CREPACCI E CLIMA DA MARZIANI
Una settimana in Islanda, il luogo della Terra più simile al Pianeta Rosso, per testare una tuta spaziale
Non sappiamo se e quando andremo su Marte, né tantomeno cosa ci troveremo, ma di una cosa siamo certi: al momento buono sapremo come vestirci. Non si tratta di una piccola consolazione di stile di fronte all’immensità del cosmo e della scienza. Al contrario, è proprio la scienza – e il design, che spesso tra la scienza e l’arte si dibatte – a richiedere l’attenzione all’abito: alla tuta, nello specifico. Quella indispensabile per prepararsi alla traversata galattica
è così importante da avere un nome, MS1 Mars, un costo approssimativo di 100mila dollari e una gestazione creativa di qualche anno, tra bozzetti, scelta dei materiali, test in laboratorio e prova sul campo. Proprio per il collaudo, essendo impossibile scegliere come location l’effettiva destinazione, è stato necessario trovare un luogo abbastanza simile al Pianeta Rosso da produrre analogo effetto di disorientamento in chi ci arriva, con condizioni atmosferiche e ambientali talmente ostili e complesse da essere funzionali alle prove generali. Così, sul finire dell’estate scorsa, un team di ricercatori ed esploratori si è arrampicato sulla cappa di ghiaccio Vatnajökull nell’islanda sudorientale, la più grande d’europa per volume e la seconda per estensione, su cui si apre il vulcano subglaciale Grímsvötn, con la più alta frequenza di eruzioni dell’isola. Qui, tra lave basaltiche e ripide pareti di ghiaccio, crepacci di profondità sconosciute e venti sferzanti, sotto la minaccia costante di essere travolti dai lapilli, un gruppo di dieci valorosi si è stabilito una settimana senza acqua corrente, con il cibo razionato e un accampamento di letti a castello, per testare la tuta MS1 in quello che in gergo viene chiamato “analog”, il territorio più simile all’obiettivo della futura esplorazione spaziale. La spedizione è stata organizzata dalla Iceland Space Agency, in collaborazione con l’explorer club – l’associazione internazionale di esploratori che dal 1904 si presta a missioni quasi eroiche per testare i limiti dell’umanità, e ampliare quelli della conoscenza – e Michael Lye, coordinatore della Nasa e docente della Rhode Island School of Design, dove la tuta marziana ha preso forma. Con loro anche il cane Nero, costretto a sopportare quello a cui nessun cane probabilmente aspirerebbe (basti pensare alla cagnetta Laika, mandata in orbita dai sovietici nel 1957 per battere sul tempo gli americani e morta poco dopo il decollo).
Insomma, una spedizione straordinaria per un
singolo prototipo su cui si lavora dal 2016, e ancora in evoluzione.
«È stato necessario un anno di tempo solo per il primo disegno e per la successiva realizzazione», racconta il designer Michael Lye. «Abbiamo studiato i design delle tute spaziali, quali vincoli impongono quando si indossano e i problemi che si sono manifestati nel passato. Siamo quindi andati a considerare singole parti o sezioni, per poi integrarle in un prototipo. Molti, a dire il vero: uno per ogni idea di base. È stato un processo lungo, estremamente legato un’esplorazione pratica delle idee in tre dimensioni. Poi sono iniziati i test in laboratorio e le successive modifiche. Dopo l’esperimento sul vulcano, ancora non abbiamo finito. Insomma, ci vogliono svariati anni per ottenere un modello “definitivo”». D’altronde non si tratta di un oggetto qualunque, ma di quello che nell’attesa di capire
– se su Marte ci andremo davvero dovranno
– indossare gli astronauti impegnati in tutte le simulazioni necessarie prima della missione. Una specie di anticipo sul futuro. Tecnicamente, la MS1 Mars è divisa in parti componibili: una per il torso e una per la parte inferiore del corpo, moduli per le braccia e il portable life-support system, lo zaino in fibra di carbonio che contiene un ventilatore e un sistema di distribuzione dell’aria, un serbatoio di acqua potabile, i principali sistemi di controllo e tutti i componenti elettrici, comprese le batterie. A parte i moduli relativi al busto e alle gambe, che si incastrano tra loro attraverso un anello d’alluminio, tutti gli altri si agganciano tra loro attraverso cerniere. «Sono più pratiche, consentono maggiore flessibilità sulle taglie e sono anche più facili da sostituire, se necessario», aggiunge Lye. Il guscio esterno della MS1 Mars, riparo dell’astronauta dai rischi dello spazio cosmico, è realizzato in fibra di carbonio e resina epossidica (un polimero che reagisce al freddo), una lega di alluminio 6061 e un tessuto in nylon altamente resistente all’abrasione, lo stesso tipo di materiale utilizzato nelle tute da kart. Internamente ci sono almeno tre strati in tessuto di nylon ripstop, la visiera è realizzata in policarbonato e cavi ad alta resistenza servono a regolare le varie parti. Il tutto è stato sottoposto a ogni tipo
immaginabile di maltrattamento, tanto in laboratorio quanto sul vulcano Grímsvötn. L’obiettivo della spedizione era esattamente questo: verificare i possibili punti deboli di un impianto che è pensato per durare nel tempo, in missioni spaziali lunghe fino a un mese, o in simulazioni sulla Terra estese nell’arco di un intero anno. Non stupisce dunque che il costo dei materiali grezzi si aggiri tra i 17 e i 20mila dollari, e che conteggiando anche le ore di lavoro che sono state necessarie per disegnarla, assemblarla e testarla si arrivi alla cifra record di 100mila dollari. «Se però ne costruiremo più d’una, se insomma la MS1 Mars non resterà un prototipo, probabilmente il prezzo complessivo si assesterà tra i 15 e i 20mila dollari», precisa Michael Lye. Prima però bisogna trovare i fondi necessari a sostenere le spese di produzione, impresa non semplicissima considerando anche che – di questi tempi – è difficile trovarli persino per gli strumenti indispensabili alle future esplorazioni spaziali.
Il tempo, comunque, c’è. Al momento MS1 Mars deve essere ancora completata. Non solo perché l’esterno, cioè “il guscio”, dovrà essere modificato e rivisto in base a quanto emerso tra i ghiacci e la lava islandesi. Manca soprattutto l’interno, quell’insieme di tecnologie e sensori che danno un senso scientifico al fatto stesso di mandare un uomo a circa 56 milioni di chilometri di distanza dalla Terra. «Sì, in questa fase ci siamo concentrati soprattutto sui materiali, sull’oggetto fisico, ma adesso diventano prioritari i sensori che dovrà incorporare la tuta per consentirci di raccogliere dati. Li inseriremo soprattutto all’interno del primo strato indossato dagli astronauti, e serviranno a monitorare i loro parametri vitali, la stanchezza fisica e lo stress. In qualsiasi istante analizzeranno il respiro, il battito del cuore, l’ossigeno nel sangue e l’attività muscolare. La MS1 Mars sarà inoltre in grado di misurare il livello di anidride carbonica intorno al naso e alla bocca all’interno del casco, e la temperatura interna ed esterna, oltre che l’umidità in ogni parte del corpo».
Soltanto così potremo sapere se il Pianeta Rosso ha davvero qualche speranza da offrirci o se, finito di consumare la Terra, non ci resterà che ricordare com’era bella. Magari anche noi arrampicati sul vulcano Grímsvötn.