PULIRE L’EVEREST
La sfida di uno sherpa nepalese: eliminare i rifiuti dalla montagna
La prima volta che Dawa Steven Sherpa è salito sulla cima del Monte Everest aveva 22 anni. Una cosa normale se nasci in Nepal da una famiglia di scalatori e tuo padre è uno sherpa. «È stata un’esperienza emozionante, avevo gli occhi pieni di lacrime», racconta. «Ho chiamato papà con il telefono satellitare, gli ho detto per scherzo che non riuscivo più a salire. Lui si è allarmato. Gli ho risposto che, no, ero già arrivato in cima! All’epoca guidavo già un gruppo di persone, e lì ho capito che la vera felicità non la raggiungi in vetta, ma quando riesci a riportare indietro le persone del tuo gruppo sane e salve».
Da allora, Dawa è salito sul Monte Everest almeno altre tre volte fino in cima e ha organizzato una dozzina di spedizioni, ma con occhi diversi. «Durante la mia prima scalata, nel 2007, sono rimasto sconcertato di fronte alla quantità di rifiuti abbandonati, così l’anno seguente ho organizzato una campagna di pulizia, che finora ha raccolto oltre 19,5 tonnellate di immondizia». Leader delle Eco Everest Expedition e Ceo di Asian Trekking, Dawa Steven Sherpa guida un team di scalatori nel progetto Peak Outlook, sponsorizzato dal marchio svizzero di lusso Bally, che con quelle montagne ha un legame: Tenzing Norgay, il primo sherpa a raggiungere la vetta dell’everest nel 1953 con Sir Edmund Hillary, indossava proprio un paio di stivali firmati Bally.
L’alpinismo non professionistico e fuori controllo minaccia l’ecosistema della zona... Il Nepal non ha industrie, il governo cerca di incrementare quello che per il Paese rappresenta una forma di turismo e di profitto. Ma ci vuole un giusto equilibrio: se da una parte si promuove la salita sull’everest perché questo crea posti di lavoro, dall’altra si deve tenere conto delle conseguenze e dell’impatto ambientale.
Cosa spinge gli uomini a compiere queste imprese estreme?
Ognuno ha un obiettivo nella vita, c’è chi vuole una famiglia e chi vuole salire sull’everest. Nel caso della montagna non è per forza una questione di adrenalina o di salire a tutti i costi sulla cima, ma di riappropriarsi della semplicità della vita, della serenità della montagna, un modo per scappare dalla frenesia della città, di comprendere che non esiste solo il proprio piccolo mondo, ma che il mondo è molto più grande e ha tanto altro da offrire.
E cosa succede all’organismo?
Sulla cima dell’everest c’è un terzo dell’ossigeno rispetto al livello del mare, il che può avere diverse conseguenze. Per esempio, possono fuoriuscire fluidi dagli organi interni. La buona notizia è che salendo lentamente il corpo si adatta. Il modo sicuro per affrontare l’ascesa è 300 metri di salita al giorno, e un giorno di riposo ogni 1.000 metri.
Chi è in grado di affrontare l’everest? Ci sono persone con tanti soldi, ma nessuna preparazione. Quando le compagnie che organizzano le spedizioni sono serie e affidabili richiedono una serie di informazioni alle persone che vogliono compiere l’impresa e fanno una selezione. Arrivano anche atleti non professionisti fisicamente molto preparati, ma che non sono pronti a livello psicologico: nei primi giorni di cammino cerchiamo di capire se saranno in grado di compiere l’impresa. Perché i primi giorni sono fondamentali affinché la gente familiarizzi con la montagna.
Cosa le ha insegnato la montagna?
Due grandi lezioni di vita. La prima è che lassù capisci quanto poco serva per essere felici, perché quando riesci a stabilire una connessione con la natura ti senti totalmente appagato. La seconda: qualunque cosa tu voglia raggiungere nella vita, richiede uno sforzo.