GRETA VAN FLEET
I ragazzi rock del Michigan che da tagliaboschi ora fanno fuoco e fiamme
Nascere a Frankenmuth, Michigan, meno di 6 mila abitanti, boschi alla Huckleberry Finn e il più grande negozio di articoli natalizi del globo, e vincere al volo un Grammy per il migliore album rock quando si è ancora fermi al secondo Ep, From the Fires. Succede, se mandi avanti uno con la voce che picchia sul nervo e fa immaginare che i Led Zeppelin stiano patteggiando con il diavolo per tornare alla carica dei loro 20 anni. I Greta Van Fleet sono così. Una manifestazione della realtà che va sold out appena vengono messi in vendita i biglietti dei loro concerti (il 24 novembre saranno all’alcatraz di Milano).
Due Ep, un album, Anthem of the Peaceful Army, e un nuovo singolo nel 2019, Lover, Leaver: i GVF sono un gruppo casa e bottega, formato da tre fratelli e un amico. I Kiszka sono i due gemelli Josh (voce) e Jake (chitarra) e il fratello minore Sam (basso); l’amico è Danny Wagner (batteria), che nel 2013 ha sostituito Kyle Hauck. Sono ancora tutti dei ragazzi. Hanno dai 20 ai 23 anni e il pieno di carburante della loro età: con GQ parla Jake, scelto come portavoce perché è stato lui ad assemblare il gruppo, nel 2012.
Il giorno di questa intervista tra gli appunti c’era anche una dichiarazione di Robert Plant: «Questi ragazzi sono bravissimi e il cantante mi piace un sacco: mi ricorda qualcuno che conosco meglio di chiunque altro». Se stesso, insomma. «Ringraziamo per i complimenti: li useremo come pass di ingresso al club delle superstar. Magari possiamo dare un’occhiata là dentro, che dite?», inizia Jake Kiszka.
Partiamo da qui, così non ci si pensa più: quanto devono i GVF ai Led Zep? I Led Zeppelin di Robert Plant sono un riferimento, ma non l’unico e nemmeno il primo: li abbiamo scoperti quando frequentavamo le scuole superiori, ma suonavamo già da un bel po’.
A che età avete iniziato?
Intorno ai 3 anni. Io e i miei fratelli siamo cresciuti con il blues, sulle note di Elmore James e Muddy Waters. Merito di nostro padre: bassista, prodigio dell’armonica e collezionista di vinili.
Poi che cosa è successo?
Ciascuno ha seguito la propria inclinazione. Io sono il più rock. Josh adora la world music ricca di cori. Sam è innamorato del jazz. Danny è per il folk. Chi ascolta riconosce i diversi generi nei brani: sembrerebbe impossibile, ma si incastrano alla perfezione, come i tasselli di un mosaico, e creano melodie originali.
Quindi non copiate nessuno. Esatto. E poi si sa: nulla si crea, nulla si distrugge. La voce del mio gemello? Se gli esce così, non è colpa sua.
Come si cresce a Frankenmuth?
Con i piedi per terra. Nel vero senso della parola: da bambini trascorrevamo intere
«ANDIAMO D’ACCORDO PERCHÉ CI DICIAMO LE COSE IN FACCIA»
giornate scalzi, a giocare nei prati e lungo il fiume. La natura è nel nostro dna, ecco perché abitiamo ancora lì e nutriamo profondo rispetto verso l’ambiente.
Fareste buona compagnia a Greta Thunberg.
Ammiriamo il suo impegno a favore del clima e speriamo che i potenti l’ascoltino. Anche noi ci diamo da fare, nel nostro piccolo: il nostro tour limita l’uso della plastica, e dal palco lanciamo un appello per prenderci tutti cura della nostra Madre Terra.
Siete cresciuti con le lezioni di filosofia di vostro padre, studioso della materia: non vedeva altro nel vostro futuro, oltre al rock?
I nostri genitori ci hanno sempre spinti a trasformare la passione in mestiere: quando io e Josh avevamo 13 anni, invece che alle feste di compleanno ci accompagnavano a suonare nei locali dei motociclisti. E lo facevano con un certo orgoglio: forse perché dimostravamo disciplina e responsabilità. Neanche avevate debuttato, e già vi si vedeva sul palco dei Foo Fighters: come avete fatto a non bruciarvi le ali? Per saltare le tappe serve tanta ambizione. Per non finire come Icaro ci vuole consapevolezza. I risultati che abbiamo ottenuto non sono piovuti dal cielo: ce li siamo sudati. Perciò, ancora oggi, ci caricano a molla, ma non ci bastano. Vogliamo arrivare in alto, almeno dove si trovano i Foos. Stare con loro è stato altamente formativo: abbiamo imparato l’approccio giusto.
Vale a dire?
Non dimenticare che siamo dei privilegiati. Quindi: sorridere sempre. Anche quando i tour ti massacrano di stanchezza. Sesso e droga sono ancora parte inscindibile del circo del rock?
È una scelta individuale e vale per il musicista quanto per l’impiegato: non penso che ci sia differenza tra il nostro ambiente e un ufficio qualsiasi. Per quanto ci riguarda, il confronto sereno con i nostri genitori ci aiuta a evitare casini e gli autori che affollano la libreria di papà − Nietzsche, Sartre − ci hanno insegnato a ragionare con la nostra testa.
Le vostre canzoni restano però un inno al vecchio peace&love.
Siamo hippie dentro. Ciò che conta davvero non ha il fruscio delle banconote: è
«A 13 ANNI SUONAVAMO PER I MOTOCICLISTI, COMPLICI I NOSTRI GENITORI»
questo il messaggio della nostra musica. Nell’epoca del consumismo ci interessa riportare al centro dell’attenzione i sentimenti e il valore della condivisione. Dagli Oasis ai Kings of Leon: sono molte le band rovinate da fratelli litigiosi. Chi è l’attaccabrighe tra voi tre? Nessuno in particolare, nonostante siamo tutti testardi. Ci salva la tecnica messa a punto durante l’adolescenza: dirci le cose in faccia, subito. Anche con Danny: ha un cognome diverso, ma è della famiglia. Lei ha fondato il gruppo: è stata sua anche l’idea del nome?
No, per quella siamo in debito con Kyle, il nostro ex batterista. Mentre stavamo provando, ci ha raccontato che il nonno era andato a tagliare la legna − a Frankenmuth è normale, tutti lo fanno − per Gretna Van Fleet. Bingo! Quel nome ci era piaciuto moltissimo e lo abbiamo scelto per presentarci nei locali: abbiamo solo tolto una “n”, per semplificare la pronuncia.
La signora ha gradito?
E come no: è venuta ad ascoltarci e l’abbiamo salutata con affetto. Ha superato gli 80 anni, è in forma smagliante e può considerarsi un membro onorario dei GVF. Chissà che non venga in studio a benedire il nuovo album!