LA LEZIONE DELLA SERBIA
Nessun Paese più di questo può insegnare la rinascita
Ogni tanto, in questi giorni, pensate a Belgrado, la città al mondo più brava a riemergere, un’arte sulla quale la capitale serba potrebbe (e dovrebbe) aprire un’accademia. Immaginate un viaggio, quando si potrà, per salire sul Kalemegdan, la grande Fortezza, dove guardare la confluenza dei fiumi Danubio e Sava, e riflettere su questi numeri: a Belgrado si sono combattute 114 battaglie campali, la città è stata distrutta 44 volte e 44 volte è tornata in piedi. «La guerra è il nostro compito eterno», recita Marina Abramovic´ in una performance del 1975, ma ricostruire è il destino che ne segue e qui è stato perfezionato nei secoli. È per questo che è vero tutto ciò che si dice di Belgrado: vitale, eccitante, divertente, brutale, devota. Non c’è angolo che non sia attraversato da una corrente elettrica costante: una visita al Marakana, il marziale, leggendario stadio della Stella Rossa, una sera nelle kafane, le taverne della Skadarlija, e la notte nei locali lungo e oltre il fiume.
Le giornate qui e nella città sorella ma più austriaca di Novi Sad, la Gibilterra del Danubio, sono come i climax dei film di Kusturica, un crescendo narrativo e musicale fino a cadere stremati. Intorno a Belgrado e Novi Sad c’è questo Paese assurdo, stranissimo, che sembra un codice da decifrare: la Serbia è una macchina del tempo pronta da accendere. Un viaggio nel passato ha sempre bisogno di una guida, un Emmett L. “Doc” Brown che, come in Ritorno al futuro, sappia guidare la Delorean mentale: in Serbia non si va per guardare, si va per capire. Per questo motivo sono preziosi i tour de I Viaggi di Maurizio Levi, spedizioni in piccoli gruppi, con archeologo o storico al seguito. L’itinerario va verso oriente, usa il Danubio come una corda a cui aggrapparsi, ed è un’antologia di monaci, imperatori, divinità fluviali, icone, superstizioni e guerre. Sulla strada si visitano diversi monasteri ortodossi, il modo migliore per capire l’anima profonda della Serbia.
I monasteri sono un patrimonio nazionale per cui si è sempre combattuto (dal 1300 alla guerra del Kosovo), si trovano in montagna o in collina, d’inverno sono circondati dalla neve e dai lupi e visitati solo dai pellegrini, contengono una forma di silenzio che non si trova altrove. Come se fossero tante piccole Belgrado, ognuna ha la sua storia di guerre, invasioni, resistenze e rinascite. A Sopacani, il più bello di tutti i Balcani, ci accoglie Zosim, monaco under 40 con fisico da giocatore di pallanuoto e barba da film di Tarkovsky. Sopacani fu costruito dal re Uroš e distrutto dai Turchi, e ovviamente è rinato ogni volta che doveva. Gli affreschi sembrano letteralmente dissolversi davanti ai nostri occhi. È l’effetto dell’iconolatria, il contatto con le mani dei fedeli per secoli e secoli ha fatto sparire volti e corpi, e quello che rimane sembra una storia di fantasmi più
che di santi. C’è un affresco di San Filippo che qui chiamano «la Mona Lisa serba», per via dello sguardo, e un San Giacomo di cui rimane solo la cornice del volto: dagli occhi alla bocca, tutto il resto è stato restituito alla parete e alla storia.
Ogni monastero, e Sopacani non fa eccezione, è un piccolo centro di produzione per beni di prima di necessità: rosari fatti con croci di tela intrecciate, la rakija (il distillato nazionale) e soprattutto le icone degli slava, i santi che le famiglie tramandano di padre in figlio. Sono scritte (le icone si «scrivono», non si dipingono) su legno di tiglio, foglia d’oro, cosparse d’olio d’oliva.
Lungo le vie dei monaci si incontra un’altra linea del tempo: in Serbia, al tempo dei Romani, c’era il limes, il confine esterno, oggi non lo ricordiamo (loro sì, ovviamente) ma diciotto imperatori romani erano serbi, incluso Costantino il Grande. E le rovine romane, come Viminatium o la Felix Romuliana, sono magnifiche e surreali, perfettamente conservate e vagamente spettrali. Accanto a Viminatium, nel punto in cui l’impero iniziò a rompersi qualche decennio prima della caduta, nel 2009 un minatore ha scoperto un fossile perfettamente conservato di mammut, che sta lì, al fresco di una grotta, come un guasto improvviso nella macchina del tempo.
La strada verso est procede fin quasi al confine con la Romania, seguendo il Danubio lungo la Porta di ferro, uno degli scenari più spettacolari dell’europa orientale, dove il fiume raggiunge la massima profondità e il punto più stretto. È anche il momento in cui si raggiunge il frammento più remoto della storia, lo scavo di Lepenski Vir. Fu scoperto negli Anni 70 durante la costruzione di una centrale elettrica: è l’insediamento sedentario più antico d’europa, la necropoli del primo popolo del continente che, 8.000 anni prima di Cristo, smise di essere nomade per diventare stanziale. Era gente fluviale, che venerava una divinità metà uomo e metà pesce, e nuotava per cacciare. Le tombe, le case, le primitive icone e tutto quello che ne resta sono in un’immensa e silenziosa teca di vetro tra i boschi.