Silvia Venturini Fendi, direttore creativo uomo, bambino e accessori donna del brand, su una seduta della collezione Back Home FENDI CASA
Silvia Venturini Fendi è seduta su uno dei divani della capsule Back Home nata dalla collaborazione con la designer Cristina Celestino, pezzi che coniugano arredamento, moda e arte. Addosso, una giacca di pelle che indossa come un’armatura. L’impressione è che le torni utile anche per tenere nascosta un’altra versione di sé, quella più giocosa, che ha deciso di non mostrare in pubblico. Di preservarla. Per la sua (grande) famiglia.
Che rapporto c’è tra moda e arte? Dialogano. Anche se sono molto diverse. La creatività nella moda deve rispettare certe funzionalità che nell’arte non necessitano di essere prese in considerazione. La moda ha più regole, più vincoli.
Lei è una collezionista?
No. Il collezionismo è quasi una professione. Richiede molto tempo a disposizione. Che io non ho. La mia collezione personale comprende quello che mi basta per riempire le pareti di casa, scelgo ciò che mi piace, seguo il mio istinto, la pancia. Non tengo l’arte nei caveau. Se avesse più tempo libero, che cosa le piacerebbe fare?
Per cominciare, vorrei pensare a quello che mi piacerebbe fare.
Proviamoci adesso.
Sono curiosa di tutto: mi piacciono l’arte, la moda, il design, l’architettura. Probabilmente se avessi più tempo sarei una “turista completa”, frequenterei musei, gallerie d’arte, ma anche Paesi, città, viaggerei.
Qual è l’ambiente della casa che lei ama particolarmente?
Mi piace molto stare sdraiata sui miei divani. Apprezzo la comodità. Da bambina sono vissuta in una casa arredata con pezzi di arredamento antichi, importanti. Un giorno chiesi a mia madre se potevamo cambiare le poltrone del salotto dove noi bambine giocavamo e guardavamo la tv. Erano fatte di legno, in seguito scoprii che erano di Alvar Aalto.«assolutamente no. Anzi, potete sedervici ma senza muovervi troppo». I poster che all’epoca i ragazzi della mia età attaccavano alle pareti delle loro camere io potevo appenderli sono nell’armadio.
E che poster aveva, dentro l’armadio? Me ne ricordo uno in particolare, di Rod Stewart. Ma non mi lamento, mia madre mi ha sempre insegnato che l’estetica è sostanza. E rispetto: una sedia non è solo un oggetto, c’è qualcuno che l’ha ideata.
Per i vestiti le regole sono state altrettanto ferree? Erano la parte più importante. Ad agosto con le mie sorelle andavamo in vacanza al mare. Mamma lavorava e con noi non trascorreva tanto tempo, per lo più stavamo con la tata. Un giorno, una signora in un negozio le disse: «Che peccato che queste bambine così carine siano orfane». «Orfane?». «Be’, tutte vestite di nero...». «Ma, no, è che la loro mamma lavora nella moda».
Lei non ha cresciuto i suoi figli allo stesso modo, vero?
Sui divani potevano saltare. Con una certa attenzione, però.
In questa capsule ci sono molti riferimenti a Karl Lagerfeld, che ha collaborato con la sua famiglia per oltre cinquant’anni. Il suo primo ricordo legato a lui?
Non saprei dire quando l’ho conosciuto ma, da piccola, capivo che Karl stava per arrivare a Roma perché mia madre non aveva tempo per nessun altro. Pensai: «Se è così importante per lei, lo diventerà anche per me». Casa vostra è stata frequentata da molti artisti, attori, registi...
Ricordo Federico Fellini, Luchino Visconti,
Mauro Bolognini. Durante le feste, o in occasione dei compleanni, ci si riuniva a casa della nonna, si tendeva un lenzuolo bianco sulla parete e si proiettava un film. I titoli erano sempre scelti sulla base di un pubblico femminile, e i miei cugini erano scocciati di dover vedere film come Il Gattopardo o Tutti insieme appassionatamente.
Lei ha prodotto un paio di film di Luca Guadagnino...
Io sono l’amore e Suspiria. Ma prima ancora lavorammo insieme a due cortometraggi. Avevo deciso di non sfilare, ma di presentare le collezioni in quel modo. Da lì nacque l’idea di fondare insieme una casa di produzione. Il cinema però è una macchina molto complessa, con tempi lunghi. Io sono abituata alla moda, dove per vedere un’idea realizzata basta un secondo.
Da quando ha cominciato a oggi, però, sono cambiate tante cose. Che cosa le piace di più rispetto a una volta? E che cosa rimpiange?
Rimpianti non ne ho, di nessun tipo. Mi piace il cambiamento e, attraverso la moda, mi piace leggere l’evoluzione della società. E mi piace anche aprirmi alle collaborazioni, con artisti e non solo. Nessuno sta più chiuso nel proprio mondo e si andrà sempre di più verso la condivisione, la contaminazione. La campagna di quest’anno ha avuto come guest artist Nico Vascellari. E sarà sempre lui a firmare la prossima.
Vascellari è anche il compagno di sua figlia Delfina.
Sì, fa parte della famiglia. Do spazio alla mia gang. E chiedo sempre il parere di tutti quelli che lavorano con me. Non sono dittatoriale, ma inclusiva. Me lo ha insegnato Karl. All’ultima collezione uomo avete collaborato. Al di là del lavoro, quanto le manca?
Moltissimo (Le si incrina la voce, fa un gesto come a dire: «Non posso dire altro», ndr). Non è curioso che Karl Lagerfeld, che creava in un mondo in evoluzione continua, avesse deciso di apparire sempre identico a se stesso?
Aveva una grande personalità, non ha mai seguito le tendenze, ma quello che faceva bene a lui. Era un uomo molto rigoroso. Un grande lavoratore, ogni disegno che usciva era fatto da lui, con le sue mani.
E lei è una donna rigorosa?
Sì, abbastanza. Sono abituata alla disciplina del lavoro. Ho cercato di deviare, ma solo nella vita privata. Lì sono più incasinata. Un po’ di scombussolamento tre figli lo portano di certo. E adesso sono arrivati i nipoti.
Cinque. Sono stata una nonna per caso, perché la prima nipotina è arrivata che ero ancora giovane. Adesso, invece, sono una nonna vera. La più grande ha 12 anni, i più piccoli un anno.
I gemelli...
Due maschi. Un bel colpo! Non ce l’aspettavamo proprio. Abbiamo sempre sostenuto di essere una famiglia matriarcale e, invece, adesso ci ritroviamo con più maschi che femmine. Mi diverto moltissimo con i miei nipoti, e a loro piace stare con me. Abbiamo una linea per bambini e spesso sono proprio loro a ispirarmi nuove idee. E poi mi regalano un senso di libertà, mi piace vedere come giocano, mi piace immaginare come saranno da grandi.
È vero che quando lascerà il lavoro le piacerebbe trasferirsi in campagna a dare da mangiare alle galline?
Più precisamente, a fare una collezione di galline. È da un po’ che ci provo, ma ogni volta la volpe se le mangia.