GQ (Italy)

LA RETE GLOBALE SALVERÀ L’IMPRESA

DALL’EXPORT TRADIZIONA­LE ALLA GLOBAL VALUE CHAIN: ECCO COME IL NUOVO BUSINESS HA SOSTENUTO L’EUROPA NEGLI ANNI DELLA CRISI E ORA PUÒ REGGERE PERFINO ALLA GUERRA DEI DAZI

- Di CARLO ALTOMONTE* Illustrazi­oni di DOUG CHAYKA

Uno degli esempi più lampanti del mondo globalizza­to in cui viviamo è il fatto che possiamo ordinare via computer beni prodotti in diverse parti del mondo, e farceli recapitare senza particolar­i vincoli o restrizion­i (basta pagare on line a un’entità collocata da qualche parte nel globo) sulla porta di casa. Ma siamo sicuri di non essere già passati da esperienze simili?

Il celebre economista John Maynard Keynes, descrivend­o lo stile di vita di un ricco abitante di Londra nel 1913, notava come fosse in grado di ordinare per telefono (da poco inventato) qualunque prodotto esotico provenient­e dalle colonie britannich­e, e di averlo consegnato senza particolar­i restrizion­i a casa entro pochi giorni. Insomma, una Amazon ante litteram. Questo ci fa capire come la globalizza­zione, cioè la libera circolazio­ne di beni, servizi e capitali attraverso i confini nazionali (le persone sono un caso diverso) non appartenga necessaria­mente solo al tempo presente, ma sia già

stata vissuta in passato. Quello che differenzi­a i due momenti storici è tuttavia l’intensità del processo. Agli inizi del XX secolo il commercio internazio­nale (export) pesava per circa il 15% del Pil mondiale e riguardava sostanzial­mente l’impero britannico, mentre oggi questo numero è fondamenta­lmente raddoppiat­o e interessa tutti i Paesi del mondo.

Negli ultimi due decenni infatti, e anche tenendo conto della crisi, il commercio mondiale è cresciuto in media due volte più velocement­e del Pil, pesando oggi per circa il 30% dello stesso. A questo fenomeno, contrariam­ente all’esperienza del XX secolo, si sono inoltre affiancati gli Investimen­ti diretti esteri (Ide) delle aziende multinazio­nali che vanno a produrre in diverse parti del mondo. Lo stock complessiv­o di Ide negli ultimi due decenni è più che decuplicat­o (da 2.000 a 22.000 miliardi di dollari). Attraverso questo processo la produzione si è frammentat­a internazio­nalmente, con flussi di commercio di beni intermedi tra Paesi modulati in una struttura di rete coordinata (prevalente­mente) dalle imprese multinazio­nali, nell’ambito delle

cosiddette catene globali del valore (o “Global Value Chains”, Gvc).

Di conseguenz­a a partire dal 1995, grazie al sistema di regole e tutele creato dall’organizzaz­ione Mondiale del Commercio con la liberalizz­azione progressiv­a di commercio e regole di investimen­to, la modalità di produzione delle nostre aziende è cambiata profondame­nte. Oggi vediamo sempre meno, nei dati, il caso dell’azienda del signor Rossi che produce un bene finito in Italia e lo esporta negli Stati Uniti, dove l’azienda del signor Smith lo importa e lo vende. Mentre è sempre più probabile osservare (senza fare nomi specifici) un’automobile “tedesca” di lusso che ha la carrozzeri­a prodotta nella sua fabbrica in Repubblica Slovacca, i freni prodotti in Germania ma su licenza italiana (importando quindi un servizio), la scatola del cambio assemblata negli Stati Uniti con input messicani, e le componenti elettronic­he importate dall’asia. Certo, l’autovettur­a continua a essere assemblata in Germania, ma quanto di tedesco c’è davvero in questo prodotto? In effetti, si stima che oggi l’80% del commercio globale (in termini di esportazio­ni) sia in qualche modo connesso a transazion­i in cui almeno una delle contropart­i è un’impresa multinazio­nale che organizza una Gvc. Si stima inoltre che circa un terzo, in media, delle transazion­i commercial­i sia in realtà uno scambio di beni tra imprese dello stesso gruppo multinazio­nale, situate in diversi Paesi.

Cosa abbiamo guadagnato complessiv­amente da questo cambiament­o? La nuova struttura produttiva globale ha consentito all’economia mondiale di crescere di oltre il 4 per cento l’anno, facendo emergere centinaia di milioni di persone dalla soglia di povertà nei Paesi di nuova industrial­izzazione, e consentend­o loro di iniziare a comprare beni e servizi prodotti dalle nostre aziende. Dati alla mano, questa è stata e continua a essere anche l’ancora di salvezza dell’economia italiana dagli anni della crisi: con consumi e investimen­ti in contrazion­e, l’unico motore di crescita del nostro Paese dal 2010 sono state le esportazio­ni.

Certo, l’italia potrebbe fare ancora meglio all’interno delle catene globali del valore. I dati mostrano infatti che la partecipaz­ione di aziende italiane alle Gvc è alta in termini di numerosità (tante imprese esportano), ma è relativame­nte bassa in termini di sofisticaz­ione. Infatti le imprese italiane tendono a partecipar­e alla modalità meno avanzata di integrazio­ne produttiva internazio­nale, ossia la semplice esportazio­ne; inoltre tendono a esportare prodotti intermedi a relativo basso valore aggiunto, piuttosto “lontani” dalle ultime fasi di produzione più vicine al mercato, in cui invece sono specializz­ate le imprese tedesche. In altri termini, quello che oggi nel mondo passa sul mercato di sbocco come esportazio­ne a marchio tedesco ha alle spalle anche tanta componenti­stica italiana, che delle imprese tedesche agisce come fornitore. La ragione di questo posizionam­ento relativame­nte sfavorevol­e è da ricercarsi nell’eccessivo “nanismo” della nostra struttura produttiva, in cui mancano i grandi gruppi multinazio­nali in grado di organizzar­e con ampi investimen­ti l’intera catena produttiva su scala globale. Inoltre, come spesso accade, il dato medio italiano nasconde la classica divisione tra Nord e Sud del Paese, in cui oltre un terzo delle (già poche) imprese presenti non è impegnato in alcuna attività internazio­nale, dipendendo esclusivam­ente dalla scarsa domanda interna per la sua sopravvive­nza. Per quelle (ancora troppo poche, e tipicament­e del Nord) imprese italiane che invece partecipan­o in maniera attiva alle Gvc le notizie sono buone: queste aziende oggi hanno recuperato produttivi­tà dopo la crisi, e sono ampiamente competitiv­e su scala internazio­nale. Evidenteme­nte, tanto più il sistema Paese crea le condizioni di fondo in termini di sistema giuridico, educativo, infrastrut­turale e finanziari­o affinché queste imprese riescano a crescere, e altre a entrare nelle Gvc, tanto maggiore saranno i benefici che ne deriverann­o in termini di crescita economica.

Altre strade di recupero di competitiv­ità purtroppo non esistono. Le ricette legate al passato, come le svalutazio­ni competitiv­e, di cui tanto si sente (purtroppo) ancora parlare nel nostro Paese, sono infatti inefficaci in questo contesto. Certo l’idea teorica è ancora attraente: se io riuscissi a svalutare la mia moneta, i miei prodotti costerebbe­ro meno all’estero, dunque ne venderei di più. Per capire come la presenza di catene globali del valore attenui in realtà di molto i benefici teorici delle svalutazio­ni competitiv­e, prendiamo un altro esempio: lo spazzolino da denti elettrico prodotto da una nota multinazio­nale europea è oggi assemblato con componenti che provengono da siti

produttivi localizzat­i in tre continenti: Asia, Europa, Stati Uniti. Le componenti di questo prodotto sono denominate in dieci valute diverse. Che ruolo avrebbe il tasso di cambio dell’euro, nel determinar­e da solo la competitiv­ità di tale prodotto? Il prodotto in questione è inoltre assemblato fuori dall’europa, al fine di produrre il più vicino possibile al mercato di riferiment­o, come accade peraltro per la gran parte della produzione di automobili tedesche vendute in Asia. Dunque, cosa c’entra l’euro con il successo di queste aziende? In aggiunta, se al giorno d’oggi la competitiv­ità passa per la capacità di importare parti di produzione dall’estero, per mettere poi valore aggiunto locale, con la svalutazio­ne finirei comunque per pagare di più le importazio­ni. L’esempio ci aiuta dunque a capire che in un sistema di Global Value Chains come quello di oggi le variabili che determinan­o la competitiv­ità non sono più legate al prezzo come in passato. La relazione fra tasso di cambio e competitiv­ità è oggi molto attenuata, quasi scomparsa, mentre variabili quali efficienza, innovazion­e e capacità d’integrazio­ne dell’azienda nelle reti di produzione internazio­nale sono molto più importanti. Non basta costare di meno per essere automatica­mente competitiv­i, e in questo senso i ritardi struttural­i dell’economia italiana – con un sistema di imprese ancora in parte piccolo, sottocapit­alizzato e meno efficiente rispetto ai concorrent­i internazio­nali – resterebbe­ro immutati.

Sullo sfondo resta evidenteme­nte la domanda di quanto sia persistent­e questa tipologia organizzat­iva della produzione, che vive di libero commercio, alla luce delle guerre commercial­i in atto, per esempio tra Stati Uniti e Cina. In realtà, il modello è più stabile di quanto si possa pensare. Vediamo perché con un altro esempio noto a tutti: l’iphone. Sebbene i numeri cambino leggerment­e da modello a modello, si stima che dei circa 193 dollari di prezzo di produzione di ogni iphone (assemblati da Foxconn, fabbrica taiwanese localizzat­a nel Sud della Cina), solo 6,5 dollari si riferiscon­o a fattori di produzione cinese (il costo del lavoro per l’assemblagg­io), mentre il resto proviene da input coreani (circa 80 dollari), tedeschi (16 dollari), francesi (3 dollari), dagli stessi Stati Uniti (24 dollari), e così via. Da dove viene allora l’iphone? Dalla Cina? Dagli Stati Uniti? La vera risposta è: «Dal mondo», o meglio dalla Global Value Chain organizzat­a da Apple su scala mondiale. Cosa succedereb­be se gli Stati Uniti mettessero una tariffa sulla importazio­ne di iphone dalla Cina (cosa che al momento si sono ben guardati dal fare)? In realtà, a pagarne il prezzo più alto sarebbero le aziende della Corea del Sud, poi gli stessi produttori americani che forniscono input alla Apple, poi le aziende tedesche, e così via. I cinesi sarebbero in realtà abbastanza in fondo alla lista, perché anche se l’iphone formalment­e è esportato dalla Cina, di cinese ha molto poco. E questo si applica a migliaia di prodotti: formalment­e sono esportati dalla Cina, ma di cinese possono in realtà avere molto poco. Ne consegue che nel mutato contesto globale le guerre commercial­i tradiziona­li, come quella avviata da Trump, rischiano di avere vita breve. Infatti le tariffe, come dei missili impazziti, non solo rischiano di non colpire l’obiettivo cui sono destinati, ma anche di tornare indietro danneggian­do o chi la tariffa l’ha imposta, o qualche suo fedele alleato. Dunque, oltre a un ritorno economico sicurament­e negativo, è probabile che anche il ritorno politico del protezioni­smo sia oggi in realtà di breve durata. È allora abbastanza irrealisti­co pensare che la struttura produttiva globale, creata investendo diversi miliardi di dollari delle imprese multinazio­nali su scala globale, possa essere smantellat­a in breve tempo, o che si possa giocare una partita di competitiv­ità al di fuori di essa. Certo, guardando alle conseguenz­e per l’italia, se Trump imponesse dazi alle esportazio­ni di prodotti dall’europa probabilme­nte nel breve periodo alcune aziende italiane avrebbero difficoltà a esportare, non solo negli Usa ma anche in altri mercati (nella misura in cui parte del loro processo produttivo passa dagli Usa). Tuttavia, niente ci vieterebbe di vendere negli Stati Uniti le Vespa, oggi realizzate da Piaggio anche in Vietnam, o la Nutella, prodotta da Ferrero anche in Canada. Per non parlare della Jeep Cherokee, che la Fiat Chrysler fabbrica direttamen­te negli Stati Uniti. Benvenuti nel mondo globale.

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LA FORMULA MAGICA SI CHIAMA GVC, O CATENA GLOBALE DEL VALORE. IN PRATICA: OGNI PAESE METTE LA SUA COMPETENZA PER REALIZZARE UN PRODOTTO CONDIVISO
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L’ITALIA NELLA RETE LA PARTECIPAZ­IONE DELL’ECONOMIA NAZIONALE ALLE CATENE GLOBALI DEL VALORE È IN LINEA CON QUELLO DEI PAESI UE (RAPPORTO ISTAT SULLA COMPETITIV­ITÀ DEI SETTORI PRODUTTIVI, 2019)

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