Massimo De Carlo, milanese, 61 anni. Semplicemente: il più grande gallerista italiano, tra i più influenti a livello internazionale
Per obbedienza ha studiato da farmacista. Ma avrebbe voluto essere produttore musicale. MASSIMO DE CARLO è diventato l’obi-wan Kenobi dei galleristi. Con un’idea innovativa dello spazio (espositivo). E una forza: «L’emotività nell’arte è una cosa da dilettanti»
Non è figlio d’arte, ma semmai un fratello per molti artisti. Vive e lavora a Milano, ma ha un raggio d’azione che abbraccia Asia-america-europa. Voleva fare il produttore musicale e invece è il Numero Uno dei galleristi italiani e tra i più influenti al mondo. Si chiama Massimo De Carlo ed è uno di quei personaggi che dietro le quinte scrivono la storia dell’arte, ma non vogliono mai che qualcuno scriva la propria. È un’occasione eccezionale, dunque, quella di convincerlo a parlare non solo del business ma del businessman: vita, amori ed errori di un self-made man in quel mondo così particolare e misterioso che circonda la creatività e il mercato, il pubblico e il collezionismo, le istituzioni museali e le potenti fondazioni private. Un grande circo di cui la vecchia galleria è ancora il centro e il cuore.
De Carlo, poi, di gallerie ne ha ben quattro: una a Hong Kong all’interno del Pedder Building; una a Londra che occupa tre piani di una palazzina chic a Mayfair; e ben due nuovi spazi a Milano.
Rami di un’impresa strutturata come una vera e propria azienda, con un sistema di governance interno e figure specializzate, in un quartier generale che dalla periferica via Ventura ha appena traslocato in un appartamen
to degli Anni 30 in viale Lombardia, un’opera magistrale dell’architetto Piero Portaluppi, recuperata alla sua epoca fin nei minimi particolari e che insieme all’altra, sontuosa e barocca sede di palazzo Belgioioso segna per De Carlo il definitivo addio ai grandi loft, ai neon e al bianco chimico del white cube. «Tutte cose che hanno fatto il loro tempo», ci dice l’uomo che ha accettato di raccontare in queste pagine tanto il futuro della galleria, quanto storia e passato del gallerista. Cominciamo dall’inizio, signor De Carlo. La sua nascita, la sua famiglia, i suoi studi…
Sono nato il 31-1-1958. Segno zodiacale: Acquario. Famiglia di piccola borghesia italiana dalle buone e solide ambizioni, tra le quali un “figlio dottore”. Poi, un collegio cattolico dove insegnavano preti reietti, gesuiti sposati e pensatori a rischio eretico e infine, in obbedienza ai desideri materni e paterni, una laurea in farmacia.
Voleva davvero fare il farmacista?
Per niente. Come ho detto, obbedivo. Non sono mai stato un rivoluzionario: innovatore sì, ribelle no. La mia aspirazione era fare il produttore di musica d’avanguardia, lavorare al fianco dei musicisti. Dai 19 ai 26 anni sono stato direttore artistico di una piccola società, minipromoter di gruppi, organizzatore di concerti e produttore di musica ad alto livello. Forse la galleria nasce sulle basi di un lavoro che già facevo.
L’arte, invece, quando è arrivata nella sua vita?
Per la mia maturità, nel 1977, mia mamma mi regala un biglietto per New York dove sono ospite di un grande musicista: Muhal Richard Abrams, compositore afroamericano, e con lui vado per mostre, visito il MOMA, vedo Guernica in deposito all’epoca perché Picasso non voleva che rientrasse in Spagna fino alla morte del Caudillo. Fu allora che comprai il primo libro di arte contemporanea: Interviste a Francis Bacon di David Sylvester. Non l’ho mai letto perché non sapevo l’inglese, ma guardavo le figure. Forse tutto è partito da lì.
Comprese le leggende. Si narra che lei, dopo i turni di notte in farmacia, la mattina si trasferisse nella galleria di Piero Cavellini a imparare il mestiere. E un paio d’anni più tardi nel suo spazio di via Panfilo Castaldi, dove qualcuno giura di averla vista vagare in pigiama... Può essere vero. Lavoravo diciannove ore al giorno, ne dormivo appena due, ma mi sosteneva il fisico e non l’ho mai percepito come un sacrificio. Non fu niente di drammatico, ma ero costretto a lavorare per mantenere me e la galleria, che avevo aperto nel 1987. Uno spazio dai soffitti altissimi e pareti bianche, con un pavimento in marmo nero che ai tempi sembrò un’eresia, ma che son sicuro entrerà nella storia per l’epocale installazione di Cady Noland. Però non si guadagnava una lira.
Perché non lasciava perdere allora? Perché mi piaceva. Credevo nel mio lavoro. E nelle mie relazioni con gli artisti. Erano gli anni
cui la mia ostinazione e la mia voglia di non fermarmi mai si traducevano anche nel fatto che rimanevo almeno due volte al mese per strada senza benzina. Vedevo la lucina della riserva e mi dicevo: «Vado avanti ancora un po’, ce la faccio». E invece restavo a secco. Nella galleria, invece, lei non è mai rimasto a secco.
Un sacco di volte invece! Lo sapeva bene il mio padrone di casa quando mi telefonava: «De Carlo, ma qui ci sono quattro mesi da pagare! Che facciamo?». Fortunatamente ho potuto contare sul sostegno degli artisti, ho sempre avuto un rapporto empatico col fattore creativo e con chi lo esprimeva. Questa è la differenza fra un gallerista e un mercante: il mercante si relaziona a qualcosa di morto, di inanimato, io mi confrontavo con passioni, insicurezze, nevrosi, entusiasmi e poi i miei mentori sono stati i musicisti, che mi hanno insegnato ad avere fiducia nelle arti.
Quali furono gli artisti della prima ora? All’epoca accanto a me c’erano già John Armleder, Olivier Mosset, Thomas Grünfeld, mentre Cattelan lo incontrai nel 1989. Nel 1988, invece, decisi di fare una retrospettiva di Alighiero Boetti, la prima in una galleria privata. Andai a Roma e lui fu affettuoso, entusiasta, anche se in realtà era solo interessato a vendermi qualcosa. Prima di andar via mi mise in mano una decina di suoi ricamini dicendo: «Prendili, portali con te». «Non posso pagarli», risposi. «Non ti preoccupare, quando li vendi ne parliamo», mi rassicurò. Invece due giorni dopo mi ha chiamato la sua gallerista per chiedermi i soldi, trattandomi malissimo. S’impara anche da questo.
A cosa attribuisce il successo che da quei tempi incerti l’ha portata a essere uno dei protagonisti del sistema arte? All’ambizione, forse. All’abitudine al lavoro duro. All’insoddisfazione costante che alla fine mi porta sempre a dovermi confrontare con qualcosa di nuovo.
Perché chiudere l’enorme spazio ex industriale in via Ventura per tornare all’appartamento borghese da format Anni 60?
Ho percepito il fastidio e l’irrigidimento di una pratica espositiva che dura da cinquant’anni. Il white cube ha esaurito le sue funzioni, insieme all’idea che l’arte debba andare in luoghi emarginati per risanarli. Ma l’arte come strumento di riscatto è cosa superata, proprio perché lei stessa non è più un residuo marginale della società, ma è al centro di interessi che abbracciano ragioni di mercato, il lifestyle di alcune fasce sociali, una sorta di star system che circonda gli artisti, riti e cultura dell’upperclass.
È un vantaggio o uno svantaggio? Dipende: se ci si vuole considerare parte di una élite e portavoce di un pensiero, oppure fare il proprio lavoro cercando delle opportunità senza necessariamente rinunciare a se stessi. Io sono snob e snob morirò, ma non significa che non voglio cercare di capire quello che la contemporaneità sta offrendo al mio lavoro. Non penso che sia uno svanin taggio quello che è successo in questi trent’anni