GQ (Italy)

MARCO PANTANI

Compirebbe 50 anni questo mese. Così lo ricorda il mondo del ciclismo

- Testo di PAOLO CONDÒ

Se non ci fosse stata quella terribile notte di 16 anni fa, MARCO PANTANI raggiunger­ebbe questo mese il traguardo del mezzo secolo. A tenerlo in vita sono i ricordi di chi gli fece da gregario nelle salite più impervie e di chiunque abbia avuto il privilegio di pedalare con il Pirata

Nessun ciclista esce mai davvero dal gruppo. Quando decide di averne abbastanza di salite sempre più lunghe e di discese sempre più brevi, con un ultimo sforzo solleva la bicicletta per appenderla al chiodo e diventa qualcos’altro: direttore sportivo

– che è un lavoro tipo l’allenatore di calcio

–, addetto all’organizzaz­ione delle corse, trait d’union fra sponsor e squadre, trovarobe al villaggio di partenza e perdigiorn­o al quartierta­ppa dell’arrivo. Se proprio devi distanziar­ti da quel mondo, perché la famiglia ha una salumeria o si è trovato il tempo per diplomarsi, qualche puntata in carovana nel mese del Giro si fa comunque, perché per un ciclista non c’è ritorno a casa più grato. I corridori che hanno smesso si mescolano, si incrociano e si abbraccian­o, pesciolini confusi nella corrente di popolo che sempre accompagna le tappe della grande corsa. Sembrano tutti uguali, ma non è così: alcuni sono speciali e lo scorgi quando si riconoscon­o fra loro, oppure quando ci parli e avverti un orgoglio lontano, intriso di malinconia. Non te lo dicono subito, che hanno corso con Marco Pantani. Amano che il neofita si avvicini alla verità col suo passo, colleghi qualche scheggia di racconto col calendario della memoria, «ma se tu correvi nel ’98 allora... Ma in che squadra eri?». La rivelazion­e – un “Mercatone” sussurrato come un segreto antico finalmente svelato – getta una nuova luce sul tuo interlocut­ore. Dove c’era un autista, adesso vedi un cavaliere. Uno scudiero fedele del capitano più nobile che si sia mai visto. Un sopravviss­uto di un’epopea veloce, intensa, abbacinant­e. Se fosse ancora con noi, il 13 gennaio Marco Pantani compirebbe 50 anni.

Ho seguito otto Giri d’italia, dal 2006 al 2013, ma l’ho fatto troppo tardi: Marco già non c’era più, morto nel 2004 – a 34 anni! – in quella dannata camera d’albergo di Rimini. Morto per overdose di cocaina e antidepres­sivi, micidiale cocktail che non finirà mai di alimentare sospetti, dietrologi­e,

inchieste giornalist­iche più o meno serie, rimdella pianti soprattutt­o, e pure rimorsi. Passano gli anni e l’esercito di Pantani non si placa, la sua è una rabbia inestingui­bile, e la capisco anche se chiunque mi abbia raccontato quei giorni forte di un’esperienza diretta, ha sempre escluso complotti e coinvolgim­enti criminali su cui molto si è fantastica­to. Ma la tragedia è stata troppo repentina per farsene una ragione, e l’ira dei tifosi è comprensib­ile. Chi sa – i suoi vecchi gregari –è avvolto invece nella malinconia perché in molti hanno provato a salvare Marco, ad aiutarlo a salvarsi almeno, e hanno fallito. Portano il peso di un’esperienza esagerata, sostenere un fuoriclass­e nel suo assalto riuscito alle vette più impervie, e non riuscire a frenare la sua terribile discesa nell’abisso. È per questo che quando si ritrovano continuano a commuovers­i, i gregari di Pantani: condividon­o l’indicibile, e incrociand­osi se lo rammentano l’un l’altro.

L’autista si chiama Mario Traversoni, porta a spasso gli ospiti vip del Giro sulla macchina blu dell’organizzaz­ione, non è facile guidare a lato del gruppo, ci vuole un pilota più che uno chaperon. Mario era un buon velocista nella squadra sbagliata, perché se hai Pantani punti ovviamente alla vittoria finale e costruisci un team capace di aiutare il campione in montagna: scalatori, passisti, se avanza un posto per uno sprinter okay, ma prima deve farsi il mazzo ad aiutare il capitano. I grandi velocisti hanno i

“treni”, quattro o cinque compagni in grado di alzare progressiv­amente l’andatura negli ultimi dieci chilometri fino all’esplosione del campione nei 200 metri finali. Mario era una discreta locomotiva senza vagoni, ma ugualmente una tappa del Tour se la portò a casa, nel ’97. Lo stesso ’97 in cui il Panta, nel lungo fondovalle prima di attaccare la terribile scalata dell’alpe d’huez, disse improvvisa­mente «tirate a tutta, che oggi vinco», e allora Mario e gli altri si misero in testa a menare come gli schiavi rematori nelle vecchie triremi, e mancava soltanto il tizio che percuote il tamburo per dettare il ritmo. «Arriviamo a inizio salita che le fughe sono state riassorbit­e, e mezzo gruppo è già cotto dalla fatica al secondo tornante. A quel punto mi rialzo esausto, e il resto tappa lo vivo nei commenti della gente a bordo strada, che ha visto passare Marco come una freccia – e quella è una salita assassina – e ascolta dalle radioline il suo approssima­rsi al traguardo, in solitudine».

Traversoni è anche uno della pattuglia che nel ’98 scortò Marco alla vittoria nel Tour, bis del Giro vinto poche settimane prima, accoppiata rarissima nella storia del ciclismo perché vuol dire andare forte per tre mesi di fila, e non è semplice. Oggi racconta queste avventure agli invitati del Giro – una volta ho vissuto il privilegio con Jarno Trulli, che di aneddoti non era mai sazio – e non calca la mano sulla straordina­rietà dell’esperienza vissuta. Non ne ha bisogno, come Marco Velo che in quel mitico ’98 partecipò al trionfo del Giro e poi è rimasto col Pirata anche dopo, negli anni bui, quelli della depression­e alla fine imbattibil­e, ma che pure in certe giornate era ancora rimontabil­e. La sua testimonia­nza, come altre qui contenute, è stata raccolta in volume (Pantani era un dio) da Marco Pastonesi: tutte assieme compongono un coro, ovviamente di montagna. C’è Marco cantato dai suoi. Velo, appunto, era con lui nel 2000 a Courchevel, quando ormai Madonna di Campiglio ne aveva incrinato la saldezza psicologic­a esponendol­o a mille paure: «Quel giorno lo vedevo pedalare bene, ma lui non si decideva a darci l’ordine di pestare sui pedali per alzare il ritmo – il preludio dell’attacco – e diceva di non sentirsela. Io ruppi gli indugi e andai in testa

a tirare seguito dagli altri, Marco facesse un po’ come credeva. Beh, alla fine partì e andò a vincere la tappa».

Tornando al Tour del ’98, l’impresa massima di Pantani, sono molto tenere le parole di Riccardo Forconi, un altro dei gregari di quell’avventura: «Non ho mai pensato alla mia gloria, e sì che un po’ di benzina ne avevo. Mai. Ho sempre pensato a Marco, era la regola alla Mercatone e a me piaceva così. Quando è finita, ho smesso di correre: dopo essere stato un gregario di Pantani per chi altro poteva valere la pena di farsi il mazzo?». Marco Artunghi: «È stato un privilegio faticare per lui, perché la sua immagine ci portava al centro del mondo. Il mio compito era quello di stargli vicino, estrarlo dal fondo del gruppo dove spesso si inabissava, proteggerl­o dalle cadute e dai ventagli, quel particolar­e modo di correre in gruppo nelle zone ventose». Massimo Podenzana: «Una volta mi disse di sfilarmi per andare a prendere la chiave del sellino dall’ammiraglia e portarglie­la, prima di attaccare voleva che tutto fosse sistemato per il meglio. Me lo disse col tono di chi non si aspetta obiezioni, ma doveva aver dimenticat­o che l’ascesa era iniziata da un po’: il che significa rallentare fino a farsi raggiunger­e dall’ammiraglia, ricevere la chiave ma poi scattare a lungo in salita per tornare da lui. Una fatica mostruosa». Orlando Maini, tra i suoi direttori sportivi nel ’98: «In cima al Galibier, nell’attimo culminante dell’attacco decisivo, in mezzo alla tormenta venni preso dal panico, perché dovevo passargli la mantellina per proteggerl­o dal freddo in discesa e pur essendo venuto su in macchina mi sentivo più stanco di lui. Temevo di sbagliare qualcosa, di rallentarl­o, di rovinare tutto. Quando l’operazione andò a buon fine fu un sollievo».

Marco Pantani venne fermato prima della penultima tappa del Giro d’italia ’99, a Madonna di Campiglio, perché il suo ematocrito aveva superato il valore limite di 50, oltre il quale viene considerat­o pericoloso. Tecnicamen­te non era una squalifica per doping, ma un semplice stop a tutela della sua salute: in pratica, le regole dell’epoca consentiva­no ai ciclisti di spararsi l’epo nelle vene fino a quel valore, perché il sangue restava sufficient­emente fluido. Era comunque doping, ma siccome lo facevano tutti Pantani si sentì preso di mira – aveva perso un Giro ormai vinto – e non riuscì a elaborare la delusione. Meno di cinque anni dopo sarebbe morto, chiusura di una parabola che diversi suoi compagni hanno cercato di rallentare senza successo. Beppe

Martinelli, il suo direttore sportivo storico, nel 2001 cercò di convincerl­o dicendogli che se non avesse ripreso a vivere come un atleta il loro sodalizio si sarebbe interrotto, e Pantani lo salutò seduta stante.

I gregari di Marco si incrociano ancora, più o meno tutti impegnati nel ciclismo in varie forme, e se hanno un codice d’intesa, una parola d’ordine per far parte del club, non è dato sapere. Sono gli occhi a tradirli, gli sguardi che si scambiano da superstiti del Titanic, tanto grande la prima parte della storia, tanto tragica la seconda. Pantani oggi avrebbe 50 anni, ed è bello immaginarl­o nel suo chiosco a Cesenatico, magari con un filo di pancetta, mentre brinda con tutta la squadra dai capelli imbiancati. I suoi scudieri, per sempre fedeli.

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 ??  ?? Il ciclista Marco Pantani, nato a Cesena il 13 gennaio 1970, considerat­o il miglior “scalatore” di sempre. È morto il 14 febbraio 2004 in un hotel di Rimini, dopo una forte depression­e, a causa di un’overdose di cocaina e psicofarma­ci
Il ciclista Marco Pantani, nato a Cesena il 13 gennaio 1970, considerat­o il miglior “scalatore” di sempre. È morto il 14 febbraio 2004 in un hotel di Rimini, dopo una forte depression­e, a causa di un’overdose di cocaina e psicofarma­ci
 ??  ?? Alcuni oggetti di Marco Pantani conservati nel museo di Cesenatico dedicato al campione (pantani.it).
Da sinistra a destra: il casco indossato nel Tour de France 1998; la sella personaliz­zata utilizzata dal 1998 al 2000
Alcuni oggetti di Marco Pantani conservati nel museo di Cesenatico dedicato al campione (pantani.it). Da sinistra a destra: il casco indossato nel Tour de France 1998; la sella personaliz­zata utilizzata dal 1998 al 2000
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 ??  ?? Le scarpe indossate da Pantani nella stagione 2001. È l’ultimo ciclista (dopo Fausto Coppi, Jacques Anquetil, Eddy Merckx, Bernard Hinault, Stephen Roche e Miguel Indurain) ad aver vinto nello stesso anno (’98) sia il Giro d’italia che il Tour de France
Le scarpe indossate da Pantani nella stagione 2001. È l’ultimo ciclista (dopo Fausto Coppi, Jacques Anquetil, Eddy Merckx, Bernard Hinault, Stephen Roche e Miguel Indurain) ad aver vinto nello stesso anno (’98) sia il Giro d’italia che il Tour de France

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