MI SDOPPIO IN QUATTRO
Finanziere e scrittore di successo, GUIDO MARIA BRERA analizza e racconta i tempi attuali con un acume esemplare. Corteggiato (invano) perfino dalla politica, per ora preferisce che il suo best seller, I Diavoli, diventi una serie tv con Alessandro Borghi e Patrick Dempsey
L’ultima volta è come la prima, e centinaia di altre nel mezzo. C’è una sala di attesa illuminata al neon anche in pieno giorno, con finestre minuscole, troppo in alto per guardare davvero oltre il muro. Le sedie di plastica sono scomode, fatte apposta per ricordare che sarà bello essere fuori, fra qualche ora. E il tempo è lento, quasi immobile: pungola i pensieri, li costringe a venire allo scoperto. Guido Maria Brera è lì, seduto in quell’attesa: in un ospedale, pubblico, fuori da una stanza in cui è in corso un intervento. Su sua madre. «Una cosa piccola, non complicata», precisa. Un’operazione per cui però la fila è lunga, e la gratitudine verso chi se ne occupa anche maggiore. È una sensazione, quella della riconoscenza che nasce dal tempo, con cui ha una certa familiarità. Ne ha fatte molte di file così, con libri e quaderni sulle gambe, negli anni: durante il liceo classico frequentava la comunità di Sant’egidio e aveva preso l’impegno settimanale di «accompagnare le signore meno fortunate alle loro visite. L’ospedale, le code, la speranza per me sono una specie di eterno ritorno». Tre decenni e passa dopo, al posto dei libri c’è un cellulare che squilla, all’altro capo giornalisti che vogliono chiacchierare: I Diavoli hanno cambiato tutto, ma quasi nulla di quello che lui ritiene valga la pena raccontare, a partire dalle definizioni di se stesso. A 50 anni esatti non è facile sceglierne una sola: Brera si guadagna da vivere con la finanza, certo. Ha fondato una società di risparmio gestito che si chiama Kairos (in greco antico indica il tempo giusto, quello divino). Business di un certo impegno e di grande successo, con nome altisonante. Ma La fine del tempo è anche il titolo del suo nuovo romanzo atteso a metà febbraio (esce per La nave di Teseo, casa editrice che ha contribuito a fondare). E in primavera, ad aprile, arriverà su Sky anche la serie tv I Diavoli, tratta dal suo bestseller omonimo. Un esordio dal quale è nato anche un collettivo di scrittori e sceneggiatori che indaga e racconta il mondo in cui viviamo, una società spesso da leggere in filigrana. È la stessa operazione con cui, nel 2014, ha raccontato appunto la storia di Massimo: italiano trasferito a Londra, trader di successo, promosso al tavolo dei grandissimi nel momento in cui però si gioca una partita più grande di lui e persino dei flussi di denaro che attraversano gli oceani. E mentre le cose succedono, le operazioni si fanno più spregiudicate e i rapporti di potere più complessi, una specie di consapevolezza originaria, l’imprinting di un’infanzia e di un’adolescenza semplici, aiutano l’uomo a ricondurre gli elementi a un disegno preciso, e la sua vita in un posto diverso. In quel protagonista redento molti hanno voluto vedere Brera stesso: anche lui italiano, talentuoso, trasferito nella City e poi rientrato in Italia, disposto a dire tutto. «Ma io non sono il finanziere che denuncia la finanza, non ho rinnegato un mondo. Volevo solo raccontare un’era: la finanza è uno strumento politico, e dal mio punto di vista di osservatore privilegiato ho potuto vederlo e spiegarlo prima di altri». Per detrattori e sostenitori, il messaggio è univoco: non cercate giudizi di valore, nello scrittore e nel professionista, perché non li troverete. «Le cose sono complesse, articolate. Non esistono buoni e cattivi, realtà sempre giuste o sbagliate. Il mio obiettivo con I Diavoli – prima il libro e ora la serie – è raccontare la complessità. E quella della finanza, a chi la sa guardare, dice molte cose: dalla caduta del Muro in poi, è anche la storia di una generazione». La sua, ovviamente, quella diventata adulta con la fine delle certezze, delle dicotomie, degli ideali preconfezionati. Di chi scivola in abitudini, le assorbe e le dimentica, fino a perdere di vista l’orizzonte.
«Ricordate la storiella di David Foster Wallavere ce? Ci sono due pesci che nuotano in una direzione; di fronte a loro arriva un terzo pesce, più anziano. “Com’è l’acqua oggi?”, chiede ai due salutandoli. Quelli si guardano perplessi e rispondono: “Cos’è l’acqua?”». Se non siete cultori dello scrittore americano
– morto suicida, a proposito di consapevolezze
la storiella merita una lettura di prima – mano: Questa è l’acqua (Einaudi) è il titolo del volume in cui è contenuta. Brera l’ha sposata: «Io provo a essere il pesce vecchio, mi sforzo di vedere le cose più dall’alto, e mentre scrivo faccio un’autoanalisi che poi restituisce parecchio».
Come si capirà guardando la serie e leggendo l’ultimo romanzo, non abbiamo insomma di fronte un Gordon Gekko (Wall Street di Oliver Stone, 1987) in ritardo di tre decenni. «Il mio problema quando ho iniziato a scrivere era far capire quello che avevo dentro e che volevo cambiare del mio lavoro, senza essere confuso del tutto con il protagonista», ammette. Si torna alle finestrelle della sala d’attesa, alle stanze anguste,
e metaforiche, all’esigenza di guardare fuori dal recinto. «Ho bisogno di cercare spazi, di guardare oltre: un atteggiamento che è l’imprinting di chi ha paura. Io ne ho sempre avuta parecchia».
L’aneddotica racconta che i dubbi erano tanti e tali che, quando si è deciso a mettere su carta il mondo dentro all’acquario della finanza, ha iniziato a farlo a matita: «Non potevo che scegliere un tratto che si può cancellare, come tutti quelli che non coltivano certezze ma interrogativi», conferma. «D’altronde, la finanza è stata sempre vissuta come legata alle aziende, e invece l’abbiamo narrata come uno strumento politico. Biopolitico, anzi, come diceva Foucault».
Ovvero come un mezzo per gestire e controllare il corpo degli uomini, e dunque per disegnare la storia. Il romanzo infatti traccia una linea direttissima tra la crisi economica che investì la Grecia, il futuro dell’europa, i grattacieli di Wall Street e della City, le battaglie per l’egemonia planetaria. Ma lo fa a partire da cose piccole: un protagonista che per capire i movimenti di capitali si ricorda degli oceani, del suo mare, delle tecniche di pesca.
Che su I Diavoli esistano parecchie tesi di laurea non stupisce. E nemmeno che quella riflessione primigenia abbia continuato a crescere, fino a trovare nuove forme. «La fine del tempo racconta molto di me. Il libro è un dialogo fra tre personaggi che arrivano dal romanzo precedente. Uno di loro è la mia versione fantasiosa di Federico Caffè, economista sui cui libri ho studiato e uomo che ho amato molto. Ho immaginato che potesse tornare nel nostro mondo, fare analisi e proporre soluzioni».
Il romanzo non contiene la risposta alla crisi di questi tempi politica, economica,
– umana ma una volontà che Brera persegue
– con coraggio, o forse con ingenuità. «Ho fondato un collettivo di scrittura composto stabilmente da sette persone. È nato descrivendo il mondo immaginario de I Diavoli sul web, in cui ogni personaggio rappresenta qualcosa: c’è il trader cinico, il vecchio nostalgico delle socialdemocrazie di un tempo, l’uomo senza scrupoli e quello che ha dovuto mettere ordine, una specie di Grande Inquisitore di Dostoevskij». Il gioco, una specie di passatempo, si è evoluto in qualcosa di più impegnativo, di più importante. «Ci siamo messi a studiare tutti i dispositivi di controllo. Non solo la finanza ma anche la tecnologia, e il loro incrocio. E abbiamo iniziato a creare un pensiero nuovo». Con cui si potrebbero riempire non solo le pagine di libri o le puntate di una serie tv, ma anche i programmi e i discorsi dei politici, che di idee hanno bisogno più dell’aria. «Qualcuno ciclicamente mi ha cercato. Però io penso che fare politica sia anche creare idee e poterle elaborare: in una fase così povera di proposte, analizzare il presente e tirare fuori progetti è già un’operazione politica. Non sogno la politica come discesa in campo. Piuttosto, voglio analizzare un’era complessa come quella attuale. Per me, se qualcuno è interessato alla nostra elaborazione e la vuole prendere, va bene». Guido Maria Brera mantiene discrezione su chi sia stato a provare a intercettarlo, ma è chiaro
«PER GESTIRE IL DENARO NON DEVI SUBIRNE IL FASCINO SE NO PERDI LUCIDITÀ»
che il suo volto fotogenico sarebbe stato perfetto per i manifesti elettorali di quasi ogni parte: dei liberali e degli arrabbiati, dei professori e degli uomini di azione.
Invece, il viso che si vedrà in giro nei prossimi mesi sarà quello di Alessandro Borghi, l’attore che interpreta Massimo – protagonista de I Diavoli – nella serie Sky dalla gestazione lunghissima. «Ettore Bernabei si innamorò del libro e dopo la sua morte i figli hanno rispettato il desiderio del padre di farne una serie. Con gli sceneggiatori abbiamo riscritto la storia, adattandola al mezzo. E Sky con pazienza e dedizione ci ha aiutati a raccontare la complessità che ci interessava narrare. In tutto questo viaggio, lungo e articolato, i compagni sono diventati amici veri, fraterni. Borghi è un attore eccezionale, ma è soprattutto un uomo eccezionale, di una sensibilità particolarissima. Una sensibilità che mi ha commosso».
Potrebbe essere legittimo domandarsi come si tengono insieme la commozione e il successo, la sensibilità e il denaro, la ricerca della verità con una complessità che giustifica – o quantomeno può giustificare – quasi tutto. Ma su questo Brera non ha dubbi né esitazioni. «Certo, sono stato catapultato a una notorietà che non avevo immaginato, ma ho un antidoto per affrontarla. Niente formule magiche: banalmente, sono molto radicato ad alcuni valori. E nella scala di priorità che mi sono dato il successo non è rappresentato». Né, aggiunge, lo sono i soldi, che pure costituiscono lo sfondo di tutta la sua vicenda, nonché della sua analisi della realtà. «Il fatto è abbastanza semplice: per gestire il denaro non devi essere attaccato ai soldi, perché altrimenti perdi la lucidità. A me i soldi non sono mai interessati particolarmente». È il paradosso del motore del mondo, e se pochi possono apprezzarne l’ironia è perché tutto intorno la famosa complessità ha raggiunto un punto di implosione che annichilisce i più.
Lo sa bene, Guido Maria Brera. E aver scansato la possibilità di diventare un tormentone sui manifesti elettorali gli dà l’opportunità di vederlo con i suoi occhi, anche fuori dall’acquario della finanza: nella sala d’attesa di un ospedale, per esempio.
«La crisi che viviamo è così profonda e l’occidente così statico che non riescono più a esprimersi nemmeno le aspirazioni. Le classi sociali sono ferme, gli ascensori sociali bloccati: il mondo è intrappolato in un eterno presente. Non dico che non esista il futuro, figuriamoci, ma quando le cose sono messe così è difficile anche sognare. È per questo che il mio nuovo romanzo si intitola La fine del tempo». È un auspicio, affatto banale, per il futuro: poter ricominciare a crederci. Il movimento dei pensieri come antitesi alle sabbie mobili, alla rassegnazione. Pur nelle incertezze, nelle paure, nel timore di sbagliare. «Ai miei figli, infatti, auguro e insegno a dubitare. Non a sospettare, che è un’altra cosa, ma a interrogarsi. Anche quando significa avere paura».
Che si tratti di una buona idea lo dice anche una poesia. Gliel’ha spedita Walter Siti, scrittore celebrato, amico carissimo. E fate finta che sia un tratto leggero di matita, quello che Brera ci legge, al telefono, seduto fuori dalla sala operatoria, in una mattina come tante: «Le anime cui non piace viaggiare non sentono i richiami dell’altissimo. Gli altri, i nati mistici, il Signore non li vede neppure, gli interessano quelli con le paure». Era un regalo di Natale, quel testo, contenuto in un messaggio: «Uno dei più belli che abbia ricevuto».
Dunque coltivate il dubbio, non temete la paura, abbracciate la complessità: se dovesse ripensarci, se a un certo punto alla politica Brera decidesse di prestarsi davvero, lo slogan per la campagna elettorale sarebbe già pronto.