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NATE PARKER Il protetto di Spike Lee racconta l’immutato razzismo degli Stati Uniti

Per il regista NATE PARKER garantisce “suo fratello” Spike Lee. Premiato a Venezia, American Skin è una dura denuncia del razzismo negli Stati Uniti. Dove nessun nero può sentirsi sicuro. Dove aver avuto Barack Obama presidente non è bastato

- Testo di ELISABETTA COLANGELO

Cominciamo dalla fine. L’incontro con Nate Parker si è appena concluso, ma Spike Lee fa un cenno. Vuole sapere se American Skin fa piangere (la risposta è: sì): bro, “fratello” di Parker, e suo mentore, dice che quando l’ha visto lui si è sentito colpito al cuore. E che spera faccia discutere, ma tanto, tutti quanti.

American Skin (in sala dal 30 aprile) è la seconda regia di Nate Parker, 40 anni, attore, regista, sceneggiat­ore e produttore. È un film durissimo. Racconta di un afroameric­ano, il cui figlio adolescent­e viene ucciso dalla polizia per un malinteso, durante un controllo, e della lotta disperata per ottenere giustizia. Denuncia quanto le tensioni razziali siano ancora ben radicate negli Usa: il titolo rimanda alla canzone American Skin (41 shots) con la quale Bruce Springstee­n ricorda Amadou Diallo, lo studente liberiano ammazzato a New York nel 1999, prova provata dei pregiudizi delle forze dell’ordine. L’ultima statistica nazionale dice che al 24 dicembre 2019 la polizia ha sparato a 897 civili: 205 di questi erano neri, gli ispanici 149.

Parker arriva a questa storia quattro anni dopo l’esordio con The Birth of a Nation, il suo punto di vista sulla schiavitù. Quando è arrivato alla Mostra del Cinema di Venezia, l’anno scorso, il plauso è stato unanime e ha condotto alla vittoria nella sezione Sconfini. Ciò nonostante, si è riaccesa la polemica su Parker, che quando era studente restò coinvolto in un processo per stupro. Fu assolto, ma oggi basta quella parola per far sanguinare la ferita aperta dell’america. Perciò è sceso in campo Spike Lee: il suo nome non appare nei crediti del film, ma ha definito Parker un brother e lo ha accompagna­to ovunque. Anche all’appuntamen­to per questa intervista.

Gli Stati Uniti sono stati capaci di eleggere un presidente nero, Barack Obama. Perché c’è ancora bisogno di fare luce su vicende come questa?

Perché nel nostro Paese essere neri è ancora una questione difficile. Non è passato molto tempo da quando i neri non avevano nemmeno lo status di “persone” a tutti gli effetti: perciò dobbiamo continuare a lottare, soprattutt­o per far rispettare i nostri diritti all’interno del sistema giudiziari­o. Ci sono innocenti a cui si spara solo per il colore della pelle: è un fatto, accade di continuo. Spike Lee è famoso, tutti lo conoscono, eppure non è un lasciapass­are: se si trovasse alla guida della sua macchina nel quartiere sbagliato e venisse fermato dalla polizia, potrebbe finire ammazzato. Vale anche per Barack Obama: se andasse a fare una cosa di notte, in certe zone, non sarebbe al sicuro. Perciò mi dico: non posso stare zitto.

Quindi lei crede che il sistema avvalli il razzismo?

Il sistema minimizza il problema: spinge i cittadini a credere che la responsabi­lità dei crimini contro i neri, perché di questo si tratta, sia da attribuire ai singoli, alle mele marce. La nostra società ha ancora molta strada da fare.

In Italia il razzismo è legato soprattutt­o all’immigrazio­ne dall’africa. Lei ha un’opinione in proposito?

Non conosco a sufficienz­a la situazione italiana: quello che posso dire è che American Skin vuole restituire dignità a chiunque sia vittima di un pregiudizi­o razziale e portare il tema all’attenzione di tutti. Bisogna diffondere un messaggio: nessuno è impotente, possiamo cambiare le regole. E al riguardo si sente pessimista o ottimista?

Né l’uno, né l’altro. È la discussion­e − l’interazion­e tra le persone − a fare la differenza. Siamo tutti d’accordo, no? La tensione razziale è un problema, quindi perché non lavorare per risolverlo?

Secondo lei è questo il compito di un regista?

Il lavoro di un artista è rappresent­are la realtà, ma come uomo e padre di cinque bambine (avute con Sarah Disanto, ndr) ho anche la responsabi­lità di migliorarl­a: sento l’urgenza di lasciare un mondo diverso a chi verrà dopo di me. Il cinema può fare molto: penso per esempio all’impatto che ha avuto un film come Schindler’s List sulla questione ebraica. Il mio contributo è intrattene­re con uno scopo. E così fa anche Spike Lee, mio fratello.

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