ARITMETICA E DIVERSITË
Kiss My Genders racconta 50 anni di identità sessuali
Gender, sessualità fluida e corpi che esprimono una nuova bellezza, pronta alla lotta se serve, degna di essere guardata come opera d’arte: Kiss My Genders è la grande mostra dell’estate, a Londra, della Hayward Gallery guidata da Ralph Rugoff, impegnato in questi mesi come direttore della Biennale d’arte di Venezia. Cento le opere scelte: di artisti internazionali, che hanno lavorato sul tema negli ultimi 50 anni. «Personalmente trovo che la moltiplicazione delle identità sessuali non sia una questione controversa, ma liberatoria: dà a tutti noi nuove possibilità di stare assieme», dice il curatore della mostra, Vincent Honoré.
Come si affronta un tema così complesso pensando a una mostra?
Misurandosi con gli attivisti. Con le loro lotte, femministe e omosessuali hanno già sdoganato l’identità sessuale come tema dell’arte contemporanea, ma adesso c’è una generazione che usa il gender come strumento per creare opere che scuotono la coscienza.
Che cosa stanno insegnando i vari gender all’arte? Molti degli artisti in mostra, da Martine Gutierrez a Juliana Huxtable, a Jenkin van Zyl, vivono nella perenne reinvenzione di se stessi. Le variabili delle identità sessuali dimostrano all’arte che una forma non è mai data per sempre, ma si evolve, fluida. Viceversa, come si vede nelle opere di Pierre Molinier, Jimmy Desana o Chitra Ganesh, l’arte mostra che i corpi sono opere, reinventabili all’infinito.
Cos’è cambiato negli ultimi 50 anni? Che oggi persone di genere non binario, genderqueer, genderfluid e agender non sono più oggetto di studi da una prospettiva patologica, ma soggetti che decidono come trasmettere e far circolare la propria immagine. Nessuno dei nostri artisti proporrebbe una scena alla quale non appartiene: alla Hayward vedrete “attivisti visivi” che lottano per il rispetto a cui hanno diritto, anche nei Paesi occidentali.
Che spazio avrà la discriminazione? Tutte le opere presenti hanno una connotazione politica: fortissime quelle del Memorial
Dress di Hunter Reynolds, su cui sono stampati i nomi dei 20 mila morti per Aids e malattie correlate, o degli scatti del sudafricano Zanele Muholi, che mostra ciò che resta dei corpi delle vittime dei crimini d’odio, il cui sesso risulta ormai impossibile da decifrare.