L’elogio della lentezza di Michel Comte, l’indagine sul maschio di Alona Pardo
A Istanbul la vita va avanti: la politica con i suoi proclami e i carri armati al confine con la Siria qui sono solo un’eco stemperata dall’odore dei caffè o dei giardini, numerosi vicino alla Dirimart Gallery dove fino a Natale ho allestito Light IV, nuova tappa del mio progetto artistico sugli effetti del climate change. Ho esposto un muro lungo 20 metri e alto 3, dipinto con inchiostro e polvere, un miscuglio di roccia e fuliggine che si trova solo al Polo Nord: si chiama crioconite.
I ghiacciai avanzano o retrocedono: da sempre sono creature mutanti, ma ora il loro incedere è contaminato dall’inquinamento. L’ho compreso davvero solo quando sono andato a Spitsbergen, la più grande isola di ghiaccio delle Svalbard, in Norvegia. Ci tornerò la prossima estate su una barca di 36 metri: sarà un’installazione d’arte itinerante, un vascello surreale carico di luce in un luogo dove la bellezza si sta corrompendo. Nel frattempo, espongo i miei ghiacciai artistici a latitudini improbabili, come qui in Turchia: l’ho fatto anche in Italia, al Maxxi di Roma e alla Triennale di Milano. Getto luce su ciò che per troppo tempo non abbiamo voluto vedere e se continuo a chiamare
Light questo mia ricerca in progress è solo perché resto un inguaribile ottimista. All’inizio eravamo in pochi a studiare il climate change: nel mondo dell’arte direi forse solo Olaf Olafsson e io. Pessimisti ci dicevano. Visionari. Lo sappiamo come funziona: prima ti danno del matto, poi capiscono che hai ragione, infine ti seguono.
Tra qualche mese sarò un’altra volta in Turchia: tornerò ad Harran, a sud del Paese, al confine con la Siria. La situazione nell’area è critica, ma finora vi ho potuto lavorare senza troppi problemi: con il sostegno del governo
mi è stata affidata una zona di 40 chilometri quadrati dove progettare un’enorme installazione d’arte. Non è un posto come gli altri, Harran sorge su una delle aree archeologiche più importanti al mondo: qui, nel deserto, sono emerse delle canalizzazioni che pare riprendano la simbologia della costellazione di Orione. Serviranno sei anni per portare a termine i lavori, senza intoppi: operiamo in collaborazione con l’università e maestranze locali e coinvolgeremo nella costruzione anche i rifugiati siriani che sono in zona. L’idea è di realizzare un Pantheon naturale accanto agli antichi tracciati dei canali in pietra, primordiali forme di civilizzazione. Lo considero la mia risposta al Double Negative di Michael Heizer nel deserto del Nevada. Tutto è collegato: recuperiamo il passato, guardiamo con fiducia al futuro. Il presente invece è doloroso. Conosco questo tipo di male, ho lavorato per anni nelle zone di guerra accanto alla Croce Rossa, sono stato ferito anch’io e fatico ancora a parlarne. Preferisco citare Goya: c’è grande poesia nell’immagine della sofferenza. In Turchia persino il dolore mi pare differente: mi angosciano più le foto del muro tra Stati Uniti e Messico di quel che vedo qui. Il deserto di Harran mi ha infuso un’energia nuova, mi fa sentire diverso. Forse, lo sono davvero. Penso a me, quel ragazzo di Zurigo appassionato di volo come suo papà, e affascinato dall’arte del restauro: mai avrei pensato di fare il fotografo. È stato l’incontro con Karl Lagerfeld a stravolgermi la vita. Penso a Franca Sozzani e ai tanti progetti realizzati insieme, alle celebrità che ho ritratto, ai brand per cui ho lavorato fino a quando, dieci anni fa, ho deciso di prendere pieno controllo del mio destino. Ho svolto a lungo un mestiere che è di puro servizio: da fotografo presti il tuo sguardo alle intenzioni di altri. Mentirei se dicessi che è facile lasciarsi tutto alle spalle, ma dopo 35 anni nel Circo Massimo della moda, vorrei dedicare i prossimi 35 a progetti lenti. Light è uno di questi. Continuerò a lavorare per il futuro del pianeta Terra, in particolare di una risorsa fondamentale come l’acqua: sono convinto che l’arte oggi sia la forma più efficace di comunicazione, l’unica che possa incidere sui nostri comportamenti. Deve uscire dai musei però, andare tra la gente, diventare public art. Voglio portare l’arte contemporanea in luoghi straordinari (un confine di guerra, il Polo Nord) perché penso che abbia molto da dire. Oggi credo nei progetti slow, misurabili in mesi o in anni: ho scoperto il potere liberatorio della lentezza.
DOPO 35 ANNI NEL CIRCO DELLA MODA, VORREI DEDICARE I PROSSIMI 35 A PROGETTI LENTI. LIGHT È UNO DI QUESTI: LAVORERÒ PER IL FUTURO DEL PIANETA ...