Le stagioni della vita secondo Gabriele Muccino
L’IDEA DI ARROGANTE IMMORTALITÀ DELLA GIOVINEZZA. E POI LA CONSAPEVOLEZZA CHE QUEL CHE È FATTO È FATTO. E VOLER ETERNAMENTE POTER INIZIARE TUTTO DACCAPO. È LA VITA, COME LA MODELLA “LUI”
È arrivato gennaio, di nuovo un nuovo anno. Il senso di assoluto tipico dell’adolescenza che leggo negli occhi dei miei figli mi ricorda il mio alla loro età.
È la vita che si ripete in un ciclo infinito con l’accettazione delle cose realizzate o mancate connaturata all’età adulta. Accettazione è probabilmente la parola chiave di tutta la nostra esistenza, ma questo lo si può capire solo se avete già superato gli anta. Da adolescenti siamo definiti da una necessaria arroganza vitale. Crediamo che saremo migliori dei nostri genitori, dei nostri amici, dei nostri fratelli maggiori. Crediamo di avere tante verità in tasca e che il mondo sia mutabile. È un’arroganza strutturale e necessaria: serve a dire a noi stessi in primis che siamo diversi. E che faremo grandi cose. Ci sentiamo immortali ed eterni, ed è solo quando questa idea si rivela per quello che è – una grande illusione – che iniziamo a prendere le misure con le nostre reali esistenze. È spesso riduttivo attribuire all’adolescenza gli anni più belli. Per me sono stati i più difficili: ero un ragazzino profondamente smarrito, cercavo un consenso all’interno di una società di uomini a cui avrei voluto appartenere, ma non sapevo come. Prima ancora ero stato un bambino solitario: non infelice né malinconico, ma assorbito in uno stato di contemplazione del mondo che mi procurava una felicità quasi ipnotica della natura. Quando da adolescente mi sono forzato a interagire col mondo, a comunicare chi fossi, ho scoperto di non avere ancora una mia voce: dovevo mettere una maschera, quella che gli altri volevano che indossassi, e questo mi rendeva ancora più smarrito, frustrato e irrisolto.
Sono dovuto arrivare ai miei trent’anni, la stessa età in cui ho fatto il mio primo film, per iniziare a risolvere quello che avevo dentro, trasmettendolo all’esterno attraverso il cinema. Essere un regista mi ha permesso di raccontare chi fossi io e quale fosse il mio punto di vista sulla vita, sulle relazioni umane, sui rapporti tra uomini e donne, genitori e figli. Il cinema è stato un privilegio magnifico, uno strumento terapeutico, un mezzo per raccontare la mia esistenza: attraverso le immagini e i personaggi che tratteggiavo, dicevo anche di me. E ho trovato la mia collocazione. Esistendo per gli altri, esistevo anche per me.
Il cinema ha rappresentato la mia porta verso il mondo: mi ha letteralmente salvato la vita. Sarei imploso in una gabbia di infelicità se non avessi cercato e trovato una forma di comunicazione capace di farmi sentire vivo e visibile. Perché la comunicazione al di fuori dei nostri mondi interiori è fondamentale per esorcizzare e superare la fragilità che la vita ci impone e che non potrà mai risolvere al nostro posto. Non è vero che con il passare degli anni i fragili diventano più forti. La realtà è che col tempo la vita ci ricorda la nostra reale dimensione, che spesso è più piccina e meno straordinaria di quella che credevamo da ragazzi.
È così che si entra nella seconda fase, che è anche quella che racconto nel mio nuovo film, Gli anni più belli. È il mio film più articolato e forse anche epico, perché non si muove sulle nevrosi dell’individuo alle prese col proprio ego, ma sullo scorrere del tempo. Siamo modellati dal tempo. Crediamo di essere in controllo delle nostre vite quando invece l’unico grande burattinaio è lui, il tempo che passa e ci modifica lentamente, ci fa accettare le cose che ci parevano inaccettabili, ci disillude, ci disincanta eppure poi ci incanta di nuovo, all’improvviso, facendoci sentire adolescenti anche quando non lo siamo più. Il tempo ha sempre del tempo davanti
a sé ed è così che ci sussurra che possiamo ancora recuperare e rilanciare le nostre esistenze, per cambiarle in meglio. Il tempo è però implacabile. Non sa tornare indietro.
Nel decennio tra i 40 e i 50 realizzi inesorabilmente che quel che è fatto è fatto, e puoi soltanto cercare di migliorare l’incompiuto che porti dentro. Ma certi errori che abbiamo compiuto sono irreversibili, e li hai fatti, e realizzi che ormai hanno definito il nostro corso e ci hanno portati in luoghi che non ci aspettavamo di conoscere. Non è facile ammetterlo, ma sarebbe insolente pensare che non accada: sbagliare è inevitabile. Non siamo attrezzati davanti agli imprevisti della vita. L’imprevisto ci coglie di sorpresa, senza preavviso, ed è così che ci costringe a fare delle scelte. A volte saranno giuste, a volte il contrario. Ma è così che veniamo definiti dalle scelte che facciamo. È così che ci ritroviamo a un certo punto della nostra vita su un percorso segnato, nel quale cerchiamo di giocare il tempo nel modo migliore possibile.
Potremmo chiamarlo il tempo dei bilanci. Ed è cruciale e doloroso poiché serve a prepararci a entrare nella terza fase della vita, e a farlo consapevolmente: senza arroganza, senza ignoranza. Senza cioè ignorare la nostra fallibilità: sapersi mettere in discussione ci permette di diventare consapevoli della nostra vulnerabilità. La saggezza attribuita ai vecchi altro non è che conoscenza, quella conoscenza che permette di vedere da lontano gli errori di quelli più giovani di noi e di ricordarci dei nostri slanci sbagliati. Io sono sempre stato impetuoso, impavido… e mi vantavo con me stesso di esserlo. Ma sbagliavo. E molti errori li ho fatti proprio per impeto, perché ho voluto fagocitare molte cose prima di osservarle e contemplarle prima.
Da quando ho compiuto 50 anni ho iniziato a riflettere in maniera molto più spaventata sulla mia vita. L’idea che manchi un decennio per essere un 60enne mi ha turbato: sono cambiati la prospettiva sulle cose e il modo di pensare al futuro, e non ci trovo nulla di gradevole in questo diverso punto di vista sulla vita.
Non c’è nulla di gradevole nel diventare adulti. E dico adulti perché non posso e non voglio e non riesco ancora a pronunciare la parola “vecchi”. Quando realizzi che l’infinito si accorcia come le stagioni estive, quando di colpo vedi le foglie gialle e l’inverno alle porte, inizi a rimpiangere quell’arroganza della gioventù, l’illusione che la vita fosse vasta e infinita, piena di seconde e terze possibilità per ribaltare tutto e ricominciare daccapo.
E questo senso di paura, o di presa di coscienza della nostra fragile esistenza, non viene mitigato dalle cose fatte, anche se sono state straordinarie: i miei sogni di adolescente sono stati superati enormemente dalla vita. Ma il fatto di sentirsi realizzati non conforta. Vorrei eternamente poter iniziare tutto daccapo. La febbre che si ha all’inizio del percorso è impagabile. Restano, appunto, la consapevolezza, l’accettazione, un’idea sul mondo, che, paradossalmente, assomiglia sempre di più a quella che si aveva da bambini. Quando si era soli, vulnerabili, e così piccoli davanti all’ignoto. *Dal lancio internazionale con L’ultimo bacio,
5 David di Donatello, alla chiamata di Will Smith come regista di La ricerca della felicità:
Muccino è uomo da box office e A casa tutti
bene è stato il film italiano più visto del 2018