CHIUDERE GLI OCCHI È UNO SPETTACOLO
Il primo ricordo che lego al mio lavoro è un’immagine di me a occhi chiusi. Da piccolo passavo molto tempo a osservare fosfeni: fenomeni visivi che avvengono in assenza di luce, caratterizzati dalla percezione di puntini luminosi e scintille, causati dalla stimolazione meccanica della pressione delle palpebre sui fotorecettori. Se provate a chiudere gli occhi per qualche istante li vedrete anche voi. Sembrano macchie luminose in continua evoluzione. M’incantava e mi faceva paura pensare che lo spazio dentro ai miei occhi fosse senza fine. Quando li riaprivo, mi chiedevo come fosse possibile che gli esseri umani continuassero a vivere sereni conoscendo così poco del mistero dell’esistenza. Quest’anno compirò 43 anni e il 21 giugno riceverò il Leone d’oro alla carriera per la danza dalla Biennale di Venezia. La notizia di questo premio mi ha colto molto di sorpresa, mi ha riempito di gioia e mi ha obbligato a guardare al passato e al lavoro fatto.
Come artista, mi sembra che il mio sguardo sia ancora quello di un bambino che sfida i limiti della sua immaginazione. Solo che lo fa usando il corpo e la sua rappresentazione.
Dicono che il mio lavoro sia basato sul concetto di ripetizione e che porti i performer all’esaurimento fisico. In realtà questo non è il mio obiettivo. La ripetizione mi aiuta a trasportare gli spettatori e gli interpreti in una dimensione in cui il tempo si dilata.
Ho passato tutti i pomeriggi della mia infanzia in casa, a giocare assieme a mia zia Pia, che aveva trent’anni
MI SEMBRA CHE IL MIO SGUARDO SIA ANCORA QUELLO DI UN BAMBINO CHE SFIDA I LIMITI DELLA SUA IMMAGINAZIONE
NON HO STUDIATO DANZA CLASSICA. VOLEVO FARLO DA ADOLESCENTE, MA ERA RITENUTA UNA COSA DA RAGAZZE
più di me e la sindrome di Down. Durante quelle ore potevamo vivere momenti di grossa euforia. Eppure, ciò che ricordo principalmente è la dimensione dello scorrere del tempo. Mia zia iniziava a passare la scopa in casa alle 14.10, quando mia madre usciva per andare al lavoro. Quando rientrava, alle 18.45, Pia non aveva ancora finito. Il tempo si dilata quando fai a lungo una sola cosa. Da lei ho imparato a perdere la cognizione del tempo restando conscio. Questa è la mia danza. Non ho mai studiato la tecnica classica, la moderna o la contemporanea. Avrei voluto farlo quando ero adolescente, ma era considerata una cosa da ragazze e mi vergognavo di andare a lezione. Per questo non sono in grado di montare coreografie basate sulla composizione di passi legati a queste discipline. Ma il fatto di non poter attingere al vocabolario di questi linguaggi mi ha spinto negli anni a cercare la danza in altre pratiche. Il mio lavoro parte da attività già esistenti, che decontestualizzo e ricreo in teatro. Negli anni ho praticato queste operazioni astraendo alcune sequenze di movimento da alcune danze popolari, dalla giocoleria, e da pratiche sportive. In altri casi ho scelto singole azioni o movimenti: nel progetto Turning i danzatori girano su loro stessi, in Augusto ridono a oltranza, in altri spettacoli si lavora sul salto, sul camminare eccetera. Attraverso la ripetizione di queste pratiche, per una durata indeterminata si rivelano davanti ai miei occhi nuovi significati.
Nei miei spettacoli, i giocolieri sono come lama tibetani, le danze popolari tirolesi diventano forme archetipiche di un pensiero antichissimo e una disciplina paralimpica per non vedenti può trasformarsi in un’esperienza sulla percezione. Quest’ultima l’ho intitolata Aurora, perché la mancanza di visione (ancora: a occhi chiusi) è il principio di una nuova maniera di sentire e non solo una disabilità.
Quando sono seduto tra gli spettatori non riesco quasi mai a sentirmi parte dell’evento, perché ho troppa ansia di capire come sta andando lo spettacolo. Ma quando assisto alle prove, sento di nuovo quella sensazione di eccitamento e paura che avevo da piccolo, quando chiudevo gli occhi e trasformavo fosfeni nel mistero dell’infinito. Se penso alle persone con le quali ho lavorato durante questi anni, mi piace ricordare quel momento speciale nel quale mi sono trovato con ognuna di loro: il primo giorno di prove. Per iniziare propongo sempre la stessa pratica. A occhi chiusi.