COPIA CONFORME
Come diventare Pedro Almodóvar, e rinascere
Che cosa ha imparato dalla morte? «A vivere». Antonio Banderas ha 58 anni. Due anni e mezzo fa il suo cuore ha ceduto. Letteralmente. «Ha lasciato tracce visibili», dice. Intende soprattutto nelle reazioni a catena che quel crac ha provocato. Per esempio, il ritorno a bomba. Da Hollywood alla Spagna. Alla sua prima patria. Da Pedro Almodóvar, il regista che 38 anni prima lo aveva notato fuori da un caffè di Madrid. Banderas aveva i capelli lunghi e la barba del personaggio che interpretava a teatro, Almodóvar gli disse: «Dovresti fare cinema, hai una faccia romantica». Banderas diventerà la musa di Almodóvar, e il regista il suo mentore assoluto. Una fila di film insieme, il successo planetario. E poi l’ambizione: quando bussa nuovamente alla porta dell’attore, lui saluta e parte per gli Stati Uniti. In cambio avrà fama, una moglie, Melanie Griffith, una figlia, Stella, un divorzio, una carriera come produttore. Almodóvar resta solo, con l’amaro in bocca e un nuovo film in cerca di attore. Ma il tempo è passato, l’acqua sotto i ponti ha smosso i detriti. E quando Antonio ha avuto bisogno di Pedro, Pedro lo ha accolto. In Dolor y gloria, in sala in Italia il 17 maggio, in contemporanea con la proiezione al Festival di Cannes, dove è in concorso. Un film in cui i “ricongiungimenti” hanno una parte importante. Nei giorni di questa conversazione Antonio Banderas è a Madrid, occupato dal copione di The Hitman’s Wife’s Bodyguard, il sequel del campione di incassi Come ti ammazzo il
bodyguard. Si unisce ai tre volti del primo capitolo: Ryan Reynolds, Samuel L. Jackson e Salma Hayek. «Ogni tanto una commedia così mi diverte. Anche Dolor y gloria lo è, ma in modo diverso…». Lo dice con una sonora risata, cosa che rifarà − ridere − molte altre volte.
“Il nostro ottavo film insieme restituisce un’immagine diversa di Antonio”: sono parole di Almodóvar. Le condivide?
È vero, e non tanto perché sembro più vecchio: tutti invecchiamo. È cambiato radicalmente il mio modo di recitare: ho lavorato per eliminare ogni sicurezza, ogni appiglio creato in anni di mestiere. Era necessario, l’ho capito dalle prove di Dolor y gloria: dovevo abbandonare le certezze per camminare in un luogo completamente sconosciuto. Solo così, giorno dopo giorno, potevo aggiungere qualcosa di nuovo con le indicazioni di Pedro, che non
solo è il regista di questa storia, ma ne è anche il protagonista. E cioè Salvador Mallo, il personaggio che interpreto. Un uomo che va in pezzi. E che li rimette assieme andandoli a cercare nel suo passato.
La somiglianza è fortissima.
Non volevo copiarlo. Ho i capelli dritti come i suoi, mi vesto come lui e la casa in cui mi muovo è la copia della sua. Ma ho cercato di tirare fuori Salvador Mallo da dentro di me, con pazienza e spostamenti sottili. Pedro viene spesso confuso con i suoi film: rock, sgargianti, infuocati di colore. Ma negli ultimi anni Pedro ha sofferto: a causa di alcune malattie è diventato un solitario, dedito all’introspezione, ai suoi libri, al cinema. Questo è l’uomo che mi interessava e che volevo mostrare al pubblico, un uomo che osserva la realtà e cerca di sistemare le cose che sono andate a ramengo. Dolor
y gloria è una forma di riconciliazione con se stesso, il suo passato, la madre, il fidanzato, il cinema. Direi che è venuto a patti con la vita intera, per quel che è stata.
Le cito ancora Almodóvar: “Sulla faccia di Antonio vedo gli interventi al cuore, la sua esperienza col dolore”.
È leggermente diverso. Non ho provato troppo dolore fisico, per la verità, ma essere vicino alla morte ha lasciato tracce che riconosco non tanto sul mio volto, quanto nella mia anima: ha cambiato il mio modo di vedere la vita.
In che modo?
Ho compreso che l’unica verità dell’esistenza è la morte, e la conseguenza è stata l’arrivo di una certa tristezza, che ho accettato. Adesso so che la morte è perfetta, e che ogni altra cosa è relativa.
Da lì in avanti, cosa cambia?
Ho iniziato a dare molta importanza a ogni secondo che ho. È arrivato un tempo, nella vita di Pedro e nella mia, in cui c’è spazio solo per la verità, e nessuna stupidità. Quando ho letto le parole che ha scritto per il film mi sono detto: capisco tutto quello che sta dicendo, e il modo quasi minimalista di porlo. La storia del film ha scatenato emozioni forti dentro di me, Pedro mi ha chiesto di non nasconderle ma di mostrarle al pubblico. Così ho fatto, mettendoci dentro anche la depressione.
Mostrarsi depressi e fragili, in un’era in cui vige l’immagine “up”?
L’immagine è l’immagine, non me ne curo. Oggi mi sento molto bene, corro otto chilometri al giorno, sono di nuovo l’uomo che tutti conoscono, con una differenza: ho già visitato un posto, so che esiste e anche che prima o poi sarò di nuovo lì. Il riconoscimento della vita e della morte è un fatto naturale, se vogliamo, ma ci vuole il fegato di metterlo sullo schermo e raccontare alla gente che questa è la realtà
della vita. Almodóvar ha trovato in me uno specchio per farlo, dopo 40 anni che lavoriamo insieme, dopo che abbiamo attraversato ogni evento possibile, dalla storia del nostro Paese alla nostra personale, passando per quella del cinema. Credo che nessuno lo conosca come lo conosco io.
Le ha mai detto di essersi sentito tradito, quando lo ha abbandonato per l’america? Sì, me lo ha detto, anche perché mi aveva appena offerto un altro film. Ma in quel momento io volevo volare, ero nel pieno dei miei vent’anni, non volevo essere associato a un solo regista.
Parliamo della sua ambizione, allora, di quell’antonio che Almodóvar descriveva giovane, pieno di passione e di follia.
Lo ricordo con molto humour. Volevo bermi la vita e l’ho fatto davvero. Volevo tutto e subito. Ero giovane, con abbastanza soldi in tasca, le notti erano piene di tentazioni e di bellezza. Ma ci sono stati momenti in cui mi sono chiesto: ok, ma quanto posso continuare così? A un certo punto devi crescere, e cresci. Poi è arrivata un’altra fase, un nuovo millennio, che mi ha visto impegnato nella mia vita personale.
Cosa le hanno dato gli Stati Uniti? Film che non avrei potuto girare in Spagna, perché non c’erano copioni nati per diventare blockbuster. Ricorderò sempre con un sorriso La maschera di Zorro, Desperado, Intervista col vampiro. Ed è in America che mi sono innamorato, mi sono sposato, dove ho avuto una figlia meravigliosa, Stella. Da padre è iniziata una vita parecchio diversa da quella che avevo fatto a Madrid, le follie dei night club negli Anni 80 e 90 sono finite.
“Dolor y gloria è una sorta di nuova nascita per Antonio, o quanto meno l’inizio di una splendida tappa di maturità”: è sempre Pedro a parlare.
Quella è iniziata prima, con La pelle che abito, un lavoro molto più difficile di questo: all’epoca era quasi impensabile destrutturarmi. Mi sono sentito spinto in avanti, all’improvviso, non sapevo se sarei finito in acqua o su una roccia. Ma quando ho visto il film ho capito una cosa importante: non sapevo di avere quell’uomo dentro di me, fino a quel momento. Lì è iniziata una nuova maturità, forse Pedro non se n’era ancora accorto.
Dove la porta l’ambizione, adesso? Sono diventato attore grazie al teatro, e ho scoperto il modo migliore per rovinarmi romanticamente: ne ho comprato uno a Malaga, in realtà sono due. Il primo ha 1.000 posti, il secondo è inserito in una scuola di recitazione che si chiama Esaem, in cui gli attori imparano a recitare, danzare, suonare. La scuola ha 600 studenti, il teatro configurabile ne tiene 300. È un progetto molto ambizioso senza nessun finanziamento pubblico, un’organizzazione culturale e teatrale oltre che un centro di produzione. Malaga palpita cultura, e produrremo spettacoli che faranno il giro del mondo. Tutta la mia forza è lì, adesso, voglio essere circondato da gente giovane e dare quello che non ho mai avuto io, quando ho iniziato.