RIVINCITA MASCHILE
La moda uomo, sempre più sensibile, nel 2019 ha fatturato 10 miliardi di euro. Crescendo quasi il doppio di quella femminile
La moda non è mai stata solo fenomeno di costume. Ma negli ultimi 30, 40 anni è diventata una vera e propria industria: nel nostro Paese la seconda più importante. Sarebbe sbagliato però ridurla esclusivamente a volano economico: si tratta di un’alchimia tra cultura, società, economia e, in tempi più recenti, finanza. Ha subito – o cavalcato, a seconda dei punti di vista – la rivoluzione digitale e, aspetto forse più importante, riflette i grandi cambiamenti che stanno attraversando il mondo a partire dalla sostenibilità, sia ambientale che sociale. La moda maschile, in questo periodo, è un caso ancora più interessante rispetto a quella femminile: cresce a tassi quasi doppi. Gli uomini, indipendentemente dal loro orientamento sessuale, sembrano aver capito quanto sia divertente dedicarsi alla scelta di abbigliamento e accessori. Per assecondare i propri gusti, magari per sentirsi parte di una tribù, ma soprattutto per vivere meglio nella propria pelle e con gli altri. I dati diffusi alla vigilia della prima tranche di appuntamenti dedicati alla moda maschile del 2020 (Pitti Immagine Uomo a Firenze e la Settimana della Moda di Milano) parlano chiaro: nel 2019 il fatturato del settore è salito del 4% sfiorando i 10 miliardi di euro, con un export del 70%. Secondo le stime di Confindustria Moda su dati Istat la crescita è stata costante dal 2014: in cinque anni il fatturato è passato da 8,7 miliardi a 9,9 (+13,7%). Certo, la parte maschile è ancora un Davide se confrontata con il Golia della parte femminile. Vale il 18% del turn-over complessivo della filiera del tessile-moda nazionale e il 28,7% della sola parte abbigliamento. Percentuali che indicano quanti siano ancora gli uomini che considerano vestirsi una necessità, non un piacere o un modo per esprimersi. L’evoluzione dei volumi di vendita è chiara, ma come sta cambiando l’offerta? La Settimana della Moda che si è articolata
sull’asse Firenze-milano, un unicum nel panorama mondiale, ha dato alcune indicazioni. O meglio: ha dipinto un quadro a tinte e tratti eterogenei e per molti versi entusiasmante. Uomini e donne, almeno su questo, sembrano muoversi in parallelo: una volta, alla fine di una tornata di sfilate o di fashion week, ci si chiedeva quali sarebbero stati i trend di stagione e cosa avremmo indossato di lì a qualche mese. Oggi la domanda viene spesso posta, ma dare una risposta è diventato impossibile. O meglio, occorre dare risposte molto più articolate. Non esiste più neppure il total look, cancellato dal mix and match: la pratica di mischiare capi e accessori di marchi del lusso con quelli di catene fast fashion, e, auspichiamo, da una maggiore consapevolezza e desiderio di non omologarsi. Stiamo semplificando, ovviamente: in Cina, per esempio, l’astinenza da consumi del periodo che ha preceduto l’apertura del Paese al mondo è alla base di mode e trend come li abbiamo intesi anche in Occidente per molto tempo. Hanno vita più breve però, e i consumatori sono diventati sempre più infedeli. Più che sulle tendenze – viste tra gli stand, gli eventi di Pitti, le sfilate e le presentazioni in showroom di Milano – vale la pena di dare conto di alcune riflessioni sul significato di mascolinità fatte da stilisti come Giorgio Armani, Domenico Dolce e Stefano Gabbana, Miuccia Prada, Alessandro Sartori da Zegna, Alessandro Michele da Gucci, Walter Chiapponi da Tod’s e molti altri ancora. Lo stesso vale per gli stimoli che arrivano da Parigi, che, come accade sempre in gennaio e giugno per la moda maschile e in febbraio e settembre per quella femminile, raccoglie il testimone da Milano e completa la presentazione delle collezioni della stagione successiva (ammesso che si possa ancora ragionare in termini di stagioni, ma questa è una storia a parte). Nella capitale francese hanno dato un ulteriore contributo a dipingere quel quadro multicolore e multiforme di cui parlavano all’inizio Pierpaolo Piccioli da Valentino, Virgil Abloh da Louis Vuitton e altri ancora. Nessuno degli stilisti che abbiamo citato sembra aver l’ambizione – che forse esisteva in un recente passato – di poter dettare una tendenza universale. Il punto di partenza è uguale per tutti: riflettere sul significato di mascolinità e interpretarla, almeno per una stagione. Per la prossima, chissà, perché
todo cambia, come canta Mercedes Sosa, e lo fa in fretta. Sicuramente possiamo dire che si è vista una nuova enfasi sul sartoriale (inteso come cura del dettaglio, attenzione, precisione, cosa diversa quindi dal formale) e sull’importanza dell’artigianalità. A parte questo, liberi tutti, di riflettere e di creare: «Non c’è niente di più moderno di un giovane uomo che indossa un tessuto che poteva essere del nonno, e che lo fa senza nostalgia», ha detto Giorgio Armani nel backstage della sfilata Emporio, il marchio rivolto, appunto, a un pubblico più giovane. «Da giorni non sento parlare che di sostenibilità, mascolinità e… di ritorno della cravatta», ha spiegato vagamente beffarda Miuccia Prada a pochi minuti dalla sfilata alla Fondazione Prada, che ha colpito per l’allestimento teatrale (curato da Rem Koolhaas). «Nella moda femminile ho sempre ambito a dare un contributo nel processo di empowerment delle donne. Cosa posso fare per gli uomini? Renderli un po’ più gentili, credo, ma senza imporre alcunché», ha aggiunto la stilista. Nel backstage di Gucci, Alessandro Michele ha cercato di spiegare la sua visione (e i modelli con la gonna o con la borsetta mandati in passerella): «Non è mia intenzione distruggere la mascolinità, desidero espanderla». Qualunque cosa questo voglia dire, potremmo aggiungere. Più diretto il messaggio di Domenico Dolce e Stefano Gabbana, che hanno costruito una collezione partendo dall’artigianalità e dalla valorizzazione di antichi mestieri con una forte componente manuale: lode ai sarti, quindi, ma anche a panettieri, giardinieri e pastori. «Non sposiamo la teoria dell’unisex a tutti i costi, della mancanza totale di confini tra generi», hanno detto i due stilisti. «Una donna che decide di indossare un cappotto dal taglio maschile può essere lo stesso molto femminile, un uomo con la gonna di maschile conserva ben poco». A meno che, forse, non sia il Sean Connery di qualche anno fa, orgogliosamente scozzese (e mascolino) con uno dei suoi kilt.