ORA MI GUARDO DENTRO
Serenate, viaggi, progetti: MOTTA ha imboccato la strada per il nirvana. E lo canterà forte e chiaro
Un libro sulla musica. Il viaggio in Australia. Un terzo disco. La colonna sonora di un film. Per fermare Francesco Motta nel flusso dei nuovi progetti bisogna intercettarlo dove c’è un wifi. In questo caso a Napoli, dove ha raggiunto Carolina Crescentini. Trentatré anni, due album - La fine dei vent’anni del 2016 e Vivere o morire del 2018 - e due Targhe Tenco, un premio per il miglior duetto con Nada allo scorso Festival di Sanremo: Motta ha appena chiuso un lungo tour con un’ultima data a Roma, all’auditorium della musica.
Si sta finalmente riposando?
No: ho così tanto da ripensare e organizzare. Sono alla fase iniziale della stesura delle canzoni: devo fare ordine, davvero, innanzitutto nella testa.
Un nuovo disco: lo produrrà da solo? È una fase in cui ho bisogno di stare con me stesso, poi vedremo. Il punto è che sto particolarmente bene e non sono abituato a scrivere con questo stato d’animo: perciò stanno venendo fuori cose nuove.
Qual è la parte difficile? Stare bene o trovare le parole per dirlo? Rendersi conto di dove ci si trova ed essere consapevoli di ciò che si ha. L’introspezione è sempre faticosa.
Ha mai pensato di parlarne con qualcuno che non abitasse nella sua testa? Mia sorella me lo dice sempre: vai dall’analista. Io, al momento, continuo a fare dischi. Ma non escludo di provarci: vorrei farlo avendo il tempo necessario e la giusta apertura d’animo. Mi preoccupa aprire certi canali, perché li ho sempre sfruttati per scrivere canzoni.
Quante canzoni ha ferme, già scritte? Tante: magari mi piacevano, ma non erano in sintonia con i dischi che avevo in mente. A volte vado a riprenderle negli hard disk, ma in generale preferisco ripartire da zero. Diciamo che al momento ho ancora in bocca il sapore del mio ultimo concerto. Di che cosa sa?
Di lacrime. Ho pianto anche quando si è chiuso il tour di La fine dei vent’anni, ma era diverso. Allora sono tornato a casa con un senso di vertigine: avevo paura di fermarmi e di capire dove mi trovavo. Rifuggivo la stabilità. Oggi mi concedo un pianto di consapevolezza: so dove sono e mi guardo attorno. Sarà questa la maturità? Paura di dimenticare. Di tuffarsi. Di invecchiare. Perché la paura è sempre in agguato nelle sue canzoni? Perché è il mio modo per capire cosa mi spaventa ed esorcizzare i fantasmi. Che cambiano forma. Adesso invecchiare mi va bene: credo sia una fortuna non cercare di restare giovane; è una cosa poco interessante, come il non cambiare idea. E la paura di perdere i capelli? C’è anche quella?
Abbastanza. Ma ho capito che a volte bisogna non pensarci: soprattutto alle cose che non dipendono da te.
Due album, due premi. Le piace essere nel cuore degli addetti ai lavori? Molto. Perché loro hanno la responsabilità di accorgersi della musica che non rientra nel mainstream: se fosse solo il pubblico a decidere, chissà dove sarei. Il problema ora è: come faccio il terzo disco?
Del suo passato si cita una febbre durata 15 giorni, in seguito alla quale ha iniziato a suonare qualunque cosa ci fosse in casa. È una fake news?
È successo davvero. È stata l’unica cosa bella della mia adolescenza: ogni giorno sei un Frankenstein che non sa dove andare. Avevo lasciato perdere la musica perché me lo avevano detto gli insegnanti, ed ero passato al pallone. Durante quei 15 giorni di noia ho ripreso in mano gli strumenti, tanti, in giro per casa. Alla fine, la musica mi ha salvato: mi ha fatto trovare un mio modo di essere a tempo con il mondo.
Nasce a Pisa da genitori livornesi: crescere in provincia può essere un asso nella manica?
Ci penso spesso. Vivo da 10 anni a Roma ma dalla provincia ho imparato a scegliere le persone. A Roma tutti ti chiedono di suonare assieme ma nessuno resta nella tua vita. A Pisa i musicisti sono in eterna competizione, ma se ti trovi poi non ti lasci più. Andrea Appino degli Zen Circus è stato il suo testimone di nozze. È questo che intende parlando di amicizia nella musica?
Ci conosciamo dai nostri 10 anni: abbiamo avuto vite parallele e musicalmente abbiamo fatto poco assieme, ma sì, per me è un fratello a tutti gli effetti.
Prima del matrimonio, ha mai fatto una serenata a Carolina Crescentini? Certo. Sotto casa. Con una canzone del nuovo disco, alle tre di notte.
Firma una cover di De André, Verranno a chiederti del nostro amore. Aveva 13 anni quando lui è morto. Chi glielo ha fatto ascoltare la prima volta?
I miei genitori: sentivano il Requiem di Mozart, ma anche Dalla, Gaber e De André. Io preferivo gli anglosassoni ed emulavo gente molto diversa dai miei famigliari. Avrei dovuto ascoltare di più mamma e papà. Che effetto le ha fatto cantarlo? Volevo entrare nella testa di De André, invece ho capito di dover fare un passo indietro e trasformare la canzone con quello che sentivo. Quando è successo, ho dovuto fermarmi: per piangere. Emozionarmi è l’unica vera cartina al tornasole che ho.