MA TOCCA A ME?
Vincere (o no) un premio: la prima di tutte le lezioni
Dispiace sottrarre Colm Tóibín dal bordo piscina dove si gode il caldo autunnale di Capri, lui poi che ama «qualunque posto dove ci sia il sole». A portare in Italia lo scrittore irlandese di Brooklyn, The Master e La casa dei nomi è il Premio Malaparte; lo crearono nel 1983 Alberto Moravia e Graziella Lonardi Buontempo, da qualche anno è stato rilanciato con l’aiuto di Ferrarelle unico sponsor («Perché questo è un appuntamento prestigioso e senza tempo», spiega il vicepresidente dell’azienda Michele Pontecorvo Ricciardi). Tóibín è abituato ai riconoscimenti: «In Inghilterra e Irlanda il più prestigioso è il Booker. Per tre volte mi hanno nominato ma non ho mai vinto; e quando non vinci, tutti quelli che sono con te alla cena di premiazione ti spingono via, letteralmente, non sei più nessuno. È formativo per il carattere: credo che un romanziere debba conoscere la sconfitta, la delusione. Senza esagerare, sennò si cade in depressione. Vincere ogni tanto fa bene».
Capri, Los Angeles dove vive, New York dove insegna: viaggia molto. Non si sente in colpa per la traccia ecologica che lascia? Oh sì. Dovremmo tutti cambiare radicalmente il nostro modo di vivere. Non penso sia realmente possibile, ma dovremmo.
I luoghi influenzano la scrittura?
A me basta un tavolo in un angolo: che guardi verso il muro o verso un porto è lo stesso.
E la malattia? Il tumore che ha combattuto lo scorso anno, l’ha cambiata?
No. Sono esattamente quello di prima. Vorrei poterle dire, come tutti, che sono un uomo diverso, più gentile, che ho trovato la fede, ma la verità è che non ho imparato nulla, ho solo perso sei mesi di vita. Anzi, una cosa è cambiata: non ho bevuto un drink per sei mesi, e ora che potrei farlo non mi interessa più.
Non ha trovato la fede, ma in cosa crede? Le rispondo con Wittgenstein: «Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere».
In La casa dei nomi ha riscritto il mito greco di Agamennone e Clitennestra, li ha resi così simili a noi…
Sa cosa diceva Flaubert a proposito di Madame Bovary? Allo stesso modo io potrei dire: «Clitennestra c’est moi». All’inizio della storia è una donna comune, ma alla fine non lo è più. La rabbia, il male si sono impossessati del suo spirito.
Cosa fa arrabbiare lei?
Sono troppo vecchio: a 64 anni devi superare ogni cosa, non puoi permetterti la rabbia.
Invecchiare ha anche dei vantaggi? L’altro giorno qui a Capri ho visto questa coppia giovane, lui e lei bellissimi, in costume da bagno, lui che si chinava per baciarla. Mi è venuto in mente Henry James, quando diceva che la parola più bella della lingua inglese è youth. Gioventù. Aveva ragione.
Qual è la cosa più importante che ha imparato dalla letteratura?
Henry James e James Joyce mi hanno insegnato che devi finire tutto ciò che hai iniziato. In questo loro eccellevano. Dai greci, che non bisogna avere paura di spingersi oltre. Il nostro cervello però è pigro, cerca consolazione. E non si deve mai scrivere solo per confortare chi legge.
Quale libro l’ha più consolata nella vita? Aah! Qualunque cosa scritta bene è una consolazione.