RAGIONE E SENTIMENTO
Negli Stati Uniti, dove un ragazzo nero su tre è destinato a finire in galera, l’avvocato BRYAN STEVENSON difende le minoranze dai pregiudizi e dagli errori giudiziari. Il film Il Diritto di opporsi, con Michael B. Jordan nei suoi panni, racconta il primo caso che ha seguito
Montgomery, Alabama, uno degli Stati più neri dell’america del Sud. Nella città che ospitava il primo porto d’attracco e scarico di esseri umani rubati all’africa sorgono oggi il The Legacy Museum – il primo spazio espositivo totalmente dedicato alla storia della schiavitù negli Stati Uniti – e il National Memorial for Peace and Justice, in ricordo delle persone di colore vittime di linciaggio. Chi ha la fortuna di passare da queste parti e di visitarli deve dire grazie all’avvocato Bryan Stevenson e alla sua Equal Justice Initiative, l’organizzazione no profit che ha fondato 31 anni fa per porre fine ai racial profiling nelle prigioni e all’incarcerazione di massa, fornire rappresentanza legale a persone che sono state ingiustamente accusate, condannate e soggette ad abusi nelle prigioni dell’alabama, occupandosi soprattutto di detenuti condannati a morte. Ovvero: occupandosi proprio dei discendenti degli schiavi africani e delle discriminazioni razziali che continuano a subire. Appena approdato nelle sale, il film di Destin Daniel Cretton Il diritto di opporsi è tratto dal suo libro omonimo (Fazi editore) e racconta la storia vera di cui fu protagonista lo stesso Bryan Stevenson, interpretato da Michael B. Jordan, dopo la laurea in legge ad Harvard, quando si trovò a difendere un uomo accusato ingiustamente – e condannato alla pena capitale – per l’uccisione di una donna bianca (il ruolo di Walter Mcmillian è di Jamie Foxx).
Qual è il messaggio del film?
Per me è un modo di educare soprattutto le nuove generazioni. Non siamo ancora liberi dall’eredità della schiavitù e dell’ingiustizia razziale, dobbiamo ancora affrontare tutti i problemi che ha creato la storia. E non è possibile capire davvero questioni come la violenza della polizia, l’incarcerazione di massa, la pena di morte, la punizione estrema, la discriminazione razziale o l’immigrazione senza avere una più ampia conoscenza di ciò che è accaduto. Il fatto che non si affrontino questi temi neppure nelle scuole ci ha reso cittadini vulnerabili, confusi sul nostro retaggio culturale. Ecco perché bisogna parlarne il più possibile. Dal 1877 al 1950 sono state uccise – bruciate vive, linciate, affogate, torturate, picchiate a morte – oltre 4.400 persone di colore, tra cui donne e bambini. Da allora non abbiamo fatto molti progressi: le minoranze sono ancora discriminate e il suprematismo bianco è in ascesa in tutto il mondo.
Per questo avete fondato il National Memorial for Peace and Justice e il The Legacy Museum.
Sì, per stimolare l’interesse sul tema, per raccontare la tratta degli schiavi, la violenza attuata in tutto il Sud degli Stati Uniti, i problemi del nostro sistema carcerario attuale... Gli Usa hanno il più alto tasso di incarcerazione al mondo. Ora, i neri rappresentano il 4,25% della popolazione mondiale, eppure nel nostro Paese il 22% di loro è in galera. Sono molto contento del film perché spero che possa creare un nuovo dialogo, e portare anche qualche cambiamento. Anche se il The Legacy Museum e il National Memorial for Peace and Justice sono i primi siti dove informarsi su tutto quello che è successo realmente in passato, per confrontarlo con il presente e, magari, riflettere sul futuro.
Com’è realmente la situazione, oggi? Peggiore di 40 anni fa. All’inizio degli Anni 70 le nostre prigioni contavano una popolazione di circa 300.000 persone, da allora il numero è cresciuto a 2,3 milioni, con 4,5 milioni in libertà vigilata e condizionata. Nelle grandi città come Los
Angeles, New York, Chicago, Washington, più del 50% dei prigionieri sono di colore. A causa della Three Strikes Law, la legge dei “tre colpi”, ho rappresentato clienti condannati all’ergastolo senza condizionale per crimini minori, come piccoli furti o possesso di marijuana. Questa pratica di incarcerazione di massa e di pena eccessiva è senza dubbio una delle eredità della schiavitù. Molti dei miei clienti sono minorenni. Gli Stati Uniti sono l’unico Paese al mondo dove è possibile condannare un bambino di 13 anni a morire in prigione. La verità è che il nostro sistema giudiziario tratta meglio i ricchi colpevoli rispetto ai poveri innocenti.
Perché ha scelto Montgomery?
In Alabama non esiste il difensore d’ufficio, quindi per chi è accusato ingiustamente e non può permettersi un avvocato è praticamente impossibile dimostrare la propria innocenza. Inoltre si tratta di una città storicamente rilevante: ha ospitato uno dei principali mercati di schiavi ed è stata teatro di violenze aberranti, ma anche di speranza. Il movimento per i diritti civili degli afroamericani è nato proprio qui: il 1 dicembre del 1955, il famoso «no» di Rosa Parks ha cambiato la storia. Ecco, per me Montgomery significa opportunità di cambiamento, un modello da seguire per la nascita di una nazione diversa, la culla di una nuova narrativa che dovrebbe riguardare tutti gli Stati Uniti e, forse, anche tutto il mondo.
Ricorda la prima volta che è stato vittima di razzismo?
Sì, in maniera vivida. Mia madre aveva messo da parte i soldi necessari per portarci a Disney World con il gruppo della chiesa. Mia sorella e io eravamo molto eccitati all’idea della gita, soprattutto quando abbiamo scoperto che avremmo alloggiato in un albergo con la piscina, in cui non avevamo mai nuotato prima. All’arrivo ovviamente ci siamo subito tuffati: immediatamente, tutti i genitori bianchi hanno fatto uscire i loro figli dall’acqua. Uno di loro mi ha anche detto «sporco negro». Per noi è stata un’esperienza traumatica, anche se la vera domanda che farei io a quei bambini è: «Vi siete mai chiesti davvero perché siete dovuti uscire da quella piscina? Per il colore della nostra pelle?».
Come ha superato questo trauma? Grazie alla storia. Il mio bisnonno era schiavo in Virginia, ma ha sempre sognato di diventare freeman, un uomo libero. È stata questa speranza a spingerlo a imparare a leggere e a insegnarlo a mia nonna, che poi avrebbe fatto lo stesso con mia madre. Lei era molto fiera della sua educazione e mi ha spinto a studiare, addirittura a laurearmi ad Harvard. Perché la mia storia non è fatta solo di dolore e di angoscia, ma anche di potere: se il mio bisnonno, nonostante le avversità, ha imparato a leggere, tutti possiamo sognare un mondo migliore. Per onorare la loro memoria devo conservare la stessa speranza, immaginare realtà che non ho ancora potuto vedere e credere a cose che non sono ancora accadute. È proprio questa capacità di credere il motivo per cui lotto tutti i giorni: spero di vivere un giorno in un Paese dove non c’è la pena di morte, dove le persone di colore vengono
«IL SISTEMA TRATTA MEGLIO I RICCHI COLPEVOLI DEI POVERI INNOCENTI»
trattate in modo equo. È questa la forza della nostra storia, della mia gente, e cerco di usarla nel miglior modo possibile.
Quanto è difficile la sua battaglia? Nessuno prima di me aveva cercato di fare quello che faccio, non avevo precedenti da cui imparare. Nessuno prima di Equal Justice Initiative aveva sfidato l’ingiustizia razziale ed economica e cercato di proteggere i diritti umani, fondamentali per le persone più vulnerabili della società. All’inizio ho incontrato una certa resistenza perché le persone non capivano che intenzioni avessi, ma anche grazie ai miei clienti – che purtroppo hanno sempre dovuto sopportare molto di più di me – sono riuscito a non lasciarmi intimidire. Nel mio mestiere ci sono molti momenti difficili, non sempre i miei clienti vengono liberati o arrivano a ottenere la sentenza che meriterebbero. Quindi, per me ottenere giustizia è una lotta costante e la capacità e la volontà di lottare definiscono l’efficacia dei miei sforzi. Tutti quelli che lavorano con me sono consapevoli del fatto che dobbiamo essere pronti ad affrontare il peggio, perché non sempre possiamo ottenere quello che vorremmo. In ogni caso, questo è l’unico modo per creare un sistema di giustizia equo. Non è facile, ma rende il processo più tollerabile.
Quindi, la giustizia funziona? Assolutamente sì, se viene esercitata con coscienza. Il bello della giustizia è che un verdetto favorevole, onesto, leale può sollevare lo spirito di un gruppo di persone in un modo inimmaginabile, quasi surreale. Basta pensare alla gioia dei miei incarcerati – molti dei quali sono diretti discendenti di schiavi, nipoti e pronipoti di persone linciate e uccise – quando alla fine riescono a vincere il sistema. Questo è il bello della giustizia.
Come si possono cambiare le cose? Mi ripeto: conoscendo la storia. Quando mi sono trasferito a Montgomery, a metà degli Anni 80, ho scoperto che la maggior parte della popolazione non era affatto a conoscenza dei linciaggi del passato, anzi, ammirava le decine di monumenti eretti per commemorare gli “eroi” della Guerra di Secessione. Il compleanno di Jefferson Davis, che fu presidente degli Stati Confederati, viene ancora celebrato come festa ufficiale. Ora, se non sai come mai celebri la festa di un razzista, perché mai dovresti sentirti colpevole o responsabile delle sue azioni? Perché dovresti pentirti e cercare di contribuire a riparare i danni subiti da milioni di persone? Questa ignoranza mi preoccupa, non solo per il nostro passato, ma per come affrontiamo il presente e il futuro. Un altro motivo per cui il Museo e Memorial sono di fondamentale importanza.
Per il design del National Memorial for Peace and Justice si è ispirato ad altri monumenti?
Sì, volevo integrare tutti gli elementi possibili dedicati al razzismo nelle varie parti del mondo. Mi sono ispirato all’apartheid Museum di Johannesburg, progettato da Linda Mvusi, all’holocaust Memorial di Peter Eisenman a Berlino e al Lincoln Memorial di Washington. Quando vai in Germania non esistono statue di Hitler da nessuna parte, ma ci sono musei e luoghi dedicati a questa parte orribile della loro storia, perché è importante non dimenticare, e insegnare alle generazioni future come evitare di ripetere questi errori. E pensare che nel Sud degli Stati Uniti ci sono ancora scuole frequentate solo da afro americani che battono bandiera degli Stati Confederati, e che portano i nomi dei generali più crudeli dell’unione. Incredibile. È il sintomo di una malattia profonda, alla quale spero che un giorno troveremo la cura.
«LA CAPACITÀ DI LOTTARE DEFINISCE L’EFFICACIA DEI MIEI SFORZI»