LA RETE GLOBALE SALVERÀ L’IMPRESA
DALL’EXPORT TRADIZIONALE ALLA GLOBAL VALUE CHAIN: ECCO COME IL NUOVO BUSINESS HA SOSTENUTO L’EUROPA NEGLI ANNI DELLA CRISI E ORA PUÒ REGGERE PERFINO ALLA GUERRA DEI DAZI
Uno degli esempi più lampanti del mondo globalizzato in cui viviamo è il fatto che possiamo ordinare via computer beni prodotti in diverse parti del mondo, e farceli recapitare senza particolari vincoli o restrizioni (basta pagare on line a un’entità collocata da qualche parte nel globo) sulla porta di casa. Ma siamo sicuri di non essere già passati da esperienze simili?
Il celebre economista John Maynard Keynes, descrivendo lo stile di vita di un ricco abitante di Londra nel 1913, notava come fosse in grado di ordinare per telefono (da poco inventato) qualunque prodotto esotico proveniente dalle colonie britanniche, e di averlo consegnato senza particolari restrizioni a casa entro pochi giorni. Insomma, una Amazon ante litteram. Questo ci fa capire come la globalizzazione, cioè la libera circolazione di beni, servizi e capitali attraverso i confini nazionali (le persone sono un caso diverso) non appartenga necessariamente solo al tempo presente, ma sia già
stata vissuta in passato. Quello che differenzia i due momenti storici è tuttavia l’intensità del processo. Agli inizi del XX secolo il commercio internazionale (export) pesava per circa il 15% del Pil mondiale e riguardava sostanzialmente l’impero britannico, mentre oggi questo numero è fondamentalmente raddoppiato e interessa tutti i Paesi del mondo.
Negli ultimi due decenni infatti, e anche tenendo conto della crisi, il commercio mondiale è cresciuto in media due volte più velocemente del Pil, pesando oggi per circa il 30% dello stesso. A questo fenomeno, contrariamente all’esperienza del XX secolo, si sono inoltre affiancati gli Investimenti diretti esteri (Ide) delle aziende multinazionali che vanno a produrre in diverse parti del mondo. Lo stock complessivo di Ide negli ultimi due decenni è più che decuplicato (da 2.000 a 22.000 miliardi di dollari). Attraverso questo processo la produzione si è frammentata internazionalmente, con flussi di commercio di beni intermedi tra Paesi modulati in una struttura di rete coordinata (prevalentemente) dalle imprese multinazionali, nell’ambito delle
cosiddette catene globali del valore (o “Global Value Chains”, Gvc).
Di conseguenza a partire dal 1995, grazie al sistema di regole e tutele creato dall’organizzazione Mondiale del Commercio con la liberalizzazione progressiva di commercio e regole di investimento, la modalità di produzione delle nostre aziende è cambiata profondamente. Oggi vediamo sempre meno, nei dati, il caso dell’azienda del signor Rossi che produce un bene finito in Italia e lo esporta negli Stati Uniti, dove l’azienda del signor Smith lo importa e lo vende. Mentre è sempre più probabile osservare (senza fare nomi specifici) un’automobile “tedesca” di lusso che ha la carrozzeria prodotta nella sua fabbrica in Repubblica Slovacca, i freni prodotti in Germania ma su licenza italiana (importando quindi un servizio), la scatola del cambio assemblata negli Stati Uniti con input messicani, e le componenti elettroniche importate dall’asia. Certo, l’autovettura continua a essere assemblata in Germania, ma quanto di tedesco c’è davvero in questo prodotto? In effetti, si stima che oggi l’80% del commercio globale (in termini di esportazioni) sia in qualche modo connesso a transazioni in cui almeno una delle controparti è un’impresa multinazionale che organizza una Gvc. Si stima inoltre che circa un terzo, in media, delle transazioni commerciali sia in realtà uno scambio di beni tra imprese dello stesso gruppo multinazionale, situate in diversi Paesi.
Cosa abbiamo guadagnato complessivamente da questo cambiamento? La nuova struttura produttiva globale ha consentito all’economia mondiale di crescere di oltre il 4 per cento l’anno, facendo emergere centinaia di milioni di persone dalla soglia di povertà nei Paesi di nuova industrializzazione, e consentendo loro di iniziare a comprare beni e servizi prodotti dalle nostre aziende. Dati alla mano, questa è stata e continua a essere anche l’ancora di salvezza dell’economia italiana dagli anni della crisi: con consumi e investimenti in contrazione, l’unico motore di crescita del nostro Paese dal 2010 sono state le esportazioni.
Certo, l’italia potrebbe fare ancora meglio all’interno delle catene globali del valore. I dati mostrano infatti che la partecipazione di aziende italiane alle Gvc è alta in termini di numerosità (tante imprese esportano), ma è relativamente bassa in termini di sofisticazione. Infatti le imprese italiane tendono a partecipare alla modalità meno avanzata di integrazione produttiva internazionale, ossia la semplice esportazione; inoltre tendono a esportare prodotti intermedi a relativo basso valore aggiunto, piuttosto “lontani” dalle ultime fasi di produzione più vicine al mercato, in cui invece sono specializzate le imprese tedesche. In altri termini, quello che oggi nel mondo passa sul mercato di sbocco come esportazione a marchio tedesco ha alle spalle anche tanta componentistica italiana, che delle imprese tedesche agisce come fornitore. La ragione di questo posizionamento relativamente sfavorevole è da ricercarsi nell’eccessivo “nanismo” della nostra struttura produttiva, in cui mancano i grandi gruppi multinazionali in grado di organizzare con ampi investimenti l’intera catena produttiva su scala globale. Inoltre, come spesso accade, il dato medio italiano nasconde la classica divisione tra Nord e Sud del Paese, in cui oltre un terzo delle (già poche) imprese presenti non è impegnato in alcuna attività internazionale, dipendendo esclusivamente dalla scarsa domanda interna per la sua sopravvivenza. Per quelle (ancora troppo poche, e tipicamente del Nord) imprese italiane che invece partecipano in maniera attiva alle Gvc le notizie sono buone: queste aziende oggi hanno recuperato produttività dopo la crisi, e sono ampiamente competitive su scala internazionale. Evidentemente, tanto più il sistema Paese crea le condizioni di fondo in termini di sistema giuridico, educativo, infrastrutturale e finanziario affinché queste imprese riescano a crescere, e altre a entrare nelle Gvc, tanto maggiore saranno i benefici che ne deriveranno in termini di crescita economica.
Altre strade di recupero di competitività purtroppo non esistono. Le ricette legate al passato, come le svalutazioni competitive, di cui tanto si sente (purtroppo) ancora parlare nel nostro Paese, sono infatti inefficaci in questo contesto. Certo l’idea teorica è ancora attraente: se io riuscissi a svalutare la mia moneta, i miei prodotti costerebbero meno all’estero, dunque ne venderei di più. Per capire come la presenza di catene globali del valore attenui in realtà di molto i benefici teorici delle svalutazioni competitive, prendiamo un altro esempio: lo spazzolino da denti elettrico prodotto da una nota multinazionale europea è oggi assemblato con componenti che provengono da siti
produttivi localizzati in tre continenti: Asia, Europa, Stati Uniti. Le componenti di questo prodotto sono denominate in dieci valute diverse. Che ruolo avrebbe il tasso di cambio dell’euro, nel determinare da solo la competitività di tale prodotto? Il prodotto in questione è inoltre assemblato fuori dall’europa, al fine di produrre il più vicino possibile al mercato di riferimento, come accade peraltro per la gran parte della produzione di automobili tedesche vendute in Asia. Dunque, cosa c’entra l’euro con il successo di queste aziende? In aggiunta, se al giorno d’oggi la competitività passa per la capacità di importare parti di produzione dall’estero, per mettere poi valore aggiunto locale, con la svalutazione finirei comunque per pagare di più le importazioni. L’esempio ci aiuta dunque a capire che in un sistema di Global Value Chains come quello di oggi le variabili che determinano la competitività non sono più legate al prezzo come in passato. La relazione fra tasso di cambio e competitività è oggi molto attenuata, quasi scomparsa, mentre variabili quali efficienza, innovazione e capacità d’integrazione dell’azienda nelle reti di produzione internazionale sono molto più importanti. Non basta costare di meno per essere automaticamente competitivi, e in questo senso i ritardi strutturali dell’economia italiana – con un sistema di imprese ancora in parte piccolo, sottocapitalizzato e meno efficiente rispetto ai concorrenti internazionali – resterebbero immutati.
Sullo sfondo resta evidentemente la domanda di quanto sia persistente questa tipologia organizzativa della produzione, che vive di libero commercio, alla luce delle guerre commerciali in atto, per esempio tra Stati Uniti e Cina. In realtà, il modello è più stabile di quanto si possa pensare. Vediamo perché con un altro esempio noto a tutti: l’iphone. Sebbene i numeri cambino leggermente da modello a modello, si stima che dei circa 193 dollari di prezzo di produzione di ogni iphone (assemblati da Foxconn, fabbrica taiwanese localizzata nel Sud della Cina), solo 6,5 dollari si riferiscono a fattori di produzione cinese (il costo del lavoro per l’assemblaggio), mentre il resto proviene da input coreani (circa 80 dollari), tedeschi (16 dollari), francesi (3 dollari), dagli stessi Stati Uniti (24 dollari), e così via. Da dove viene allora l’iphone? Dalla Cina? Dagli Stati Uniti? La vera risposta è: «Dal mondo», o meglio dalla Global Value Chain organizzata da Apple su scala mondiale. Cosa succederebbe se gli Stati Uniti mettessero una tariffa sulla importazione di iphone dalla Cina (cosa che al momento si sono ben guardati dal fare)? In realtà, a pagarne il prezzo più alto sarebbero le aziende della Corea del Sud, poi gli stessi produttori americani che forniscono input alla Apple, poi le aziende tedesche, e così via. I cinesi sarebbero in realtà abbastanza in fondo alla lista, perché anche se l’iphone formalmente è esportato dalla Cina, di cinese ha molto poco. E questo si applica a migliaia di prodotti: formalmente sono esportati dalla Cina, ma di cinese possono in realtà avere molto poco. Ne consegue che nel mutato contesto globale le guerre commerciali tradizionali, come quella avviata da Trump, rischiano di avere vita breve. Infatti le tariffe, come dei missili impazziti, non solo rischiano di non colpire l’obiettivo cui sono destinati, ma anche di tornare indietro danneggiando o chi la tariffa l’ha imposta, o qualche suo fedele alleato. Dunque, oltre a un ritorno economico sicuramente negativo, è probabile che anche il ritorno politico del protezionismo sia oggi in realtà di breve durata. È allora abbastanza irrealistico pensare che la struttura produttiva globale, creata investendo diversi miliardi di dollari delle imprese multinazionali su scala globale, possa essere smantellata in breve tempo, o che si possa giocare una partita di competitività al di fuori di essa. Certo, guardando alle conseguenze per l’italia, se Trump imponesse dazi alle esportazioni di prodotti dall’europa probabilmente nel breve periodo alcune aziende italiane avrebbero difficoltà a esportare, non solo negli Usa ma anche in altri mercati (nella misura in cui parte del loro processo produttivo passa dagli Usa). Tuttavia, niente ci vieterebbe di vendere negli Stati Uniti le Vespa, oggi realizzate da Piaggio anche in Vietnam, o la Nutella, prodotta da Ferrero anche in Canada. Per non parlare della Jeep Cherokee, che la Fiat Chrysler fabbrica direttamente negli Stati Uniti. Benvenuti nel mondo globale.