PRIMA LA COSA BELLA
Ogni nuova esperienza dà una scossa al cervello, modella l’esistenza e il modo di percepirla, condiziona le decisioni future: Valter Tucci*, che è un esperto di genetica ed epigenetica del comportamento, spiega tutta la magia nascosta nell’ IMPRINTING emotivo. E in un bacio
Imprinting emotivo: come si “stampa” un’emozione in un cervello? Partiamo dalle emozioni che ci sono innate: sono quelle più basiche, che hanno il compito di farci reagire davanti a un evento. Per esempio, provando empatia o scatenando aggressività. Risiedono nell’amigdala, la struttura che regola la capacità di riconoscere cosa ci fa bene e cosa male, e da lì intrecciano connessioni: con l’ipotalamo, che le traduce in risposte fisiologiche, con l’ippocampo, dove si consolidano i ricordi, e con gli 80 miliardi di neuroni che a loro volta passano il tempo a interfacciarsi fra di loro, per non parlare di quello che avviene dentro lo stesso neurone.
Questa sarebbe la dotazione, diciamo, del kit di partenza.
E su questa base si innesta il resto, e cioè i fattori esterni. Che a loro volta sparigliano le carte. La cura che una madre ha del proprio figlio, per esempio, è sufficiente a modificare la mappa epigenetica dei circuiti neurologici del nuovo nato. È insomma il comportamento della prima a suggerire come potrebbe svilupparsi il secondo. Ma nell’imprinting finale − compreso quello delle emozioni − giocheranno un’infinità di variabili con effetti infinitamente modificabili: i marcatori epigenetici, che sono una sorta di codice a barre della funzione del Dna, sono flessibili. In sostanza: il cervello impara dalle esperienze e, in base a queste, inizia a virare. Un’attività, tra l’altro, che non abbandona mai.
Ma la cosiddetta “prima volta” è paragonabile a un rito di passaggio?
Dal punto di vista del cervello ogni nuova esperienza crea un evento dalla valenza emotiva molto alta: di conseguenza quella memoria tornerà ogni volta che si verifica un episodio analogo. Una specie di matrice, che viene resa più forte dal contributo di altre aree cerebrali. In laboratorio è possibile disturbare, per esempio, la creazione di memorie permanenti: se mando una scossa elettrica, il soggetto avrà uno choc; se lo distraggo subito dopo, lui registrerà quell’azione negativa con minore impatto. Per maturare un ricordo ci vogliono un contesto in cui collocarlo e il tempo per assimilarlo: non è un caso se di notte il cervello rielabora i fatti del giorno, consolidando quelli importanti e cancellando quelli secondari.
Quanto è importante ricordarsi delle prime volte, che nel corso di una vita possono essere infinite? Abbastanza, ma non è determinante. Ogni circostanza innesca una serie di processi neuronali che ci portano ad agire/reagire in un certo modo rispetto a un avvenimento. È come un comando sottotraccia, che contribuisce alla formazione della personalità. Perché ciò avvenga bisogna però pensare a
un episodio in un ambito in cui accadono molte altre cose, che a loro volta produrranno nuovi eventi, provocando continui cambiamenti molecolari. Siamo il risultato di una miriade di piccoli geni che compiono micro-azioni sparse nello spazio della nostra crescita: ma per quanto minuscolo, quel singolo gene può influire sui diversi tratti del nostro carattere e, quindi, sui nostri comportamenti futuri.
Il piacere che si prova ci trasforma tutti in cacciatori di emozioni? Non necessariamente. C’è chi ne ha bisogno per sentirsi vivo, e chi continua a preferire la monotonia e la stabilità. Si può nascere geneticamente simili ed essere predisposti allo stesso sviluppo ma prendere direzioni opposte. Si è visto anche nei topi: geneticamente identici, hanno la pelle di colore diverso, perché l’evoluzione ha inserito in quei geni delle sequenze sensibili ad un altro processo biochimico, la cosiddetta metilazione del Dna. Che tradotto significa quella sana variabile che ci rende allo stesso tempo uguali e diversi: quasi la metà del genoma è costituito da elementi piuttosto attivi nel rispondere agli stimoli dell’ambiente circostante. Dall’istante della nascita si può diventare tutto, e anche il suo contrario.
Cosa cambia tra una prima volta sperimentata
da piccoli e quella da adulti? Molto. L’adolescenza è quell’età in cui gli ormoni si riorganizzano e influenzano i neuroni; quindi, la percezione delle emozioni. Nel cervello dell’adulto invece i sentimenti hanno uno sviluppo, diciamo, più lineare. Se c’è differenza tra uomini e donne? È un tema affrontato più in psicologia che in epigenetica, ma è un fatto che i transgender che assumono classi diverse di ormoni per diventare donne sperimentano anche un’evoluzione della mentalità e delle proprie reazioni.
Se l’imprinting della prima volta è particolarmente felice, quelle successive verranno penalizzate nel confronto? È probabile. Ma c’è una differenza tra esperienza positiva e negativa: si è capito che la prima è più difficile da ricordare sulla lunga distanza. Infatti in laboratorio, quando si tratta di condizionare una cavia, si sceglie lo stimolo negativo, più facile da installare. Un bacio alla fine lo dimentichi, uno schiaffo no.
C’è un senso che è più collegato di altri nella percezione di un’emozione? Ci sono delle differenze soprattutto tra specie. Quelle con un sistema visivo povero per esempio si affidano all’olfatto,
un senso che nell’essere umano viene sottostimato. Sbagliando: spesso il cervello lega più facilmente un evento impattante a un odore. L’uso dei cinque sensi dipende, ancora una volta, da cosa abbiamo imparato negli anni della crescita e durante lo sviluppo del sistema neuronale. Ci sono delle finestre temporali precise, dentro le quali gli stimoli ambientali decidono molto di come e cosa sentiremo da adulti: per alcuni certe fasi risultano più ricche di altre e sono queste ad installare le modalità on e off. Per me, ad esempio, quella vincente passa da quanto osservo durante la sensazione.
C’è sempre una prima volta in attesa e coglierla fa restare giovani: vero o falso? Vero. Ogni prima volta mette in moto funzioni che danno benessere al cervello. Che è un bel modo di tenerlo in forma.
* Valter Tucci, direttore del laboratorio di genetica ed epigenetica del comportamento dell’istituto Italiano di Tecnologia di Genova, è autore di I geni del male (Longanesi, pagg. 272, 16,90€)