Ripassare dal via
Cuoco, piazzista, barista: tutte le prime volte dell’autore di The Wire
Se c’è un incontro che ha cambiato la vita a milioni di persone è quello tra lo scrittore George Pelecanos e il produttore David Simon. Nel gelo, alla fine del 2001, a un funerale. Tornando a casa sulla stessa macchina, Pelecanos, autore accreditato dei thriller metropolitani più convincenti del periodo, si è sentito chiedere se gli andasse di dare una mano alla stesura di una nuova serie per Hbo, The Wire. C’era bisogno di «un romanzo per la televisione, scritto da chi avesse già raccontato una città dal basso». Pelecanos aveva limitato il suo raggio di azione a Washington e The Wire sarebbe stata ambientata a Baltimora. Era abituato a bastare a se stesso e avrebbe dovuto fare squadra. Be’, ha accettato. E da allora a oggi ha chiuso altri dieci romanzi, scritto la fiction e continuato l’esperienza con altre due serie, Treme e The Deuce.
Di origine greca, 62 anni, George Pelecanos è stato cuoco, lavapiatti, piazzista di prodotti elettronici e di scarpe, barista. Tutti lavori che ha poi fatto fare ai personaggi dei suoi libri: il ventesimo, L’uomo che amava i
libri, dice di come le persone possano cambiare. Basta un po’ di solidarietà tra simili. C’è un giovane carcerato, Michael Hudson, che viene riportato sulla buona strada dal gusto per la lettura che gli passa Anna, la bibliotecaria della prigione. Una volta fuori, Michael finirà nel gorgo di un detective e di un ex poliziotto che rubano ai criminali, vendicano prostitute e menano neonazisti. Un testo pieno di dolore e dolcezza, un’estenuante gimcana nella periferia di Washington.
Com’è nato il libro?
Conduco programmi di lettura nelle carceri da 20 anni. Un giorno ho conosciuto una bibliotecaria: è partito tutto da lì.
Il protagonista dice che con un libro in mano non si sente più in cella. A chi appartiene in realtà questa dichiarazione d’amore? A lui, ma anche a me. Ho sentito molti carcerati dirlo. E questo romanzo celebra la capacità di cambiare, di ricominciare. La mia stessa vita ha inanellato una serie di prime, nuove volte.
Quanto contano i lavori che ha fatto in passato per la sua scrittura?
Ho aiutato mio padre a servire nel suo diner finché ho avuto 30 anni: la gente che ho incontrato in quel luogo è alla base del mio lavoro e, da allora, mi sono abituato a parlare con chi sta al di qua, ma anche al di là, della legge.
Firma 20 romanzi. Dove trova l’energia? Nelle partenze, nella promessa di qualcosa di nuovo. È il sogno a farmi andare avanti.
Ogni volta è un’esperienza diversa?
Sì, e l’inizio è per me la parte più bella. Mi piace fare ricerche per strada, incontrare sconosciuti, essere ispirato dalla loro vita.
Perché le piace il genere poliziesco? Perché offre un impianto narrativo che mi corrisponde, con conflitto annesso: senza di quello, non c’è storia. Mi intriga l’eroismo dei poveri, la lotta quotidiana. Parlo di chi si alza ogni giorno per lavorare senza grandi ricompense, ma che si batte per andare avanti.
Narrativa e tv: qual è la differenza?
Un libro viene fuori come lo immagino solo se ho il controllo totale: il prezzo da pagare è la solitudine, ma mi piace. Una serie tv nasce in mezzo a un gruppo: è senz’altro più divertente.
Ha altro che pensa di poter imparare? Ho sempre amato i western e le storie ambientate nell’america rurale. In parte perché sono figlio di una città, in parte perché è il genere cinematografico più coinvolgente. Mi piace come lo hanno girato gli italiani: parlo di Sergio Leone e di Sergio Sollima.
C’è il rischio che i romanzi somiglino troppo alle sceneggiature?
In effetti. I romanzi andrebbero separati dai film: anche i più importanti, come Il grande
Gatsby, stridono sul grande schermo. Ricorda la prima volta in cui ha sentito di aver scritto qualcosa di buono? Quando ho smesso di usare la prima persona e sono passato alla terza: solo così sono riuscito a entrare nella testa di personaggi con esperienze diverse dalla mia.
MICHELE NERI