Felicità sessuale
Come si dà voce al (proprio) desiderio, tra ebraismo, punk e Lou Reed
«Ho appena messo i piedi nella stanza di un hotel a Tucson, Arizona, e… (quindici infiniti secondi di pausa)… Sì, sto bene. E… (altra lunga pausa)… dobbiamo parlare di sesso?». Parliamo di Sex Education, il disco: «… … Certo».
Chi va di fretta non inizi una conversazione con Ezra Furman. Fa interminabili pause: non si capisce se sta riflettendo o perché, intanto che risponde al telefono, sta tirando fuori dalla valigia le collane di perle e camicette a fiori. Molto si è detto su questo 33enne figlio (ma sarebbe più giusto dire figlia) di un agente di cambio e di una scrittrice di manuali, che esagera col rossetto e scrive canzoni rabbiose sull’essere una trans nell’america di oggi, l’amore, la depressione, l’ingiustizia sociale. E il suo ebraismo: «Sì, sono osservante. Non faccio mai concerti il venerdì sera. Niente ascensori o shopping il sabato».
Il 10 aprile la cantautrice di Chicago pubblica l’album con le canzoni scritte per la colonna sonora di Sex Education, la serie Netflix ambientata in un college inglese. Il protagonista è il figlio sedicenne di una terapista sessuale, che inizia a fare lo stesso mestiere della madre per i suoi compagni di scuola, chi con problemi di eiaculazione precoce, chi con dilemmi di identità sessuale. «La serie non si rivolge solo ai teenager: non riuscire a parlare di certe cose è capitato a tutti. È stato così anche per me. A scuola ero imprigionato in me stesso. Mi piacevano sia i ragazzi che le ragazze, avrei voluto poter dire pubblicamente “ecco: io sono così”. La canzone I’m Coming Clean parla di questo. Non sono più un adolescente ma conosco quei momenti, quando ti senti di merda, confuso, angosciato, inadeguato, e riesci a comunicarlo con grande onestà». La verginità, dice, l’ha persa con Sweet Jane dei Velvet Underground in sottofondo. Vero o inventato che sia, fa parte della sua grande ossessione per Lou Reed. «Due anni fa ho scritto un libro su Transformer, il suo album più popolare, quello che mi ha spalancato la testa sulla cultura queer. E sul punk. Ho visto Lou al festival SXSW ad Austin una decina di anni fa: alla fine del concerto disse “amo il punk, sono stato il primo a farlo”. Lavorando al libro ho pensato molto a quanto il punk e la religione ebraica siano stati importanti per me quando avevo 15 anni. Mi piace descriverle entrambe come due sottoculture. L’ebraismo mi fa sentire parte di una minoranza spirituale, diverso dalla maggior parte delle persone. Il punk è come il Romanticismo, molto più che una musica: un altro modo di sentire, di pensare; mi ha dato il coraggio di ribellarmi ai conformismi sessuali. Ma a 14 anni più di tutto volevo suonare la chitarra in un gruppo punk». L’ha ricevuta in regalo per il suo bar mitzvah, e il suo primo disco autenticamente punk è Twelve Nudes, uscito l’anno scorso, condensato di rabbia politica ed emotiva. Il 25 aprile dovrebbe suonare al Covo di Bologna, ma al momento in cui scriviamo è impossibile confermarlo. «Il primo concerto della mia vita credo fossero i canadesi Barenaked Ladies, avrò avuto 13 anni… Invecchiare non mi preoccupa, penso sia un privilegio», conclude. «So di deludere chi ama pensarmi come una persona tormentata, ma io voglio in primo luogo sentirmi un essere umano sano e felice. E solo in secondo luogo essere un’artista».