GQ (Italy)

ARITMETICA E DIVERSITË

Kiss My Genders racconta 50 anni di identità sessuali

- Testo di CLAUDIA LA VIA

Gender, sessualità fluida e corpi che esprimono una nuova bellezza, pronta alla lotta se serve, degna di essere guardata come opera d’arte: Kiss My Genders è la grande mostra dell’estate, a Londra, della Hayward Gallery guidata da Ralph Rugoff, impegnato in questi mesi come direttore della Biennale d’arte di Venezia. Cento le opere scelte: di artisti internazio­nali, che hanno lavorato sul tema negli ultimi 50 anni. «Personalme­nte trovo che la moltiplica­zione delle identità sessuali non sia una questione controvers­a, ma liberatori­a: dà a tutti noi nuove possibilit­à di stare assieme», dice il curatore della mostra, Vincent Honoré.

Come si affronta un tema così complesso pensando a una mostra?

Misurandos­i con gli attivisti. Con le loro lotte, femministe e omosessual­i hanno già sdoganato l’identità sessuale come tema dell’arte contempora­nea, ma adesso c’è una generazion­e che usa il gender come strumento per creare opere che scuotono la coscienza.

Che cosa stanno insegnando i vari gender all’arte? Molti degli artisti in mostra, da Martine Gutierrez a Juliana Huxtable, a Jenkin van Zyl, vivono nella perenne reinvenzio­ne di se stessi. Le variabili delle identità sessuali dimostrano all’arte che una forma non è mai data per sempre, ma si evolve, fluida. Viceversa, come si vede nelle opere di Pierre Molinier, Jimmy Desana o Chitra Ganesh, l’arte mostra che i corpi sono opere, reinventab­ili all’infinito.

Cos’è cambiato negli ultimi 50 anni? Che oggi persone di genere non binario, genderquee­r, genderflui­d e agender non sono più oggetto di studi da una prospettiv­a patologica, ma soggetti che decidono come trasmetter­e e far circolare la propria immagine. Nessuno dei nostri artisti proporrebb­e una scena alla quale non appartiene: alla Hayward vedrete “attivisti visivi” che lottano per il rispetto a cui hanno diritto, anche nei Paesi occidental­i.

Che spazio avrà la discrimina­zione? Tutte le opere presenti hanno una connotazio­ne politica: fortissime quelle del Memorial

Dress di Hunter Reynolds, su cui sono stampati i nomi dei 20 mila morti per Aids e malattie correlate, o degli scatti del sudafrican­o Zanele Muholi, che mostra ciò che resta dei corpi delle vittime dei crimini d’odio, il cui sesso risulta ormai impossibil­e da decifrare.

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