Tutte sue le città
22 luoghi in 270 immagini: e l’architettura è poesia
Spinto da uno sguardo analitico, da architetto, Gabriele Basilico amava ritornare nelle stesse città, dove, viste dal suo obiettivo, anonime e grigie periferie sono diventate poesia per gli occhi. Con 270 fotografie, scattate tra gli anni Settanta e i Duemila, la mostra Metropoli al Palazzo delle Esposizioni di Roma (dal 25/1 al 13/4) racconta 22 di quei luoghi: tra loro, Beirut, Lisbona, Buenos Aires, Istanbul, Mosca, New York, Shanghai. Qui, il ricordo di Giovanna Calvenzi, co-curatrice della mostra e compagna del fotografo, scomparso nel 2013.
Che cosa lo affascinava di una città?
I confini, i limiti, le zone industriali, i luoghi nei quali la città sembrava potersi espandere.
Ce n’è una che amava più delle altre? Comincerei da Beirut, dove si era recato per la prima volta nel 1991, subito dopo la fine di una lunga guerra. E poi gli piaceva molto Roma. Ma in un film girato su di lui, alla domanda su quale fosse la città che più amava, aveva risposto sorprendentemente Genova. La sua città d’elezione rimane però Milano. Delle città amava quello che chiamava il tessuto medio. C’è una frase, scritta da lui, che risponde bene alla domanda.
La estrapoliamo da (Contrasto, Roma 2013): “Fotografare la città non vuol dire scegliere le migliori architetture e isolarle dal contesto per valorizzare la loro dimensione estetica e compositiva, ma vuol dire per me esattamente il contrario. Cioè mettere sullo stesso piano l’architettura colta e l’architettura ordinaria, costruire un dialogo della convivenza, perché la città vera, la città che m’interessa raccontare, contiene questa mescolanza tra eccellenza e mediocrità, tra centro e periferia, anche nella più recente ricomposizione dei ruoli: una visione dello spazio urbano che, con un po’ di retorica, una volta avremmo definito democratica”.
Crede che la laurea in architettura abbia forgiato il suo sguardo?
Credo che si sentisse sempre e comunque architetto. Lo era nello sguardo che dedicava allo spazio costruito, alle relazioni degli edifici tra di loro, alle sovrapposizioni che la storia e il tempo creano nelle città.
Diceva: il grattacielo Pirelli è un mio oggetto del desiderio. Era l’unico?
No, non era il solo. Nel 1985 con Fulvio Irace aveva pubblicato Immagini del Novecento, un’indagine sulle architetture milanesi realizzate tra il 1919 e il 1939: le opere di Muzio, Portaluppi, Andreani, Ponti, Moretti, per citarne solo alcuni, lo stregavano.
Un’immagine che avrebbe voluto scattare ma che non è riuscito a portare a casa?
Amava molto la Torre Rasini, progettata da Gio Ponti ed Emilio Lancia, che domina i giardini pubblici di via Palestro, a Milano. Voleva fotografarla da un punto di vista quasi frontale. Tutte le mattine, andando in studio, ci passava davanti. Ci ha provato per un’estate, ma una Fiat 850 color nocciola è rimasta parcheggiata di fianco all’ingresso per tutto agosto. Alla fine ha vinto lei: Gabriele si è rassegnato a cambiare prospettiva.