GQ (Italy)

JOHN BOYEGA

Il nono capitolo di Star Wars è in arrivo. Con il suo primo eroe nero

- Testo di CLAUDIA CATALLI Foto di SEBASTIAN KIM

Ci voleva JOHN BOYEGA perché la saga di Star Wars guadagnass­e il suo primo eroe nero. E mentre il nono capitolo si avvicina, ecco spiegato come si diventa Finn: prendendo a schiaffi i bulli e ridendo molto. Perché ci sono temi di cui è sempre più urgente parlare

Una casa nuova di zecca. Non tanto come risarcimen­to per una vita poco privilegia­ta o come sfoggio per il successo ottenuto, ma più come un gesto d’amore. Per coronare il sogno di una vita: quello dei suoi genitori. L’ha comprata John Boyega, versione breve di quella registrata all’anagrafe − John Adedayo B. Adegboyega, 27 anni − diventato famoso con Finn, primo eroe nero della saga cinematogr­afica Star Wars. Il nuovo capitolo, Star Wars: L’ascesa di Skywalker di J.J. Abrams, sta arrivando: in sala dal 18 dicembre, sarà preceduto da The Mandaloria­n, serie in live action di Star Wars che debutterà negli Stati Uniti il 12 novembre su Disney+, e dal videogame Star Wars Jedi: Fallen Order.

Collana d’oro al collo, Boyega ride molto, facendosi sentire da lontano, e sembra non scendere mai dal palco. Ma dice: «Come on: non è più il tempo dei grandi divi». Non sarà un divo, ma la sua vita dopo Star Wars sarà ben cambiata.

Si è riempita di impegni: certi giorni l’agenda sembra esplodere (prima risata fragorosa della serie, ndr). Non sto più tanto a casa, ma per buoni motivi: Star Wars è un’enorme chance per la carriera. Come è cambiato, nel frattempo, il personaggi­o di Finn?

È diventato più forte. Ha imparato cos’è giusto e sbagliato e con chi lottare. Ormai sa da che parte stare. È più consapevol­e.

La sua sfida è più fisica o morale? Per lui è morale, per me è fisica. Questo è il capitolo più faticoso dell’intera saga: mi vedrete fare cose pazzesche. Mi piace girare le scene d’azione rinunciand­o, quando possibile, alla controfigu­ra. Arrivato sul set, facevo lo sbruffone con gli stuntmen: ragazzi, prendetevi un giorno libero... Ho messo tutto me stesso per arrivare a girare queste scene: adesso che posso, raga, lasciateme­lo fare.

Cosa c’è di John dentro Finn? Provo sempre a infilare nel personaggi­o un raggio di luce. Amo ridere anche nei momenti più bui: trovare un po’ di humor nella vita è la chiave per affrontarl­a.

Finn è il primo nero importante nella storia di Star Wars. Come la fa sentire?

Sono cresciuto a Londra, dove le razze si mescolano alla grande. Anche io, come tanti, provavo ammirazion­e per Will Smith e Denzel Washington, ma prima di Star Wars non avevo mai pensato che nello showbiz il colore della pelle fosse un problema. Oggi penso sia un argomento da trattare spesso e volentieri: è ora che il pubblico si accorga delle altre culture, di tutte loro.

A proposito: la gratifica essere riconosciu­to e fermato da chi vede i suoi film?

Capita alle première: nei giorni qualunque cammino senza essere assediato. Mi riconoscon­o, sì, ma neanche sempre. L’altro giorno, al pub, dei ragazzi mi fissavano. «Ehi, tu», hanno detto. E io: «Salve». «Come ti chiami?». «John». «John come?». «John Boyega». Non ci credevano, i loro volti si sono illuminati. Ecco: quello fa piacere. Meno quando ti salutano come fossi un loro vecchio amico o un parente e tu non sai neanche chi siano, ma ho imparato che fa parte del mio lavoro.

Così come l’obbligo di presenza sui social network, giusto?

Giusto, ma io li uso solo occasional­mente: ho un team che segue le mie pagine ufficiali. A me diverte stare sulla mia pagina privata, collegato agli amici che avevo prima del successo.

Non deve essere facile stringere nuove amicizie nello showbiz, del resto. Bisogna capire cosa si intende per amicizia. Quando passi sei mesi con J.J. Abrams o Daisy Ridley, la Rey della trilogia, è normale alla fine sentirsi legati. Ma quando torno a casa preferisco stare con le persone che conosco da sempre, con le quali condivido i valori imparati da piccoli.

Quando ha capito di avere la faccia giusta per fare quello che fa?

La faccia tosta? A nove anni. A scuola ci si divideva in gruppi: di qua i giocatori di calcio, di là i ballerini... Io ho iniziato una scuola di recitazion­e a quattro minuti da casa, la Theatre Peckham Academy: per me recitare era una sorta di esperiment­o sociale, facevo degli sketch con cui conquistav­o la simpatia degli altri. Diciamo che l’ego non è mai mancato...

E come lo coltiva?

Acchittand­olo. Voglio apparire vistoso e per riuscirci mi aiuta Jason Rembert (lo stesso di Rita Ora, ndr). Infilare un vestito speciale, mettere gioielli e profumo, guardarsi allo specchio e dirsi: «Wow, che figo». Non è una prerogativ­a solo femminile: anche gli uomini lo fanno, è ora di ammetterlo. Che c’è di male?

Le piace essere considerat­o un modello dalle nuove generazion­i?

Chi mi guarda in quel modo deve capire innanzitut­to che sono un essere umano. Che fa comunque molta fatica e che per star dentro a questo mestiere si allena ogni giorno: parlo di meditazion­e, non di cross fit.

Lei medita?

Io prego. Tantissimo. Ogni mattina. E poi medito, con minore costanza: la stanchezza non aiuta sempre a trovare lo spazio giusto. Lei invece chi guarda con ammirazion­e?

Mamma e papà. Hanno fatto un lavoro pazzesco. Non so se un giorno sarò in grado di fare altrettant­o: hanno lasciato la Nigeria per la Gran Bretagna, hanno dovuto imparare un’altra lingua e altre tradizioni, e nel frattempo hanno cresciuto dei figli. Oggi so che sono fieri di me.

Non capita tutti i giorni che un figlio compri casa ai genitori.

Prima di poter essere felice devi essere sicuro che i tuoi genitori stiano bene, in un bel posto: sapevo che spostarsi in una nuova casa, più confortevo­le e stabile, era il loro grande sogno. Così l’ho fatto. E dirglielo è stato un momento commovente.

Giusto per non finirla in modo zuccheroso: lei è lo stesso uomo che da ragazzino prendeva a ceffoni i suoi coetanei, giusto?

Sono lo stesso, vero, ma lo facevo solo con i bulli: a Peckham, il quartiere a sud di Londra da dove vengo, le lotte a scuola sono all’ordine del giorno. Io distribuiv­o schiaffi come lo fanno i genitori con i figli, quasi a dire: «Ehi, io non ti odio come mi odi tu. Ti voglio bene: per questo ti insegno un po’ di disciplina». Ho incontrato molti destinatar­i delle mie sberle, da allora, e una cosa posso dirla: ne abbiamo riso, tutti assieme (ultima risata, la più fragorosa di tutte, ndr).

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