KAMCHATKA MON AMOUR
L’ultima impresa di Gregoretti: 500 chilometri di cammino in 19 giorni a 30 gradi sotto zero
«Oltre che nel Risiko, avete mai sentito parlare della Kamchatka? Visto qualche fotografia? Io non ne sapevo niente, era una zona bianca su una cartina. Non esistevano dati di esplorazioni precedenti, libri e nemmeno racconti. Il colpo di fulmine è accaduto così, pensando al silenzio che avrei potuto ascoltare». Stefano Gregoretti, 45 anni, atleta endurance, ex triatleta, ironman e ultrarunner, vive ogni esplorazione come una storia d’amore. Prima la fase di studio e corteggiamento, poi il graduale innamoramento e l’idealizzazione che cresce con il desiderio. Un anno di preparazione attraverso le immagini rubate a Google Earth, lo studio del percorso, la creazione del progetto e poi, finalmente, l’esplorazione. Così è stato per l’artico, la Patagonia, la Namibia e lo scorso febbraio per la Kamchatka.
Situata nella Russia orientale, tra il Mare di Okhotsk a ovest e l’oceano Pacifico e il Mare di Bering a est, è un luogo impervio che insieme a Ray Zahab – canadese ultrarunner detentore di diversi record di traversata in giro per il mondo – Stefano ha deciso di esplorare in autosufficienza, a temperature tra i 20° e i 40° sotto zero. «Nella slitta che trainavamo c’erano riserve di cibo per affrontare 500 km di traversata, una stufa d’alluminio che funzionava a legna, qualche ricambio, la tenda e alcuni strumenti di navigazione. E in testa un progetto». Come in ogni storia d’amore, però, quando l’idealizzazione raggiunge il piano del quotidiano bisogna fare conti differenti. Così è stato con questa terra lontana che fin da subito ha mostrato di giocare mosse imprevedibili.
«Già al secondo giorno avevo capito che qualcosa non andava e che aveva a che fare con i corsi d’acqua», racconta Stefano. «Nonostante le temperature rigide, non si erano completamente ghiacciati. Probabilmente il freddo intenso ha ghiacciato le superfici dei fiumi, poi la temperatura è aumentata e ha nevicato, formando una coltre di neve che ha fatto da isolante con l’acqua. Che, sotto, ha continuato a scorrere senza ghiacciarsi completamente. Durante il nostro viaggio, sono caduto in acqua quattro volte. E quando sei a -30°, non è semplice far asciugare i vestiti». In questi casi bisogna reinventarsi tutto da capo, lasciar perdere il progetto sulla carta e andare in esplorazione vera, muoversi per sette chilometri nelle diverse direzioni alla ricerca della via migliore, per avanzarne di uno soltanto. «Abbiamo imparato a osservare tutto. La mia laurea in scienze agrarie mi ha aiutato a studiare il territorio: se c’erano pioppi, eravamo troppo vicini a corsi d’acqua. Meglio cercare le betulle, che crescono più lontane. Giorno dopo giorno, speri sempre che la situazione migliori e ogni tanto ti avvilisci vivendo un alternarsi continuo di alti
e bassi». Poi la barriera: a 100 km dall’arrivo prefissato, dopo 19 giorni di marcia, il fiume Zhupanova non ha concesso il suo benestare per andare oltre. La pellicola di ghiaccio era troppo sottile per consentire l’attraversamento. Qualche tentativo alla ricerca di un percorso alternativo, l’incontro con alcuni cacciatori che si dirigevano a ovest, perché a est non si riusciva ad andare, e poi la conferma da parte del team di supporto: impossibile procedere.
«A un certo punto bisogna accettare quello che ci accade, è inutile che mi arrabbi se i fiumi non sono ghiacciati. Quella è la situazione, sono le carte in tavola in un gioco dove hai a che fare con la natura, il miglior baro del mondo». L’accento romagnolo di Stefano non nasconde la fierezza e insieme la reale accettazione di riconoscersi fallibili di fronte a ciò che non si può prevedere. «Se sfidi la natura, sai benissimo di poter perdere. Ma non si tratta mai di sconfitta, perché si impara sempre. Per me, anzi, è stata una vittoria: per la prima volta non mi sono sentito un atleta e ho dovuto riparametrarmi. Non si è trattato di una performance, ma di un’esplorazione che mi ha catapultato nell’ottocento quando si avanzava usando solo i sensi, il sole, le tracce».
Diciannove giorni di marcia in mezzo alla neve e pochi segni umani, a colazione un caffè e olio di cocco, la sera zuppa di miso e frutta secca. «Sa cosa abbiamo fatto quando abbiamo deciso di fermare la spedizione? Abbiamo mangiato tutto quello che avanzava. È stato un momento di festa, almeno per i nostri stomaci. Ci siamo davvero abbuffati perché la sensazione di fame non ci aveva mai abbandonati». E così, dopo averla vissuta, la storia d’amore giunge al suo epilogo, lasciando ricordi e passione, qualche traccia di nostalgia e la voglia di innamorarsi ancora una volta, di un nuovo progetto. A suo tempo, ovviamente. «Tutti mi chiedono cosa mi spinga a intraprendere questi viaggi. Penso invece che bisognerebbe pensare a cos’è che attrae gli esploratori, da Bonatti a Messner, fino a Manolo. Penso sia un po’ come quello che accadde a Ulisse, il desiderio di scoprire ciò che non si conosce, valicare le proprie personali Colonne d’ercole e alzare l’asticella per potersi sentire vivi».