KEANU REEVES
Ecco perché si trova nei panni di John Wick per la terza volta
“Bentornato uomo nero ”
Prima ancora di essere pronti a incontrarlo, eccolo: in cima al vialetto dello Chateau Marmont di Los Angeles, che fuma una sigaretta su un divano basso, come se stesse nel porticato di casa sua. Keanu Reeves viene qui dai primi Anni 90, quando lo Chateau era fatiscente. I rubinetti non sempre funzionavano. I tappeti erano sporchi. «Non avevi neanche voglia di toglierti le scarpe», racconta. In compenso accadeva di tutto. «Potevi fare conversazione, avere una tresca, farti di brutto o semplicemente spassartela. Ecco, io sento ancora quella vibrazione».
In passato, Reeves si è trasferito qui per un po’, a sguazzare in piscina con Sharon Stone e «giocare a scacchi sul computer, fumando compulsivamente per combattere lo stress», come hanno raccontato i tabloid. Poi ha preso casa, non lontano da qui, sulle colline, ma allo Chateau Marmont torna sempre volentieri.
In America è in classifica la canzone rap Keanu Reeves di Logic, che quando uscì il film Point Break di Kathryn Bigelow, nel 1991, aveva un anno appena. Ogni generazione ha il Keanu Reeves che si merita, ma il Keanu Reeves di tutte le generazioni è solo uno. E oggi ha la stessa barba irregolare, la stessa tenda di capelli che gli cade sugli occhi e gli stessi, grossi scarponi da trekking Merrell che indossava praticamente sempre, senza badare al contesto, molto prima che il normcore fosse consacrato dal New York Times. Bisogna guardare da vicino il grigio scompiglio delle sue sopracciglia per ricordare che ha 54 anni e, al momento, un brutto raffreddore.
Ordina patatine fritte senza insalata, una Coca e un sandwich bacon, lettuce and tomato. Che arriva però fatto col pane morbido, mentre lui ama la croccantezza di quello tostato. Keanu Reeves non è sicuro che un BLT vada fatto così. Il pane morbido è per i panini morbidi. «Burro di arachidi e marmellata», dice Keanu. Poi, più sognante, come un Homer Simpson che fantastica: «Burro di arachidi e miele».
Nel suo nuovo film, nelle sale dal 16 maggio, Reeves interpreta per la terza volta John Wick, vedovo, maestro, assassino e guerriero dal cuore spezzato. Il primo John Wick è stato girato nel 2014 per 20 milioni di dollari dalla vecchia controfigura di Reeves in Matrix (Chad Stahelski), insieme al co-regista David Leitch, che era stato per molto tempo stunt coordinator e regista di second unit. In pratica, non aveva mai diretto un lungometraggio in vita sua. Nonostante Reeves fosse nel cast, insomma, non sembrava un progetto destinato al successo.
«C’è questo assassino, la cui moglie muore per cause naturali lasciandogli un cagnolino. Un malvivente russo uccide il suo cucciolo, e con lui 84 persone», racconta Chad Stahelski. «Quante case di produzione dissero no al film? La risposta è: tutte».
Il regista però sapeva esattamente di cosa fosse capace Keanu Reeves. «Non conosco nessuno che si impegni più a fondo di lui, in modo collaborativo, fisico, intellettuale. Non ho mai incontrato nessuno che avrebbe potuto sopravvivere a Matrix, costantemente bagnato, dolorante, stanco e picchiato per anni. Ora, dopo 20 anni, si è ritrovato col suo vecchio stunt, che l’aveva
già diretto ben due volte. Quindi sapeva di cosa sono capace. E che le mie aspettative erano ancora più psicotiche rispetto ai registi con cui ha lavorato negli ultimi 15 anni. Keanu ha retto. Non solo fisicamente: ha dimostrato un particolarissimo tipo di forza mentale».
Gli amanti dei film da combattimento hanno acclamato il primo John Wick per l’uso di riprese lunghe e ravvicinate nelle scene di arti marziali, come un audace ritorno al passato in opposizione a Jason Bourne di Paul Greengrass (2016) e un po’ anche a Matrix. Ed era proprio questa l’idea di partenza: affinché il pubblico potesse fidarsi di quello che vedeva, è stato sempre Keanu Reeves a realizzare le scene. Quanto al modo di girare: «Non avevamo scelta», riprende Stahelski. «Eravamo senza soldi. Le lunghe riprese, il colpo di pistola a distanza ravvicinata: sì, erano idee che avevamo. Ma non avremmo potuto fare diversamente, perché avevamo una sola macchina da presa. In una scena di combattimento, il primo ragazzo che muore è lo stesso che interpreta l’ultimo: si è rialzato, ed è corso dietro la macchina da presa per tornare subito in scena e farsi colpire di nuovo da Keanu».
La saga di John Wick ha fruttato fin a ora 140 milioni di dollari. Un successo a cui tutti, comprese le persone coinvolte, ancora stentano a credere. Il canale televisivo Starz sta realizzando addirittura una serie sull’universo di John Wick, sfruttando ulteriormente l’elaborata e dettagliatissima elaborazione del mondo sotterraneo del film.
Ed eccoci a John Wick 3 - Parabellum, in cui il protagonista è “scomunicato” – cioè bandito, nel linguaggio della congrega degli assassini – e in fuga con una taglia di 14 milioni di dollari sulla testa, dopo aver ucciso un ragazzo. Ma la vera posta in gioco è quella di sempre: la battaglia psichica. Ed è questo l’aspetto che Keanu Reeves ama davvero nei film sanguinari.
«Il mio personaggio vive un bellissimo, tragico enigma, praticamente convive con due sé», racconta l’attore. «C’è il John che una volta era sposato, e John Wick l’assassino. John vuole essere libero, ma l’unico modo che conosce per farlo passa attraverso John Wick. E quest’ultimo continua a uccidere e a infrangere regole. In realtà, si tratta di una persona alla disperata ricerca della sua vita e della sua anima».
In più, stavolta il protagonista va in giro per le strade di New York a cavallo. Le immagini rubate il giorno in cui è stata girata questa scena hanno trionfato su Internet: era dai tempi in cui Eadweard Muybridge ne girò uno, nel 1878, che un film che mostrava un ragazzo a cavallo non creava così tanto scompiglio.
«Qualcuno ha scattato una foto mentre stavamo girando a Brooklyn e l’ha messa in rete», aggiunge Chad Stahelski. «Ho pensato che fosse figo. Keanu ha pensato che fosse figo. Ma non credo che lo pensasse anche la produzione. Io sono un grande fan di Sergio Leone, quindi, in ogni caso, ho messo Keanu Reeves su cavallo. Se hai un attore che ne è capace, perché no? Ho fatto una lista di tutte le sue abilità, ci siamo seduti e ho detto: «Dammi tutto quello che puoi fare davvero bene. E abbiamo messo tutto questo nei film. Ma il cavallo non lo voleva nessuno, ho dovuto lottare: tutti pensavano che fosse un’idea strana». Tant’è: Keanu a cavallo (Horseback Keanu) è diventato un meme, uno dei tanti ispirati dalle sue immagini, come Sad Keanu o Conspiracy Keanu.
Mentre i suoi avatar fanno il botto sui social media, lui se ne sta comodamente seduto a casa con un libro. E guarda alla propria “memificazione” con una certa, disinteressata distanza. In realtà, partecipare a questo tipo di processo mediatico non fa per lui. «Sembra che alcune persone si divertano a fare delle belle stronzate», commenta Keanu. Il fatto è che non ritiene questa storia dei meme particolarmente creativa. Il che, ovviamente, lo rende un soggetto perfetto per i meme. A fine marzo, un piccolo aereo che trasportava Keanu Reeves e una decina di altri passeggeri da San Francisco a Burbank ha dovuto fare un atterraggio d’emergenza a Bakersfield, e lui ha deliziato nuovamente Internet unendosi ai suoi scomodi compagni di viaggio su un autobus (ovviamente insieme alle loro feed Instagram).
Reeves resta determinato a comportarsi come una persona normale, nonostante la sua semplice presenza crei ovunque un’atmosfera di irrealtà, ed è proprio questo che l’ha aiutato a portare a termine l’impresa quasi impossibile di rimanere un enigmatico personaggio di culto, nonostante sia stato un attore di serie A per decenni. Basta pensare a Matrix, ovviamente, con cui ha cambiato la storia dei film d’azione e addirittura la cultura. Tutti quelli che lo hanno conosciuto sul lavoro dicono che li ha orientati al cinema, spingendoli a mettere in discussione le strutture di potere che modellano le loro percezioni della realtà. Invitandoli a frequentare un master.
Dall’esterno, si sarebbe spinti a credere che durante la sua lunga carriera abbia ricevuto continue offerte d’ingaggio. Ma il mondo del cinema può trasformarsi anche in una gabbia, e lui ci è finito dentro nel 1995, quando è stato scomunicato dalla Fox per una decade, dopo aver rifiutato Speed 2 per andare a recitare Shakespeare a teatro, in Canada: «Non ho lavorato più con la Fox fino a Ultimatum alla Terra». Che uscì nel 2008.
Attualmente non è più in quarantena, per quanto ne sappia, anche se non fa un film con gli studios da 47 Ronin di Carl Rinsch, del 2013, un’altra bomba costosa. A volte i suoi fan, così riconoscenti per la sua longeva presenza, non si rendono conto di sostenerlo a suon di dollari: il nome di Keanu Reeves riesce ancora garantire il finanziamento di film d’azione di una certa dimensione, e a volte alcuni fra questi si trasformano in successi come John Wick. Interpretare questi ruoli non gli dispiace, e infatti non intende rinunciare: «Finché le mie gambe mi sosterranno», dice. «Fino a quando il pubblico mi verrà a vedere».
A 22 anni non si sarebbe mai immaginato che, a 54, avrebbe potuto reggere ancora parti così fisicamente impegnative. Correre, cavalcare, sparare. Non lo poteva immaginare anche perché non aveva la benché minima idea di come si sarebbe sviluppata la sua carriera di attore.
«Non ho mai davvero pensato al mio futuro professionale, o a quello che mi sarebbe successo in generale nella vita, fino a poco tempo fa. Probabilmente ho cominciato a farlo intorno ai 45 anni». Che cosa l’ha spinto a riflettere sul futuro? «La morte».
Keanu Reeves non rivela chi abbia perso, in particolare. Si sa che diverse persone a lui care sono mancate, soprattutto prima che lui compisse 40 anni. Ma è a questo punto del discorso che si concede una digressione su una mattina lontana, in un vigneto, con Anthony Quinn. Stavano girando Il profumo del mosto selvatico di Alfonso Arau (1995). Reeves interpretava un veterano traumatizzato dopo la Seconda guerra mondiale che si innamora di una donna incinta. Quinn era il patriarca della sua ricca famiglia messicano-americana. Il giorno prima erano a pranzo insieme. Anthony Quinn avrebbe festeggiato gli 80 a breve, per vivere soltanto altri sei anni. Ma nel 1995, ciò che colpì Keanu Reeves di lui era che stava sempre al telefono. Tenendo costantemente sotto controllo il proprio team. Controllando se avevano preno
questo e quello. «Ancora a darci dentro», ricorda. E ancora si meraviglia: «Ero, tipo, Whoa» (sì, Keanu Reeves ha detto, Whoa. E, sì, è strano). Poi continua: «Era mattina presto, c’era nebbia, e camminavamo nel vigneto». Quindi il dialogo si è sviluppato in questo modo:
Keanu Reeves: «Anthony?». Anthony Quinn: «Sì, Keanu?» Keanu Reeves: «Sarà sempre così?». Anthony Quinn: «Sì».
E Keanu Reeves oggi ride: «C’è questa idea che a un certo punto ti sentirai arrivato. E poi forse non ci sarà molto da fare per riuscire a lavorare ancora. Mi ha colpito che questo signore, questa leggenda, a 80 anni...». Fosse ancora in giro a vendere cara la pelle. Cercando di ottenere delle parti. «Sì», aggiunge. «Anthony Quinn».
Si ha quasi l’impressione che, per anni, la fortuna e la casualità abbiano contribuito a proteggere Reeves da realtà pesanti, quando una carriera di attore, per la maggior parte dei mortali, richiede vigilanza, lungimiranza e seccature al telefono. Ecco, per esempio, come racconta di quando lui e River Phoenix hanno deciso di fare Belli e dannati di Gus Van Sant, nel 1991, e di quanto fossero preoccupati del potenziale impatto del film sulla loro carriera: «Era come stare a un centinaio di metri in aria, con sotto questa bella piscina d’acqua, e ti guardi l’un l’altro come a dire: “Vuoi saltare? Saltiamo!”».
Questo è sempre stato il suo dono: una bussola interna che lo porta a rischiare, con la convinzione che da qualche parte, sotto, c’è sempre un’invitante piscina blu. Lo stesso istinto che lo ha portato a lavorare con registi del calibro di Kathryn Bigelow, Gus Van Sant e i fratelli Wachowski, all’inizio della sua carriera. E, più di recente, con Nicolas Winding Refn e Ana Lily Amirpour, spesso in ruoli progettati per mettere a soqquadro preconcetti di vecchia data su come debba essere un personaggio di Keanu Reeves. Così, alla fine, sembra proprio avesse un senso, tutto questo riflettere sul lavoro.
La recitazione è un business di vicissitudini. Bisogna aggrapparsi alle parti più complete dell’esperienza e dimenticare il resto. Come sa bene l’attore di origini svedesi Peter Stormare: una volta è andato in Cina per realizzare un film sulla salvaguardia delle tartarughe marine. Prima che la pellicola fosse distribuita, il governo cinese ha deciso che c’era qualche problema con il visto di lavoro di Stormare e ha confiscato il film. Da allora, non è più uscito. Ma Stortato mare ricorderà sempre di aver portato una tartaruga marina da cento libbre lungo la spiaggia, mettendola in acqua, guardandola nuotare via. «Ricorderò quel momento per tutta la vita», mi ha confidato un giorno. «Quella bella creatura che si avventura nell’oceano grazie all’aiuto di due umani». In realtà avremmo dovuto parlare di Swedish Dicks, la serie comica di Stormare su due investigatori privati, in cui Keanu Reeves interpreta, a volte, uno stuntman che è diventato un killer di nome Tex. Il fatto che lui sia una guest star abituale in un programma televisivo non smette mai di suonare strano. È come quando si vedeva Bob Dylan nella sitcom Dharma & Greg. O come un unicorno che ha un ruolo ricorrente nella serie Bosch. Allora: è successo perché sono amici, Peter Stormare e Keanu Reeves. Hanno lavorato insieme in Constantine di Francis Lawrence, del 2005, e hanno legato. Frequentano anche la stessa palestra.
«Abbiamo una personalità simile, nel senso che siamo entrambi eremiti», dice Stormare. «Lui è un solitario, come me. Non mi piace il red carpet. Di Keanu pensano che stia mettendo su una maschera, quando balbetta rilasciando interviste sul tappeto rosso, e magari guarda altrove e sembra a disagio. Ma in realtà si sente a disagio sul serio».
Swedish Dicks è una produzione statunitense-scandinava con un budget minuscolo. Reeves prende lo stipendio di una normale guest star, va in bicicletta e non ha un van. Hanno già girato due stagioni. Quando incontra Stormare in palestra, gli chiede quando inizierà la terza.
«È un tipo piuttosto divertente, anche se spesso non lo sono i ruoli che ottiene nei film. È davvero un grande comico. Mi ricorda Timothy Hutton, a volte, e Dylan Mcdermott», continua Stormare. «Ho solo cose buone da dire su di lui. Una volta all’anno ci beviamo una birra insieme e parliamo della vita. È molto riservato. Conduce la sua esistenza nella direzione che desidera. E credo che a volte possa sentirsi solo. Proprio come me. C’è un conforto nell’essere soli a volte, specialmente quando si lavora su qualcosa».
Quando sono insieme, capita che i due amici affrontino temi come il paranormale. Gli universi paralleli. Che cosa c’è là fuori. Frammenti di solitudine.
«Entrambi abbiamo avuto un’infanzia piuttosto caotica», commenta Alex Winter, che ha recitato con lui in Bill & Ted’s Excellent Adventure e nel suo sequel del 1991, e che lo farà di nuovo nel 2020 in Bill & Ted Face the Music di Dean Parisot. Keanu Reeves in realtà non ha mai parlato della sua infanzia. Si sa che il padre si è dileguato presto e che ora non si parlano. Che la madre lo ha cresciuto in vari Paesi, con compagni diversi. Che è diventato canadese. Lo scrittore Dennis Cooper, in un’intervista, una volta ha dichiarato, rispetto alla propria giovinezza: «Voglio dire, abbiamo fiondato castagne sulla testa degli insegnanti, e intorno alla terza media l’hashish ha iniziato a girare, e poi roba tipo Lsd. Ma Toronto ora è diventata come un centro commerciale».
Keanu Reeves ha lasciato presto il Canada per andare a Hollywood: ha recitato in film per la tv, poi in ruoli secondari al cinema, iniziando a sfondare nel 1986 con I ragazzi del fiume di Tim Hunter. Il film racconta la presa di coscienza di una banda di adolescenti alienati degli Anni 80: stanno dando la caccia agli ultimi fumi della controcultura in una piccola città senza pietà. Dovrebbe essere la California, ma sembra un’anteprima dell’anomia del Pacifico nordoccidentale, del grunge e di Twin Peaks. Reeves mette in mostra solo un accenno di baffi, come un giovane Chris Cornell. E spiega a Ione Skye, anche lei così giovane da spezzare il cuore, perché non avrebbe voluto essere morto: «Uno non potrebbe più sballarsi poi».
Molto spesso ci si volta indietro a guardare gli altri attori di quel cast, come Crispin Glover e Dennis Hopper, una sorta di action-paint dalle sfumature di folli. Hopper era appena tornato da Velluto blu di David Lynch. E Keanu Reeves ricorda come il regista lo abbia lasciato libero nelle scene pirotecniche: «Amico, mi ha appena lasciato andare! Stai per urlare! ».
A volte, ne I ragazzi del fiume, la telecamera si sofferma sul volto di Reeves sferzato dal vento, o mentre sta fumando uno spinello. Trasmettendo molto più della propria personale, enfatica disperazione.
«Questo stupore è una delle cose che amo davvero di quello che fai», ha dichiarato Dennis Cooper riferendosi a Reeves, nella stessa intervista. «Parli sempre di quello che vuoi dire. La maggior parte degli attori produce solo emozioni e si aspetta che il pubblico le corrisponda. Con i tuoi personaggi, la chiave è invece la loro incapacità di produrre. Sono spesso, se non sempre, angosciati, spaventati, stravolti dal mondo. Sono sempre a contatto con il loro contesto».
Alex Winter ha incontrato Reeves prima
dell’uscita dei Ragazzi del fiume. Erano in una sala d’attesa alla Interscope Pictures. Tutti i ragazzi di Hollywood erano venuti all’audizione per il film Bill & Ted, in cui due fessacchiotti di San Dimas (California) partecipano a un test di storia viaggiando nel tempo, alla ricerca di autentici personalità del passato. «Abbiamo legato su moto, chitarra, basso e Harold Pinter», racconta Winter. «Keanu aveva un’ottima collezione di libri». La loro chimica intellettuale li ha aiutati a ottenere il lavoro e giocare a fare gli idioti. Uscito in sala nel 1989, Bill & Ted di Stephen Herek si è trasformato in un successo a sorpresa. È la dolcezza di Bill e di Ted, la loro ingenuità bonaria, che lo fa funzionare. Il film ha anche rischiato di essere un boomerang per Reeves, creando l’impressione errata che fosse scemo come il suo personaggio più scemo, per via di “quel non so cosa” della sua recitazione che secondo Dennis Cooper genera stupore, riflettendo quasi una mancanza di attività cerebrale. Molte delle prime interviste-video di Keanu Reeves, in effetti, alimentavano il pregiudizio. Si aveva quasi l’impressione che i giornalisti stessero intervistando un cane parlante. Ma essere sottovalutato era probabilmente la cosa migliore che gli poteva accadere. È passato infatti da Ted a parti decisamente più interessanti, come quelle delle antitetiche storie d’amore maschili − stranamente simmetriche − di Point Break e Belli e dannati nel 1991. Per non parlare dei ruoli firmati Bertolucci, Nancy Meyers, Shakespeare. Fino a un progetto strano, ambizioso e borderline, una sceneggiatura incomprensibile di due registi sconosciuti di Chicago, i cui personaggi sono entrati e usciti da una malevola simulazione al computer, cambiando genere via via. Forse quel primo malinteso lo ha reso iperattivo nelle interviste, incline a combattere l’impressione che si aveva di lui. O forse odia semplicemente il suono della sua stessa voce quando dice cose che ritiene stupide. Questa almeno è stata la sua spiegazione, nel 1991, quando si è brevemente scusato per una seduta al Four Seasons con il Los Angeles Times conclusa con un’autoflagellazione pubblica che fu descritta così: «Ora è fuori sul minuscolo balcone della sua suite al decimo piano, agitando le braccia animatamente e pronunciando ad alta voce malriuscite profanità sulle presumibilmente stupite teste di qualsiasi abitante di Beverly Hills che si stia trattenendo da quelle parti».
Se Keanu Reeves è migliorato sotto questo aspetto, è anche grazie al fatto che in seguito si sia sottratto il più possibile a confronti pubblici come quello. Sul tema, in effetti, è diventato percettibilmente molto sveglio: quando gli si pone una domanda, sta già pensando a come verrà letta la sua risposta. Riesce a capire il taglio con cui viene intervistato, come se gli passasse davanti allo sguardo un codice. Conosce il segreto di queste situazioni: sei già affondato se cerchi di impressionare, ma ti è sempre consentito scappare se sei disposto a non dire nulla di definitivo.
Gli è sembrato strano vedere come la stampa americana sia tornata a parlare del personaggio di Ted? «No», afferma. «Penso che si usino ancora i modi di dire di quel film come “amico” o “è ancora in giro”». Ha fatto pace con quel ruolo? «Sì», risponde. E gli è mai stato di conforto vedere la sua intelligenza sottovalutata in quel modo, riservandosi il piacere di poter sorprendere le persone? I sorrisi di Reeves sono timidi come quello della Gioconda. «Non so davvero quanta intelligenza possieda».
L’artista Robert Longo lo ha diretto in Johnny Mnemonic del 1995. Con William Gibson, che ha adattato la sceneggiatura dal suo racconto, se l’era immaginato come una versione cyberpunk di Alphaville di Jean-luc Godard. Ma fin dall’inizio la produzione è stata caratterizzata dalla sfortuna. Finché la casa di produzione − capendo di lavorare al nuovo film di un attore che era appena diventato la super star di Speed (di Jan de Bont, 1994) − ha tagliuzzato il girato nella fase di montaggio per tirarne fuori un film da blockbuster. Quest’opera di fantascienza degli Anni 90, influenzata dagli anime, con Reeves che interpreta un eroe in costume nero dotato di una porta-dati nel suo cervello, ha avuto vita breve al botteghino. Longo tornò all’arte e non lavorò più per Hollywood. Naturalmente, il film non ne ha beccata una giusta sul futuro a eccezione delle corporazioni malvagie e del rubinetto touchless. Ma è molto più divertente di quanto sia stato considerato, un B-movie in cui, come in un cocktail party, inspiegabili ma graditi ospiti continuano ad arrivare: Ice-t, Henry Rollins, “Beat” Takeshi, Udo Kier, un delfino. Alla fine ha trovato il suo pubblico, anni dopo lungo la strada, a Berlino: alcuni hacker criminali (black hat) si sono avvicinati a Longo, hanno iniziato a recitare dialoghi a memoria. Gli hanno anche detto: «Se mai aveste bisogno di noi per hackerare qualcosa, fatecelo sapere», ricorda Longo. «Così, ora ho amici nella darknet, il che è davvero fantastico, per gentile concessione di Johnny Mnemonic».
Ha anche un amico in Keanu Reeves, ancora oggi. A volte, quando è a New York, Reeves va nel suo studio con una confezione da sei di birre, solo per stare con lui a guardare il suo lavoro, e la gente nel palazzo chiede in seguito all’artista perché stava salendo in ascensore con un barbone che assomigliava un po’ a Keanu Reeves. In più di un’occasione, l’attore è andato perfino a Bay Ridge per vedere il figlio di Longo giocare a pallacanestro, obbligandosi al conseguente sciame di autografi, per poi suggerire gentilmente a tutti di sedersi in modo che i bambini potessero giocare.
«Keanu è venuto a trovarmi per mostrarmi Matrix prima che uscisse», continua Longo. «Aveva un nastro Vhs, e non erano conclusi tutti gli effetti speciali. Si potevano ancora vedere le corde e cose del genere. Ho pensato che fosse molto dolce, che fosse venuto per farmelo vedere. Perché Matrix, in un modo strano, era anche un modo di cercare che Johnny Mnemonic avesse successo».
Bisogna parlare con persone diverse da Keanu per conoscere questi aspetti della sua personalità. Perché quando affronta un’intervista, mantiene sempre un forte riserbo sugli aspetti più personali. Ha negoziato i termini del suo rapporto con la cultura della celebrità molto tempo fa, e non è interessato a riaprire la conversazione. Così si va allo Chateau, oppure a vedere il suo negozio di motociclette Arch Motorcycle Company, a Hawthorne, California. Ha iniziato nel 2011 con un designer di moto di nome Gard Hollinger.
Il modello Arch originale è la Krgt1, che costa 85.000 dollari, ma c’è anche un modello più fantasioso che viene via per 120.000. Ora ne stanno progettando uno nuovo chiamato Method, che «sarà ridicolosamente costoso».
Keanu Reeves parla delle sue moto con gergo tecnico. Sono bellissime, tagliate da blocchi di alluminio massiccio, tutte a specchio e in negativo. Camminiamo lungo il piano della fabbrica, visitando le fresatrici. A un certo punto inizia a spazzolare qualcosa, e per il resto del pomeriggio, piccoli trucioli di metallo gli si aggrappano alla gamba del pantalone come fiocchi di neve brillante. La parte migliore del tour arriva alla fine, quando Reeves gira la chiave di una motocicletta Arch: «E suonano così». Il rombo del motore quasi solleva il soffitto della stanza. Eccellente.
Keanu Reeves esce a fumare, posiziona il
corpo in modo che ostacoli il sole negli occhi del suo visitatore. Parliamo del momento, a metà degli Anni 90, quando la sua fama era all’apice pre-matrix e decise di mettersi a suonare il basso in una grunge band chiamata Dogstar, con un batterista che aveva conosciuto al supermercato. Era stato bollato come un dilettante, naturalmente. Dice che si sentiva in colpa per gli altri ragazzi della band, musicisti abituali che dovevano affrontare le riserve di scetticismo che la società riserva agli attori che si danno a un secondo lavoro in nero, ma aggiunge: «Credo che sarebbe stato di maggiore aiuto se la nostra band fosse stata migliore».
In verità non erano malvagi, ma solo funzionali a una sorta di spot alternativo della Kroq (Los Angeles alternative music radio). Sarebbero stati un po’ più rumorosi nel live, se il bassista avesse avuto lo stesso stile di Peter Hook nel guidare la melodia dei Joy Division. E se ci fosse stato anche Keanu Reeves.
«Abbiamo suonato al Milwaukee Metal Fest. Ci hanno ammazzati. Il fatto è che abbiamo suonato accanto ai Murphy’s Law (belligerante leggenda hardcore-punk di New York). Immaginate. Così abbiamo suonato una cover dei Grateful Dead, al Milwaukee Metal Fest».
In realtà è stato più strano di così. Hanno suonato dopo i Murphy’s Law, gli Agnostic Front e i Mentors − hardcore, thrash-punk, punk-metal − e prima dei Cannibal Corpse, Obituary, Deicide e di una band che si chiamava Cancer. Oggi Reeves non ricorda con precisione quale canzone dei Dead abbiano suonato, anche se le ricerche della set-list dei Dogstar suggeriscono che probabilmente si trattasse di New Minglewood Blues.
«Noi pensavamo più o meno così: “Ci odiano. Cosa ci facciamo qui? Cosa possiamo fare? Facciamo la cover di Grateful Dead”», ricorda Reeves, ridendo. «E loro: “Vaffanculo, fate schifo”. Indossavo il sorriso più grande che avessi mai avuto sulla mia faccia».
È il ragazzo indie-rock che sta invecchiando più famoso al mondo. È probabilmente l’unico attore da un miliardo di dollari ad aver elencato una volta il provocatorio gruppo noise-terror Anni 80 di Steve Albini, Big Black, tra i suoi recenti ascolti preferiti. Quando gli viene ricordato questo episodio, fa uscire un tranquillo grido da dinosauro – «raaaaaaaaaahhhhhhh» − e si mette a fare air guitar come un Ted Logan qualsiasi. Solo un po’, però.
Non ascolta più tanta musica nuova come una volta. Non si è appassionato a una nuova band da quando ha scoperto i Metz, un gruppo punk abrasivo di Toronto le cui canzoni hanno titoli come Escalator Teeth e Mess of Wires. E questo suo allontanamento un po’ lo preoccupa.
«Ma una volta ogni tanto, ho quei momenti in cui bevo del whisky e tiro fuori i dischi e inizio a fare il DJ fino alle quattro del mattino».
Si trova meglio in questa zona del campo. È coinvolto, e fa domande. Quando parlo di Valis di Philip K. Dick, del 1981, uno degli ultimi, più strani romanzi dell’autore di Un oscuro scrutare, ammette di non averlo letto. Poi mi fa raccontare tutta la storia del libro, presumibilmente il tentativo di Dick di elaborare attraverso la finzione una serie di esperienze quasi religiose in cui un’intelligenza extraterrestre gli ha fatto saltare il cervello con un raggio laser rosa composto di informazioni pure. È di questo che tratta la canzone dei Sonic Youth Schizophrenia. Reeves la conosce e inizia a cantarla. Poi si appunta i titoli dei libri di Dick rilevanti, da controllare più tardi.
Prima di girare Belli e dannati, Gus Van Sant ha dichiarato: «Ho dato come riferimento sia a River che a Keanu il libro di John Rechy Città di notte. River Phoenix ha smesso dopo alcune pagine. Keanu Reeves lo ha letto tutto e si è procurato ogni titolo dell’autore che è riuscito a trovare. È sempre molto scrupoloso».
Questo è quello che si pensa di lui quando lo si conosce davvero. «Ci sono stati momenti in cui magari parlavo di un libro, e lui all’improvviso iniziava a prendere appunti», riprende Robert Longo. «E puoi starne certo, il figlio di puttana sarà andato a leggerselo!».
È impossibile non provare la tentazione di far prevalere le proprie teorie intorno a Keanu Reeves sul vero Keanu Reeves. Impossibile e infruttuoso. Ovviamente.
Nel 2012 il regista Christopher Kenneally ha realizzato un documentario obiettivo e onesto su ciò che il cinema potrebbe guadagnare e perdere con la tecnologia di produzione cinematografica digitale che eclissa la pellicola. Reeves interpreta il ruolo di narratore («La pellicola è coperta da un’emulsione... I cristalli si trasformano in metallo argentato quando sono sviluppati») e di interlocutore (David Lynch, a cui Reeves chiede se ha definitivamente chiuso con la celluloide: «Non ci contare Keeann-oh»). Non è esattamente un film da Keanu Reeves, è piuttosto un’esplorazione di come l’innovazione tecnologica plasmi l’estetica, a cui Reeves conferisce il proprio prestigio. Eppure, sembra inevitabilmente un gesto autobiografico da parte del narratore, un tentativo di Reeves di comprendere il meccanismo con cui la sua immagine è stata costruita. Per dire: c’è una clip di un bambino che gli chiede: «come sei entrato nel computer?». Poi Kenneally taglia su Reeves nei panni di Neo (Matrix), con dati liquidi che gli gocciolano giù dal braccio.
In molti suoi lavori recenti tende a interpretare ruoli di cattivi, in particolare di cattivi che spingono i giovani e i vulnerabili in quella che un altro grande canadese una volta chiamava «macchina da star-maker». In The Bad Batch di Ana Lily Amirpour (2017) è un leader di culto post-apocalittico che mette al tappeto i suoi accoliti. In The Neon Demon di Nicolas Winding Refn (2016) si presenta negli incubi di Elle Fanning per violarla con un coltello. Nello scatenato blockbuster di arti marziali Man of Tai Chi, al suo debutto alla regia nel 2013, è il proprietario del cinema underground che vuole trasformare l’onorevole eroe Tiger Chen in un killer, in modo che diventi un’attrazione ancora più grande.
Verso la fine del pomeriggio allo Chateau Marmont, Reeves trova un’altra zona appartata, protetta dal resto del patio da una tenda antipioggia, dove può fumare. Gli è stato chiesto se stesse cercando, in alcuni di questi progetti, di esaminare il modo in cui i media e l’industria cinematografica hanno contribuito a costruire un’idea di Keanu Reeves. Un falso sé, rispetto alla sua autentica vita. È qualcosa che sta consapevolmente cercando di fare? «Penso che si potrebbe fare in un corso di cinema», afferma. Poi ride. «Credo che non dovrei far sembrare questa affermazione così dispregiativa». Mentre lo dice è seduto su una sedia dello Chateau. La sedia è posizionata proprio sul bordo del patio, dove la pietra cede il passo allo sterrato. Una delle gambe della sedia pende nell’aria, lasciando il suo piede poggiare sul nulla. Qualcun altro in questa posizione, fumando, si sarebbe inclinato troppo all’indietro, ribaltandosi. Keanu Reeves di contro fluttua semplicemente, perfettamente bilanciato, in qualche modo seduto sulla sedia senza esserci affatto. *L’autore di questo articolo, Alex Pappademas, è uno scrittore che vive a Los Angeles.