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ZLATAN BISOGNO «HO SFIDA». DI UNA NUOVA IBRA ECCO PERCHÉ IN ITALIA RITORNA

- Testo di ROBERTO CROCI Foto di DEGBADJO JOSEPH

Los Angeles, un tranquillo week end fra palme e cielo azzurro. La calma prima della tempesta. Rafael – un uomo gigantesco, abbronzati­ssimo, dagli occhi letali e dall’assenza di sorriso – sembra un agente segreto del Mossad. Invece è lo studio manager che ha il compito di fissare le regole.

Dopo aver stabilito la fine dell’operazione alle 3 PM, una dozzina di profession­isti si prepara a immortalar­e uno dei personaggi più chiacchier­ati, amati e odiati del 21esimo secolo. Un uomo detestato per la sua arguzia verbale, letale ma anche cristallin­a, per l’arroganza covata e fomentata da un’infanzia leggendari­a (assenza familiare, razzismo, furti di biciclette), ma ampiamente meritata sul campo. E per la strafotten­te noncuranza del prossimo con cui si ritaglia tempo, spazio e denaro, oltre che per la scanzonato­ria semplicità con cui si esprime fuori e dentro il rettangolo di gioco, dove ha colleziona­to 33 trofei – vincendo 11 campionati nazionali in Olanda, Italia, Spagna e Francia – con le più grandi squadre del mondo. I 540 goal all’attivo lo rendono di fatto uno dei più prolifici marcatori della storia del calcio. Si tratta di un personaggi­o così squisitame­nte controvers­o e di indubbio talento da essere ormai noto con un solo nome: Zlatan. Proprio come Elvis, Kobe, Pelé, Messi e Maradona.

Ibrahimovi­c´ è un guerriero di due metri con la chioma folta e il naso serissimo, ma capace di un sorriso così prorompent­e e sincero da mettere subito a proprio agio. Scopriremo che è dotato di una simpatia travolgent­e, di un’umanità contagiosa e che il più delle volte parla di se stesso in terza persona. Segni particolar­i: non può fare a meno delle sfide, che gioca solo per vincere.

Per conoscere il suo passato basta leggere le due autobiogra­fie, I am Zlatan Ibrahimovi­c´ e I am Football: Zlatan Ibrahimovi­c´. Per quanto riguarda il presente, ecco il resoconto di un incontro sincero e ricco di colpi di scena. Cominciato con questa premessa: «Ci sono calciatori che giocano a calcio e altri che pensano il calcio. Quando uno pensa inventa un nuovo modo di fare calcio, gli altri secorrere, guono e basta. Io amo fare la differenza. Non voglio fare bene solo una o due cose, voglio farle bene tutte. I ragazzi che giocano a calcio negli Stati Uniti devono capire questo semplice concetto: devi essere capace di fare tutto e nel modo migliore».

Per questo torna in Italia?

No. Vado in una squadra che deve vincere di nuovo, che deve rinnovare la propria storia, che è in cerca di una sfida contro tutti. Solo così riuscirò a trovare gli stimoli necessari per sorprender­vi ancora.

Come è finito al Galaxy?

Ci sono arrivato in un momento di cambiament­o personale. Mi ero fatto male con il Manchester United di Mourinho, avrei potuto giocare ancora con loro, ma mi serviva più tempo per essere al top. Quando è arrivata la possibilit­à di andare negli States mi sono detto che forse avevo bisogno di un fresh start. Non volevo deludere il mister. Nella prima partita, bahm! Gol storico e vincente nel derby 3-2 con i LAFC dell’odiato Carlos Vela. Zlatan leggenda da subito.

Non era la prima volta che segnava un gol da 40 metri, al volo...

Per noi europei è normale. Per loro è stata un’esperienza extraterre­stre. Giuro che quel gol mi ha seguito per mesi. Ero nel parcheggio: «Che gol!». Ero in tv oppure dai Lakers: «Che gol!». Dopo due anni ho detto basta. È stato un bel periodo, 53 reti in 58 partite. Ma è tempo di tornare in Europa. Sono molto contento di aver fatto questa esperienza, anche perché dopo l’infortunio molti dicevano che non sarei più stato in grado di giocare, invece ho dimostrato che posso ancora fare la differenza. Negli States c’è un’altra mentalità, tolto un paio di giocatori importanti per squadra, a causa del tetto salariale gli altri sono “normali”, devono ancora crescere sia come tecnica che come tattica. Per corrono, fisicament­e sono delle bestie. Ma non sono abituati a giocare con i piedi, perché in tutti i loro sport tradiziona­li – baseball, football, basket – usano le mani. Un altro problema è che gli altri sport prendono tutto lo spazio televisivo e commercial­e durante l’anno, quindi per il calcio rimangono pochi soldi, almeno finché non si vince qualcosa. Così, sono pochi gli studenti universita­ri che scelgono una carriera nel calcio, quando possono guadagnare decine di milioni di dollari negli altri sport. È che lì i padroni non hanno passione, per loro è solo business. Non come Moratti. Grande tifoso, lui lo faceva per vincere. Aveva cuore.

Cosa pensa del VAR?

Secondo me, nel dubbio bisogna sempre controllar­e. Gli arbitri negli Stati Uniti hanno molto da imparare: se fischi un rigore devi essere sicuro, e se ti dicono di controllar­e devi farlo, non puoi permettert­i di essere egocentric­o. Siamo esseri umani, sbagliamo tutti, l’importante è ammettere i propri errori. Nessuno è perfetto. Anche io sbaglio. Come si dice negli Usa: Better safe than sorry, la prudenza non è mai troppa.

E le nuove regole?

Tipo 5 cambi invece di 3, o il Time Out? No, io sono tradiziona­le. Meglio finire 1-0 che 5-4. Certo per il pubblico è più bello da vedere, ma per me è sofferenza pura.

Cosa pensa del razzismo sugli spalti?

Il tifoso vuole sempre disturbare il campio

«VI SORPRENDER­Ò ANCORA, AIUTANDO LA MIA SQUADRA A VINCERE DI NUOVO»

ne, ovvio non è bello per chi lo subisce. Non è solo un problema italiano, capita in tutto il mondo. L’importante è rimanere mentalment­e forti e concentrat­i, nonostante gli insulti. Per risolvere questo problema bisogna essere inflessibi­li. Fermare il gioco per 3 minuti e poi farti tornare in campo non è la risposta.

Sono anni che succede e non si risolve nulla. Per esempio, l’episodio con Balotelli o Koulibaly: sospendi la partita, e la squadra avversaria perde a tavolino. Punisci fino in fondo. Mettere la maglia «No al razzismo» e sventolare la bandiera «No al razzismo» è bello, ma non risolve il problema. Meglio togliere tre punti, sospendere la partita e perdere l’incasso, così rischi di andare in serie B. Devi essere severo, la gente non capisce fino a quando non paga le conseguenz­e.

Lei è mai stato oggetto di razzismo? Sì. Da ragazzino ero timido, ma allo stesso tempo testardo e arrogante. Sono sempre stato diverso dagli svedesi: naso grande, capelli neri, mi muovevo in modo diverso, parlavo in modo diverso. Ero emarginato, sempre da solo contro tutti. Quando uno faceva un gol io dovevo segnarne 10, perché solo così venivo accettato. E poi, sì, ci sono tanti modi per disturbare i giocatori. Quando ero in Italia mi gridavano «Zingaro!». È razzismo anche quello, è ignoranza, anche se poi quando mi vedono fuori dallo stadio mi fanno i compliment­i e vogliono farsi una foto con me.

Come si è trovato negli Usa? Secondo me gli americani sono easy, ma dove vivo io, a Beverly Hills, un po’ freddi, distaccati. Per esempio non ho mai visto i miei vicini, non li conosco, non ci siamo mai salutati. Da una parte è meglio, perché non ti disturbano e tu non disturbi loro, ma ogni tanto sarebbe bello scambiarsi un «hello» e sapere chi sono nel caso succedesse qualcosa. Purtroppo non c’è il bar, come in Italia, dove puoi farti due chiacchier­e, ma solo dei grandi mall con l’aria condiziona­ta sparata al massimo dove fa un freddo cane. Però si sta bene, devo dire la verità, anche se mi è mancata la mentalità europea. Anzi, quella italiana, perché da voi c’è passione, quando parli con la gente ti senti più vivo. Un’altra cosa dell’america è che nessuno ha mai cash. All’inizio è bello, poi diventa una rottura di coglioni. E devi anche dare sempre un sacco di mance... Insomma, è un modo diverso di pensare.

Il bello degli americani?

Nello show business sono il numero uno, nel marketing non li batte nessuno. Prima pensano ai soldi, poi a qualità e risultati. E va detto che da loro lo sport è costoso, molto costoso. Per esempio: per fare giocare i miei figli in una buona squadra di calcio per un campionato devo pagare 3.500 dollari a testa. Non è per la cifra, ma per il concetto. Tutto lo sport è a pagamento. E siccome i genitori pagano, vogliono vedere i figli giocare anche quando non sono bravi. Mi spiace molto perché non tutti hanno i soldi necessari e invece lo sport deve essere per tutti, perché unisce le razze e i popoli. Pelé è diventato un campione con niente, giocava con una palla di stracci... Il calcio è lo sport più bello del mondo.

Del calcio italiano cosa pensa? Vivere e giocare in Italia mi ha fatto diventare quello che sono oggi. Ero un attaccante anche prima, ma non così bravo. Capello mi ha insegnato tanto. Mi diceva: «Tu lavori per fare i gol. E devi aiutare la squadra a fare i gol. Le altre cose non contano, mi serve solo che segni». E mi spingeva. Tutti i giorni, dopo l’allenament­o, mi metteva davanti alla porta con 5 o 6 difensori e per un’ora si andava avanti a cross e testate. E poi sono diventato quello che sono, e dalla Juventus sono andato all’inter dove ho avuto una grande responsabi­lità, perché volevano vincere e avevano bisogno del mio aiuto. Ho giocato con grandi compagni che mi hanno aiutato a farlo. La squadra era fortissima. Vuole che le dica una cosa che non ho mai raccontato a nessuno?

Certo, siamo qui per questo.

Ero alla Juve e giocavo contro l’inter. Materazzi mi fa un’entrata assassina e mi fa male. Come calciatore era cattivo. Ci sta, ma ci sono due modi per giocare da cattivo, e uno è per farti male. Anche Maldini, per dire, giocava da cattivo, ma con un altro obiettivo. Quindi, era Juve-inter 2006, dopo il fallo vado fuori un attimo per curarmi e Capello mi fa: «Ti cambio». E io dico: «No, entro». Volevo tornare in campo solo per ripagare Matrix, perché se uno mi fa una cosa così non mi passa più dalla mente. Ma dopo due minuti ho troppo dolore, non riesco a giocare. Poi vado all’inter, al Barcellona, al Milan... Nella prima partita, il Derby della Madonnina Milan-inter 2010-2011, sono tutti contro di me. Va bene, questo mi carica. Però se non hai il controllo non va bene, perché perdi la testa e fai qualcosa di stupido. Arrivo al rigore, e chi mi ha fatto fallo? Materazzi. Doppio rigore, 1-0 Milan. Nel secondo tempo Matrix mi carica e gli faccio una mossa di Taekwondo. L’ho mandato in ospedale. Stankovic´ mi dice: «Perché l’hai fatto, Ibra?». E io gli rispondo: «Ho aspettato questo momento per quattro anni. Ecco perché». E me ne sono andato. What goes around comes around. Poi il Milan ha vinto, ed è stato un bel momento perché la vecchia società era grande. Galliani per me era bravissimo, un dirigente fantastico. Faceva tutto per la squadra, però aveva anche molta disciplina. Quando non gli piaceva qualco

«MATERAZZI GIOCAVA DA CATTIVO. È PER QUESTO CHE L’HO MANDATO IN OSPEDALE»

sa lo diceva in faccia a tutti e quando andava tutto bene ti dava credito. Dopo due anni gli ho detto: «Galliani, non voglio andare via, sto bene a Milano». Finché, ero al mare, sul cellulare ho visto cinque chiamate perse di fila in 30 secondi, e lì capisci che qualcosa non va. Chiamo Mino Raiola e mi comunica che mi spedivano al PSG. Qual è il suo calciatore preferito?

È sempre stato il Ronaldo brasiliano. Quando giocava tutti volevano copiarlo, il movimento, quello stacchetto, bam-bam. Aveva uno stile troppo elegante. Lui era quello che mi faceva stare davanti alla television­e a guardare la partita. Oggi non ne vedo tanti che mi fanno questo effetto. Forse Mbappé fa la differenza, è giovane, speriamo continui a lavorare duro. A 19 anni è già una star. Spero abbia ancora fame e passione per il gioco, per crescere e fare ancora di più. È difficile non montarsi la testa.

Mino Raiola come l’ha conosciuto? Ero all’ajax, cercavo un agente e un mio compagno, Maxwell, mi ha detto che c’era un agente un po’ mafioso, ma bravissimo. Gli dissi di parlargli, di chiedergli dove potevamo vederci. Il giorno dopo Maxwell ritorna con una busta chiusa. La apro e leggo il messaggio di Raiola: «Fuck You. Segna di più che ti vendo a tutti». Mi ha mandato a fare in culo, spronandom­i a fare più gol. Ho capito subito che era fatto come me.

Se esiste, chi è la prima persona che deve ringraziar­e?

Helena, mia moglie, perché ha avuto tanta pazienza con me. Davvero, la mia avventura non è stata semplice, con due figli, cambiare tante squadre e Paesi. E poi non sono una persona facile. Però grazie a lei e ai ragazzi sono cambiato. Quando ho detto «prego» a Mancini, invece di ringraziar­lo come hanno fatto tutti, non volevo fare il fenomeno o lo sbruffone: io sono così. Quando mi conosci, capisci che sono naturale anche se dico sempre quello che penso. E se hai ragione tu, ammetto di avere sbagliato.

Cosa vuole insegnare ai suoi figli?

A essere indipenden­ti. Voglio che siano capaci di sbrigarsel­a da soli, invece di sperare che io gli risolva tutti i problemi. Gli ho insegnato disciplina, rispetto e responsabi­lità. Più o meno quello che ho ricevuto io, ma ovviamente con più possibilit­à visto che non avevo niente. Sbagliare aiuta a crescere, non posso proteggerl­i sempre. Nessuno è perfetto. Anch’io ho sbagliato tante volte, ma ho sempre imparato dai miei errori, per non commetterl­i di nuovo.

Cucina?

Sì, ma non sono bravo. Se mia moglie non c’è e i miei figli hanno fame preparo una pasta semplice. Spaghetti con il Parmigiano oppure con il burro. A volte, per cambiare un po’, chiamo Helena e le chiedo: «Oh, come si fa?». Maximilian e Vincent complottan­o, fanno di tutto per non farmi cucinare. Mi dicono che preferisco­no la consegna a domicilio, «perché in America si usa così». Sono furbi.

Da dove nasce la sua passione per Quentin Tarantino?

È innamorato del cinema, come io lo sono del calcio. Mi piacerebbe conoscerlo, ascoltare le storie che ha da raccontare. Si vede che ha passione, è un genio un po’ matto, ama quello che fa e vuole trasmetter­lo al pubblico. Un po’ come Muhammad Ali, un altro mio mito, come persona e come atleta. Lo amavo perché faceva le cose come voleva lui. Aveva una sua visione, e la portava a termine. Stessa mentalità mia, non guardo in faccia a nessuno: Tarantino è la storia del cinema, come Zlatan è la storia del calcio.

Le piacerebbe una parte in un film? Sì, di Tarantino! Un bel film d’azione con Dwayne Johnson “The Rock”, dove faccio il cattivo e gli spacco la faccia. Lo metto giù, non c’è problema. Lo rispetto molto, in realtà, rappresent­a il vero american dream, era un ragazzino con problemi di droga, senza una lira, è stato anche un homeless, senza casa. E adesso è on

Top of the World. Invincibil­e. Non devi mai mollare. Se la gente che ti circonda non crede in te, vai per la tua strada. Mi chiedono tutti: «Chi avevi tu come mentore?». Chi avevo io? Nessuno. Mi sono tolto dalla merda da solo.

Perché la passione per il Taekwondo? Quando ero piccolo mio padre aveva tutte le cassette di Jackie Chan e di Bruce Lee. Il Taekwondo mi piaceva perché era come fare boxe con i piedi. Esteticame­nte, è un kick bellissimo. È come ballare in modo veloce, quasi come volare. È il Taekwondo che mi aiuta a fare gol spettacola­ri, a essere competitiv­o e creativo, a rimanere agile e flessibile. Per fortuna ho trovato un club molto profession­ale, il Salim Taekwondo, si allenano come pazzi e ci si mena davvero. Corriamo tutti insieme, ci facciamo forza a vicenda.

Il suo futuro dopo il calcio?

Visto che giocherò ancora, per ora non lo so dire. Come calciatore non si tratta solo di scegliere una squadra, ci sono altri fattori che devono quadrare. Anche negli interessi della mia famiglia. Quindi le condizioni devono essere buone in tutti i sensi, ovviamente. Poi, quando smetterò completame­nte, non so. Seguirò i miei ragazzi per aiutarli a fare le scelte giuste. Il mio futuro sono loro. Ma per il momento, direi che ci vediamo presto in Italia.

«TARANTINO È LA STORIA DEL CINEMA COME ZLATAN È LA STORIA DEL CALCIO»

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 ?? DSQUARED2 ?? Lo svedese Zlatan Ibrahimovi­c´, 38 anni, considerat­o uno dei calciatori più forti del mondo. Dopo quasi due anni con i Los Angeles Galaxy, il 14 novembre scorso ha lasciato la squadra per tornare in Italia, probabilme­nte al Bologna o al Milan. La sua decisione verrà resa nota in questi giorni. Abito e camicia
DSQUARED2 Lo svedese Zlatan Ibrahimovi­c´, 38 anni, considerat­o uno dei calciatori più forti del mondo. Dopo quasi due anni con i Los Angeles Galaxy, il 14 novembre scorso ha lasciato la squadra per tornare in Italia, probabilme­nte al Bologna o al Milan. La sua decisione verrà resa nota in questi giorni. Abito e camicia
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 ??  ?? “Ibracadabr­a” è uno dei tre giocatori al mondo (gli altri due furono Mutu e Carew) ad aver segnato con sette squadre diverse in competizio­ni UEFA per club (Ajax, Juventus, Inter, Barcellona, Milan, Paris Saint-germain e Manchester Utd). Soprabito, maglia e pantaloni ERMENEGILD­O ZEGNA, scarpe CHURCH’S
“Ibracadabr­a” è uno dei tre giocatori al mondo (gli altri due furono Mutu e Carew) ad aver segnato con sette squadre diverse in competizio­ni UEFA per club (Ajax, Juventus, Inter, Barcellona, Milan, Paris Saint-germain e Manchester Utd). Soprabito, maglia e pantaloni ERMENEGILD­O ZEGNA, scarpe CHURCH’S
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