I PUGNI IN TESTA
Vent’anni dopo le scazzottate da matti di Fight Club EDWARD NORTON torna, da regista, con un nuovo personaggio non classificato: il Lionel Essrog di Motherless Brooklyn. Perché essere “sbagliati” agli occhi degli altri può, invece, essere una lezione per
Vent’anni fa Edward Norton e Brad Pitt si scazzottavano di brutto in un film, Fight Club di David Fincher, mentre Jonathan Lethem raccontava nel romanzo che gli ha dato fama mondiale, Brooklyn senza madre (in Italia con il Saggiatore), di come Lionel Essrog prendesse a pugni a casaccio passanti e poliziotti. Uno per l’altro, tutta gente con qualche rotella fuori posto.
Vent’anni dopo Edward Norton prende il libro di Lethem e lo trasforma in Motherless Brooklyn (in sala dal 7 novembre), il suo secondo film come regista, concedendosi il gusto di interpretare Essrog, che è affetto dalla sindrome di Tourette. Piccola licenza autoriale: la storia, ambientata negli Anni 90, viene retrodatata agli Anni 50. Restano i fatti: il protagonista viene adottato da un mafioso di mezza tacca, ma quando questi viene ammazzato Lionel Essrog si metterà in caccia del suo assassino.
«Ho in mente due film. Uno, visto con mio fratello a Baltimora, dove siamo cresciuti: Incredibile viaggio verso l’ignoto, con due bambini extraterrestri dai poteri paranormali. L’altro invece con mia madre, un’insegnante di letteratura inglese: Io e Annie, e cioè la prima incursione di Woody Allen in quel campionario di nevrosi alle quali poi ci abituerà». Edward Norton, 50 anni, padre di Atlas, che ha avuto con la produttrice Shauna Robertson, tre candidature all’oscar (Schegge di paura, American History X , Birdman), dice: «Li ricordo bene perché sono stati i primi film che mi hanno sfidato a pensare, invece di accontentarmi di quello che mi veniva raccontato».
Per inciso: a Norton le parti da stralunato vengono proprio bene, e da tutta una vita. In questo caso si confronta con gli effetti di un disordine neurologico, che ha imparato a conoscere attraverso un documentario, Twitch and Shout, che ha trovato «bellissimo: spiega bene come si tratti di una sindrome dalle molteplici espressioni: perciò mi sono sentito libero nel creare il personaggio di Lionel. È un uomo malinconico, dalla mente ossessiva, che nello smascherare un omicidio svela i segreti dei potenti della città. Lo fa negli Anni 50: un periodo che mostra quanto abbiamo perso rincorrendo potere e denaro».
Il suo primo film da regista, Tentazioni
d’amore, è del 2000: ci sono voluti quasi 20 anni per tornare dietro la macchina da presa. Che cosa le mancava per farlo?
Ho comprato i diritti del libro nel 1999, appena uscito, ma ho iniziato a scrivere la sceneggiatura solo cinque anni dopo, facendo mille ricerche, e ho finito la stesura nel 2012, quando è partita la caccia ai finanziamenti. Nel frattempo sono diventato padre e porto mio figlio a scuola tutte le mattine. Stress da prestazione, dice lei? Parecchio, dico io.
Che cosa ha imparato da questa lunga trafila?
Che quando resti bloccato in un punto devi decidere: è troppo faticoso andare avanti o è troppo fastidioso uscirne sconfitto? Io ho scelto di perseverare.
Perché le piacciono i soggetti un po’ fuori di testa?
Non saprei. Ma so che ciascuno di noi vive di paradossi interiori: pezzi che coesistono ma non sempre si riconciliano; ecco cosa mi affascina. Guardiamoci attorno: quanti fra noi si sentono incompresi e isolati? E quanto tutto ciò ci rende sbagliati agli occhi degli altri? Bene, gli antichi greci prendevano una caratteristica umana e la rendevano superiore attribuendola a un dio. In questo modo ciò che è “strano” diventa esperienza universale.
Qual è il segnale che la convince di essere
sulla strada giusta?
Non sono uno sportivo, quindi parlo solo per sentito dire, ma mi piace l’espressione “sentirsi in Zona” (la Zona è lo stato fisico e mentale ottimale raggiunto con la dieta studiata dal biochimico Barry Sears, ndr). È come se non agissi in modo razionale, ma da un segnale dell’istinto, che mi dice che sto facendo qualcosa di buono. Come ricorda il 1996, quando si è fatto conoscere con tre film?
Un momento irripetibile. Sono cresciuto guardando film di Woody Allen e giravo con lui Tutti dicono I Love You: volevo capire come costruisse le sue storie. Milos Forman mi aveva coinvolto nella sceneggiatura di Larry Flynt: per uno come me, che sognava di diventare uno scrittore, è stato il nirvana. E da Schegge di paura di Gregory Hoblit sono uscito con un Golden Globe per il miglior attore non protagonista. Lei è un inquieto: ha studiato storia a Yale, scritto per il teatro e persino fatto l’attivista politico in Giappone... Ho preso le cose da varie angolazioni. Esplorare altre parti di me e del mio cervello è un processo che ho sempre trovato meraviglioso: sin da bambino avevo l’ambizione di espandermi. Raggiunto un obiettivo, invece di rilassarmi, iniziavo a occuparmi di altro, alzando l’asticella. Ogni volta si entra in uno status di fragilità: ho vissuto così finora, ma adesso mi muovo solo quando mi si presenta un’occasione irresistibile.
Oggi tutti parlano di Joker, 20 anni fa succedeva con Fight Club.
E lo si faceva senza Twitter e Facebook. Allora ci spaventavano i modelli corporativi che ci venivano imposti, oggi siamo schiavi dei modelli che, crediamo, ci definiscono. Nel 2019 Fight Club dovrebbe confrontarsi con le vite digitali, vissute di seconda mano. La rabbia e l’odio che c’erano in American History X invece calzano ancora perfettamente ai tempi attuali. All’epoca io e David Mckenna eravamo colpiti da quanta gente cercasse qualcosa da odiare per poter scaricare la propria rabbia. Siamo stati sei mesi su quella sceneggiatura e alla fine ho pensato di non poterla recitare.
E invece?
È stata una grande lezione: mi ha insegnato che l’insicurezza è un buon segnale da seguire. È lungo quella linea che mi concentro come so fare meglio.
«ESPLORARE PARTI DEL MIO CERVELLO È UN PROCESSO CHE TROVO MERAVIGLIOSO»