GQ (Italy)

CENTRAVANT­I OPERAIO

Detesta la perfezione, in campo si diverte così e così, ma sul lavoro LEONARDO PAVOLETTI dà il massimo. Tanto che, mentre si prepara a tornare al Cagliari dopo l’infortunio, già sogna gli Europei del prossimo giugno: «Perché sognare è un diritto»

- Testo di FURIO ZARA Foto di CARLO FURGERI GILBERT

Se avete in mente il calciatore in plexiglas, omologato per contratto e oliato di narcisismo, siete di fronte all’uomo sbagliato. Milano, spazio Six Gallery, è l’ora che galleggia verso la cena. Arpionati i 31 anni, Leonardo Pavoletti sfugge all’iconografi­a del calciatore che non prevede imperfezio­ni, smagliatur­e e incompiute­zze. È solare, serenament­e tormentato, curioso di una vita che sa frastaglia­ta, tra scintille di felicità e ombre di fragilità. Sta vivendo giorni di rincorsa dopo un grave infortunio, il Cagliari rivelazion­e della Serie A aspetta i suoi gol. “Pavoloso” – lo chiamano così – racconta la sua speciale diversità.

Come si definisce?

Mi segua: Cristiano Ronaldo è il più forte di tutti, rappresent­a la perfezione. E a me la perfezione non piace, mi “stucca”, come diciamo a Livorno, mi stanca. A me piace sbagliare, sporcarmi con le cose della vita. Mi definisco un centravant­i operaio, come lo è stato il mio idolo, un altro Cristiano, ma Lucarelli, mito di Livorno. Nella vita mi sono sudato tutto. Sono cresciuto sentendomi dire che non sarei mai arrivato a certi livelli.

Chi deve ringraziar­e per il suo successo? Mio padre: mi ha spinto a dare sempre di più. Piangevo di rabbia e di frustrazio­ne, per anni mi sono sentito schiacciat­o dalla sua personalit­à. Ma è tutto servito a diventare ciò che sono.

Quando c’è stata la svolta?

A 22 anni stavo alla Juve Stabia, a Castellamm­are, in serie C. Ero in confusione, vicino alla depression­e, giravo a vuoto. Mi sono detto: «Pavo, qui devi decidere cosa vuoi fare di te stesso». È stata la prima volta in cui mi sono sentito un uomo. L’anno dopo a Lanciano ho segnato 16 gol ed è cominciata la mia seconda vita.

In che famiglia è cresciuto?

Sono livornese di scoglio, poi le spiego cosa significa. Papà Paolo maestro di tennis, mamma Camilla dirigente scolastico, il sergente è lei. Ho un fratello più grande, Lorenzo, lavora in banca. Fino a dieci anni ho giocato a tennis, poi è arrivato il calcio. Da adolescent­e mi sono allungato 20 centimetri in pochissimo tempo, soffrivo per il morbo di Schlatter, le ossa non sostenevan­o la crescita muscolare. All’epoca mi chiamavano il “Conchi” , cioè il “Conchiglia”, per via delle orecchie: le ho belline, ma piccole e tonde.

La sciocchezz­a più grande che ha fatto? Tante, ma la peggiore è quando ho lasciato Elisa, mia compagna da dodici anni e madre di Giorgio. È successo qualche anno fa, ci si vedeva nei ritagli di tempo. Lei in macchina che piange, io che faccio il duro: a ripensarci mi viene ancora il magone. Fortuna che dopo un paio di mesi mi ha ripreso. Eli ha reso la mia vita migliore, senza di lei mi sentirei perso.

Ha tatuaggi?

Zero, sono un panda tra i calciatori. Però da ragazzo – in vacanza a Lloret de Mar con gli amici – ho fatto il piercing sul sopraccigl­io.

È vera la storia del maiale?

Ne ho uno in casa, a Livorno, dai miei. Si chiama Mou, è il nome che si dà ai maiali

vietnamiti. Era uno scricciolo, ora pesa più di cento chili. Ci sono affezionat­o, e pure lui a me. Senta questa: in giardino abbiamo una casina di legno. Una sera io ed Eli siamo lì a farci gli occhi dolci finché non sentiamo un rumore tremendo: era Mou che sbatteva la testa sulla porta, voleva entrare, non riconoscev­a il nostro odore ed era infuriato. Abbiamo passato la notte in bianco, barricati dentro con il terrore che Mou sfondasse la porta e ci caricasse.

Si diverte a giocare a calcio? Mmm… no.

Lei scherza, vero?

Non mi diverto, dico sul serio. Si tratta di un lavoro, lo faccio meglio che posso ma tutto finisce lì. Sono un tipo strano: a casa non guardo mai le partite alla tivù, troppa ansia, finisce che mi immedesimo e allora meglio lasciar perdere.

Il calcio è sempre più inquinato dal razzismo. Che vie d’uscita vede?

È una situazione desolante. Lo stadio è lo specchio della nostra società: ti vomitano addosso di tutto. Penso con tristezza a questi poveri ragazzi di colore che vengono a giocare da noi: ma che colpa ne hanno?

Qual è l’insulto che l’ha ferita di più? Quando mi davano del dopato dopo la squalifica: 40 giorni fermo per colpa di uno spray nasale che compri in farmacia.

Si parla di omosessual­ità nel calcio?

«NEL MIO AMBIENTE, I GAY SONO COSTRETTI A NASCONDERS­I»

È impossibil­e che non ci siano calciatori omosessual­i. Mi spiace che si nascondano, ma posso capirli. Il nostro è un mondo maschilist­a, fatto di machismi.

Finora qual è il momento più alto della sua carriera?

Di sicuro il gol in nazionale, al Lichtenste­in, nell’unica partita che ho giocato. Entro e segno subito: ho reso babbo e mamma orgogliosi di me.

Lesione del legamento crociato anteriore e del menisco esterno del ginocchio sinistro. Fa male solo a dirlo. Fine agosto, salto, metto il piede a terra, sento un rumore forte e secco. Capita, non ne faccio un dramma e non dico che sono sfortunato. Sto lavorando sodo, spero di tornare a marzo. A giugno 2020 ci sono gli Europei: avrò pochi mesi a disposizio­ne, voglio convincere Mancini a convocarmi.

Il suo Cagliari è la sorpresa della Serie A. L’europa è possibile?

È un momento bellissimo, è cambiata la mentalità, si ragiona da grande squadra. La qualificaz­ione in Europa è un sogno e sognare è un diritto.

Cosa la rende felice?

Mio figlio Giorgino quando lo aiuto a camminare, gli faccio il bagnetto, gli canto le canzoncine. «Un cocomero tondo tondo, che voleva essere il più forte del mondo...». Ce l’ho in testa tutto il giorno, ogni tanto parto e la ripeto da solo.

Legge?

Tengo sempre con me Il vecchio e il mare di Hemingway. Mi ha insegnato che sei da solo nella tua barca e ti devi arrangiare.

Che rapporto ha con i social? Leggero. Di notte mi sveglio di colpo perché mi viene in mente una cosa divertente, il giorno dopo la scrivo.

«FINALMENTE IL CAGLIARI RAGIONA DA GRANDE SQUADRA»

In cucina come se la cava? Domanda di riserva? Diciamo che vado matto per il “5 e 5” di Livorno, un panino farcito con la torta di ceci. E che mi piace il buon vino. Aggiungo anche che mi piace essere un pochino brillo, avere quella sensazione lì, di allegro stordiment­o. A casa mia non manca mai nemmeno una bottiglia di gin: non bevo mai da solo, però, meglio in compagnia dopo una bella cena.

Come spende i soldi che guadagna? Li investo. Non sono uno spendaccio­ne. L’ultimo acquisto è una coppola alla Peaky Blinders, la mia serie tv preferita. Mi sono concesso un solo lusso: la Porsche 911, tutta nera. La sognavo da ragazzo. Ora ci spieghi: cosa significa essere un livornese di scoglio?

Il vero livornese al mare va sugli scogli, appunto, non sulla sabbia. Panino “5 e 5”, asciugaman­o, sole. La felicità sta nelle cose semplici, no? È bello anche se scomodo, in fondo come la vita: per stare bene e goderti il sole un po’ devi soffrire, io lo so bene.

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Abito LUIGI BIANCHI MANTOVA, camicia e cravatta ERMENEGILD­O ZEGNA, scarpe IGI&CO
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Cappotto TAGLIATORE, maglia DIKTAT, pantaloni LARDINI Fashion Editor: Nicolò Andreoni. Grooming: Roman Gasser using MAC Cosmetics and Oribe Haircare Italia

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