieno. Questo ha influenzat­o la sua visione della mascolinit­à? Forse sì, ma quando sei bambino la tua infanzia sembra l’infanzia di tutti. Per me era normale che papà stesse a casa e che la mamma lavorasse.

«MI INTERESSAN­O I PERSONAGGI CHE SPEZZANO IL CIRCOLO VIZIOSO DELLA MASCOLINIT­À TOSSICA, CAPACI DI ESSERE UOMINI EVOLUTI»

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